capitolo 11

Socrate

Dalla teoria alla pratica:
“Conosci te stesso” diventa “Abbi cura di te stesso”.

Prima di una lezione, in attesa di parlare, Oberosler era solito chiudere gli occhi così da lasciare fluire liberamente i pensieri affinché trovassero la loro logica sequenza. Quella mattina, però, dalla girandola dei suoi ragionamenti spuntò l’immagine di Socrate. Oberosler aprì allora gli occhi, fece una smorfia per imprigionare nella sua mente chissà quale ragionamento e incominciò a parlare.


− Se tra i filosofi di tutti i tempi si facesse un concorso di bruttezza, Socrate sarebbe escluso per manifesta superiorità: troppo brutto per gareggiare. Quanti lo conobbero, come Platone e Senofonte, lo descrivono con gli occhi sporgenti, il naso piatto e rivolto all’insù, la bocca esageratamente grande, le labbra gonfie e il fisico sgraziato (“simile a una rana”).


Ma perché occuparci dell’aspetto fisico di un filosofo? Non contano solo le sue idee? Per noi certamente, ma non per gli antichi Greci, secondo i quali “bello e buono” formavano un unico concetto, addirittura un unico sostantivo: la “bellezzabontà”.


Basta guardare le statue greche: per celebrare il valore degli eroi ne esaltavano la bellezza. Nell’iconografia antica, Socrate veniva accostato a Sileno, il dio delle selve, rappresentato come un vecchio grasso, calvo e peloso. Oltre alla bruttezza, li accomunava una grande saggezza e il saper incantare: Sileno con il suo flauto, Socrate con le parole, tanto che alcuni lo ritenevano addirittura un sofista.


Un fraintendimento che lo offendeva, a partire dal fatto che i sofisti concepivano la filosofia come un modo per far soldi e vendevano il loro sapere (tanto da meritarsi la definizione di “cacciatori di giovani ricchi”), mentre per lui non era un mestiere ma un modo di vivere. E poi la verità esisteva ed era universale come una musica mai ascoltata.


Per interpretarne il suono, Socrate parte dall’esortazione posta sul frontone del tempio di Delfi:


Conosci te stesso.


− Esortazione che lui trasforma in un ragionamento: “Che cosa sono io? Un uomo. E allora: che cosa fa sì che un uomo sia un uomo? L’anima”, conclude Socrate, utilizzando un termine già presente nella cultura greca, ma non con lo stesso significato. Nella Grecia antica, infatti, con “anima” s’intendevano due cose: o una scintilla divina imprigionata nel corpo, o una sorta di fantasma di ciò che la persona fu in vita: in questi termini, per esempio, ne parla Omero.


Per Socrate, invece, l’anima coincide con la coscienza individuale in quanto sede della capacità di intendere e volere. Esattamente la definizione che usiamo ancora oggi.


Ma se l’uomo è la sua anima, allora sarà se stesso solo se farà ciò che gli suggerisce l’anima, non quello che gli suggerisce il corpo, che per sua natura è condizionato dall’irrazionalità degli istinti. Ne consegue che il bene coincide con il sapere e il male con l’ignoranza. Tesi che Socrate spiega con due paradossi che vanno accostati per comprenderne il senso:


Nessuno compie il male volontariamente. è preferibile subire il male che farlo


− Intendiamoci: se tutti coloro che compiono il male sapessero che i loro atti conducono solo all’infelicità, agirebbero in modo diverso per la semplice ragione che il loro obiettivo non è il male ma la felicità. Non compiono cioè il male volontariamente, sono solo degli ignoranti vittime della loro ignoranza.


Stando così le cose, è quindi di gran lunga preferibile subire un’ingiustizia che commetterla. Per chi la subisce non è sbarrata la porta della felicità; lo è invece per chi la compie.


Partito da un’esortazione teorica, Socrate giunge dunque a una conclusione pratica, nel senso che trasforma il “Conosci te stesso” in “Abbi cura di te stesso”. Le conseguenze ce le spiega Ralph Waldo Emerson:


Curati dei tuoi pensieri; diventeranno parole.
Curati delle tue parole; diventeranno azioni.
Curati delle tue azioni; diventeranno abitudini.
Curati delle tue abitudini; diventeranno il carattere.
Curati del tuo carattere; diventerà il tuo destino.


− Secondo Socrate, quanto da lui scoperto è alla portata di tutti. Ne è talmente convinto che non scrive nulla. A chi gli chiede spiegazioni, fa solo questa domanda: se ognuno di noi nella sua anima possiede la ragione, cioè il mezzo per giungere alla verità, a che cosa serve la scrittura?


La scrittura serve a tramandare i risultati di una ricerca, certo; nulla però ci tramanda dello spirito che l’ha animata. Una bara che contiene il cadavere di una verità morta, questa è la scrittura. Solo nella parola la verità è viva.


Per questo Socrate ama dialogare con tutti coloro che incontra, amici e nemici. E lo fa dichiarandosi esperto di una nobile arte, ereditata dalla madre, la maieutica, l’arte cioè della levatrice (oggi diremmo ostetrica), colei che aiuta le donne a partorire.


A differenza della madre, però, Socrate applica quest’arte non ai corpi ma alle anime, aiutandole a partorire la verità con tre strumenti: l’ironia, finalizzata a far ammettere al proprio interlocutore di non sapere; richiesta di chiarimenti incalzandolo con continui “che cos’è”; il dubbio sulle sue definizioni con una serie di domande brevi che richiedono risposte altrettanto brevi.


Se il percorso maieutico è stato seguito correttamente, in modo cioè razionale, si perviene a una verità universale, anche se non assoluta in quanto legata ai casi particolari.


Che Socrate fosse un maestro d’ironia, oltre che da Platone lo sappiamo anche da Diogene Laerzio, a cui dobbiamo questo aneddoto.


Un giorno qualcuno chiese a Socrate:


È meglio sposarsi o rimanere celibi?


− “Qualunque sia la tua scelta te ne pentirai”, rispose Socrate. Lui scelse di sposare Santippe, donna “dal carattere particolarmente difficile”, la definisce Platone. E Senofonte fa dire al filosofo Antistene: “Perché, Socrate, non istruisci Santippe, ma te ne stai con una donna la più fastidiosa, credo, di quelle che sono, furono e saranno?”.


Da Diogene Laerzio veniamo ancora a sapere che “una volta Santippe prima ingiuriò Socrate, poi gli versò addosso dell’acqua”; al che Socrate commentò: “Non dicevo che il tuono di Santippe sarebbe finito in pioggia?”.


Sempre Diogene Laerzio: “Una volta in pieno mercato Santippe gli strappò il mantello: i suoi amici lo incitavano a menare le mani per punirla. «Sì, per Zeus – disse – perché, mentre noi facciamo pugilato, ciascuno di voi faccia il tifo: ‘Forza Socrate!’, ‘Brava Santippe!’»”.


Che cosa c’è di vero in questi racconti? Ovvio è l’intento da parte dei biografi di esaltare la figura di Socrate, la cui arguzia emerge ancora più evidente se posta a stretto contatto con un personaggio irrazionale e particolarmente fastidioso per la sua stupidità come Santippe. Un’affermazione tuttavia, riportataci da Senofonte, ci fa ritenere che un fondo di verità ci sia. Negli ultimi anni di vita a chi gli chiedeva quali fossero gli uomini che si pentono, Socrate rispondeva: “Coloro che si sposano”. Un uomo così, senza peli sulla lingua, non poteva che venire trascinato in tribunale.

Di che cosa venne accusato Socrate?

− Innanzitutto di empietà, cioè di non onorare gli dèi, e poi di corrompere i giovani. Togliamo subito di mezzo quest’ultima accusa: i giovani stravedevano per lui, tutto qui. Si trattava dunque di una calunnia mossa dall’invidia per il suo grande successo.


Più seria era invece l’accusa di empietà, trattandosi di un’accusa falsa nel contenuto (in quanto Socrate, pur animato da una nuova religiosità, era solito onorare gli dèi della tradizione), ma fondata da un punto di vista giuridico. Perché quando i suoi accusatori e Socrate parlavano di dio alludevano a due realtà diverse che avevano in comune solo il nome: i suoi accusatori pensavano agli dèi della tradizione popolare, mentre Socrate pensava agli dèi come manifestazione di un dio intellettuale, una sorta di intelligenza ordinatrice dell’universo.


Nel processo, Socrate racconta che Cherefonte, stimato ateniese e suo amico d’infanzia, un giorno si era recato presso il santuario di Delfi, sacro ad Apollo, dove la Pizia, oracolo del dio, interrogata da lui su chi fosse il più sapiente degli uomini aveva risposto:


Nessuno è più sapiente di Socrate.


− Venuto a conoscenza del responso della Pizia, Socrate era rimasto profondamente turbato. Com’era possibile? Aveva allora deciso di interrogare tutti coloro che venivano comunemente ritenuti sapienti: poeti, artisti, artigiani, politici eccetera. Finché non si era reso conto che per il solo fatto di avere qualche conoscenza nel loro campo, costoro si ritenevano sapienti in tutto: ignoravano cioè di non sapere. Aveva dunque ragione la Pizia: era lui il più sapienti di tutti poiché l’unico a “sapere di non sapere”. Se Socrate avesse voluto, avrebbe potuto agevolmente evitare il processo e la condanna, mettendosi in salvo in qualche città vicina. Ma non lo fece perché non intendeva violare le leggi che considerava “sacre”, in quanto rendono possibile la convivenza civile. Non solo. Socrate si difese contrattaccando, chiedendo come premio per la sua vita virtuosa di essere mantenuto a vita dai suoi concittadini. Di fronte dunque all’atteggiamento provocatorio di Socrate, i giudici votarono a maggioranza per la condanna a morte. Con grande commozione, Platone ci racconta gli ultimi istanti della vita del suo maestro, che muore nel 399 a.C., a circa settant’anni.


Sappiamo così che Socrate affrontò con serenità il distacco dalla vita, rincuorando gli amici e i discepoli che gli erano vicini ed esortandoli a prendersi cura della propria anima.


Verso sera, poi, volle incontrare i tre figli e la moglie Santippe, che dopo poco fece allontanare in quanto disturbava con scomposti lamenti il dialogo con i discepoli.


Infine volle lavarsi “per evitare alle donne di dovere lavare un cadavere”. Terminata anche questa operazione bevve la cicuta, un potente veleno. Queste le sue ultime parole:


Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate.


− Asclepio era il dio della medicina a cui si era soliti offrire un gallo dopo una guarigione. Ciò che Socrate voleva dire con questa richiesta era che per lui la morte rappresentava la guarigione dalla prigionia della vita.


È Platone a raccontarci quanto accadde. Platone però non assistette alla morte di Socrate poiché era ammalato. Sicuramente ascoltò i racconti di chi era presente, e quindi è una fonte attendibile, ma nel suo racconto qualcosa non quadra. Gli effetti della cicuta non sono quelli descritti da Platone.


La cicuta è una pianta erbacea dai cui semi si può estrarre un potente veleno che abbassa la temperatura corporea bloccando lentamente la circolazione. E fin qui ci siamo: il racconto di Platone descrive l’avanzare del freddo lungo il corpo di Socrate. Poi però Platone aggiunge che Socrate passò dalla vita alla morte quasi senza accorgersene. Serenamente. Ma non può essere andata così: sappiamo infatti con certezza che l’assunzione della cicuta causa terribili spasmi e senso di progressiva paralisi. Altro che serena morte, il condannato muore nel terrore. D’altra parte, la cicuta non venne introdotta ad Atene nel V secolo a.C. dai Trenta Tiranni per alleviare il dolore dei condannati a morte, ma per liberarsene silenziosamente, senza cioè esibire la violenza dello Stato.

Quale eredità ci ha lasciato Socrate?

− A me piace ricordare innanzitutto l’ironia, la lente d’ingrandimento che ci permette di cogliere gli aspetti contraddittori della vita e riderci sopra: sotto i colpi dell’ironia, crolla qualsiasi edificio teorico costruito con i materiali dell’arroganza.


Inoltre dobbiamo a Socrate un nuovo metodo di conoscenza, fondato sulle definizioni a cui mirano i suoi continui “che cos’è?”. Un metodo che porterà risultati straordinari, non solo in filosofia, ma anche nelle scienze. La verità è ricerca della verità, non dimentichiamolo mai.


Infine, e soprattutto, Socrate inventa l’anima: è questa la sua grande eredità. Da allora nessuno ha più potuto ignorare che, oltre all’universo che ci sovrasta, esiste anche un altro universo che si agita in noi, complesso almeno quanto quello che vediamo in cielo.


Si era fatto tardi.

− Per oggi è tutto − concluse Oberosler. − Ci vediamo fra un mese.

Rapidamente tutti lasciarono l’aula. All’uscita Alice incrociò Marco.

− Come va?

− Bene. Socrate è davvero affascinante. Mi aspettavo però che Oberosler concludesse la sua lezione paragonandolo a Gesù.


− Certo, il confronto poteva starci, è un classico, ma Oberosler non lo ama tanto: Socrate e Gesù appartengono non solo ad epoche distanti circa cinque secoli, ma anche ad ambienti culturali assai diversi. Non dimentichiamolo. E poi Socrate visse ad Atene nel V secolo a.C., nell’epoca del suo massimo splendore politico e culturale, mentre Gesù operò prevalentemente in Galilea, una remota provincia dell’immenso impero romano, lontana dalle grandi correnti culturali.


La conversazione incominciava a farsi impegnativa. Individuata una panchina, i due si sedettero.


− L’impulso al paragone − riprese Marco − nasce fondamentalmente da tre considerazioni: Socrate e Gesù sono innanzitutto personaggi carismatici il cui irresistibile fascino è giunto fino a noi, pur non avendo lasciato nulla di scritto; entrambi inoltre hanno condotto una vita in povertà, contraddicendo i luoghi comuni e urtando l’autorità politica e religiosa della loro epoca; infine, entrambi sono stati trascinati in tribunale e, come se non bastasse, pur potendo sottrarsi alla condanna rinnegando le loro idee, hanno accettato di morire.


− Certo, − intervenne Alice − l’aver scelto di morire per le proprie idee li ha resi simili, anche se Socrate era un campione di bruttezza e Gesù “il più bello dei figli dell’uomo” stando alla tradizione cristiana.


Immaginando che la conversazione fosse finita, Alice si alzò per avviarsi all’uscita, cosa che fece anche Marco, riprendendo però a parlare.


è comunque un fatto che entrambi subirono un’ingiusta condanna, anche se di fronte alla morte si comportarono in modo diverso: paradossalmente il più umano dei due è Gesù, che sulla croce grida “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Le ultime parole di Socrate − “Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate” − sembrano invece dette da qualcuno privo di sentimenti umani come la paura e l’angoscia. Un alieno, insomma. È questo, a ben vedere, il limite della filosofia di Socrate: per lui se uno capisce una cosa la fa e basta. Scienza e virtù coincidono. Purtroppo però le cose non stanno così. Di buone intenzioni è lastricato l’inferno, diceva Karl Marx e prima di lui John Ray.


Alice sorrise, non si aspettava una risposta tanto articolata.


− In pratica mi stai dicendo che Gesù, uomo-Dio, era più umano di Socrate, semplice uomo?


− Certo, ma non è farina del mio sacco: ho solo riferito quanto personaggi più illustri di me hanno detto sull’argomento. È stato per primo Erasmo da Rotterdam nel Rinascimento a paragonare Socrate e Gesù. Poi nei secoli seguenti il confronto è stato ripreso da filosofi come Rousseau, Hegel, Kierkegaard, per citare solo i nomi più noti. Ora è arrivato il nostro turno di sollevare la questione. Come vedi, Alice, siamo in buona compagnia.


− Siamo?

− Perché no?

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO