capitolo 1

Che fare?

Non c’è nulla di più pratico di una buona filosofia.

Togliamoci subito il dente: che la filosofia fosse quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale, ne era convinto pure Francarlo, detto Franz. Così, senza sapere che le passioni sono idee confuse, si girò verso la ragazza dai capelli color fuoco che sedeva accanto a lui al bancone del bar; poi, con un gesto improvviso, la baciò. Quel sorriso riflesso nello specchio di fronte a loro non poteva rimanere senza risposta. Era un chiaro invito all’azione.


La ragazza non reagì al bacio, ma neanche si sottrasse. Rimase lì, immobile, nel silenzio del fermo-immagine. Solo dopo aver assaporato l’unicità di quel respiro, si lasciò andare. Abbracciò Franz come se fosse il suo ragazzo in partenza per la guerra. Gli occhi socchiusi in un sorriso incerto, le labbra adagiate su quelle di lui per ascoltare tutto ciò che avevano sempre taciuto. Poi l’incantesimo sfumò. La ragazza, con una punta di malizia, scese dallo sgabello e si allontanò.


Franz guardò il barista; il barista guardò Franz.

− È la tua ragazza?

− No, non l’avevo mai vista.

− Davvero?

− Davvero.

− Incredibile, a volte nella vita ti capita di assistere a scene da film; il guaio è che vedi solo qualche immagine e non saprai mai come andrà a finire − replicò il barista.

− Certo, ma in questo caso glielo farò sapere − concluse Franz.


Poi si guardò intorno, della ragazza aleggiava solo il ricordo. Svanita. Corse verso l’ingresso e uscì. L’atrio della stazione era ingombro di impalcature e il poco spazio rimasto ricordava un formicaio in festa. La conversazione aveva allentato le maglie del tempo e quell’angelo-femmina ne aveva approfittato per far ritorno al cielo di musica e luce, o qualcosa del genere, da cui proveniva. Non rimaneva che rientrare nel bar.


− C’è qualcuno che…

− No, mai vista prima − lo interruppe il barista dando voce agli occhi persi nel nulla dei clienti.


Franz avrebbe voluto piangere. Si erano aperte le porte del paradiso, ma si trattava di porte girevoli. Ora si trovava all’inferno. Come aveva potuto essere così stupido da non chiederle neanche il nome?


Tornò al bancone. Il barista lo guardò come si guardano i cuccioli abbandonati dalla madre. Vergognandosi di esistere, Franz cercò di scansare quegli occhi pieni di commiserazione. Ma non ci riuscì. Sentì solo un soffio caldo sul viso, il buio invase la sua mente e la Tarasca lo inghiottì.


Quand’era bambino Franz era solito vedere alla sera, prima di andare a dormire, una serie televisiva di cartoni animati ispirata a un leggendario mostro medievale, la Tarasca, di cui una cittadina francese (Tarascon, in Provenza) celebra ancora il ricordo ogni anno l’ultima domenica di giugno.


Nella serie televisiva la Tarasca si divertiva a distruggere tutto ciò che incontrava: il soffio del suo alito incendiava le case e diffondeva tra la gente malattie di cui non si conosceva il nome. Ma la cosa più angosciante per i piccoli spettatori era che amava cibarsi di bambini che inghiottiva facendo schioccare la ruvida lingua.


La serie ebbe un successo travolgente, alimentato dai racconti degli stessi bambini che, come si sa, amano terrorizzarsi a vicenda. Ben presto, tuttavia, si levarono le proteste dei genitori, stanchi di sentire nel cuore della notte le urla dei loro figli in preda a terribili incubi. I media fecero da eco a quelle urla fino a che la serie venne cancellata.


In realtà, quella brusca interruzione non era la migliore delle soluzioni possibili. Perché i bambini non seppero mai che alla fine la Tarasca viene uccisa da Santa Marta; uno spunto che gli sceneggiatori avrebbero utilizzato negli episodi successivi. Così l’inconscio di un’intera generazione venne marchiato dalla Tarasca, senza che nessuna Santa Marta venisse in suo soccorso.


Franz era uno di quelli che faticano a tenere il passo con la giovinezza. Nadia, la sua ragazza, l’aveva appena lasciato mettendogli in tasca un biglietto: “Sei irrisolto, inconcludente e tendenzialmente rompicoglioni. Addio”.


Non ci poteva credere. Un biglietto nei pantaloni. Ecco la tecnologia moderna, aveva pensato, nell’epoca del web. Da allora Nadia si era trasformata in un pensiero. Telefono muto, casa sprangata. Ma che diamine, che bisogno aveva di comportarsi così?


La ragazza si era messa con il suo migliore amico, Stefano. Un banale avvicendamento sentimentale aveva sentenziato, cercando di mascherare con un velo linguistico quel fallimento. Con il tempo, però, la rabbia nei confronti dei due si era trasformata in sfiducia in se stesso. Come aveva fatto a non capire quanto stava succedendo? La verità è che non amava più Nadia, e Nadia se n’era accorta. Insomma non erano stati loro a tradire lui, ma lui a tradire se stesso con la sua sensibilità da totano appena pescato. Questa la conclusione a cui era giunto con l’arguzia di un Freud.


A ogni buon conto, non avendo l’umanità ancora inventato un galateo per lasciarsi, continuare a pensarci era come cercare di rammendare il passato. Tempo sprecato. E allora non sprechiamolo neanche noi: è dura stare in coppia con una fuori di testa, persa nell’universo psichedelico dell’ecstasy, almeno quanto stare con un “bastian contrario” che non conosce la parola “tregua”. Ci siamo capiti. Fine della storia.


Quando non sapeva che fare, Franz amava infilarsi in una libreria con annessa caffetteria, dove trovava un qualche sollievo ai dispiaceri della vita mangiando dei croissant; l’unico punto di contatto rimasto tra lui e il mondo intellettuale.


Quel giorno Franz si era avventurato tra gli scaffali della libreria, da cui aveva estratto L’arte di trattare le donne di Arthur Schopenhauer e goduto del suo talento nello smascherare comode verità, finché non aveva letto che “le donne rimangono bambine tutta la vita”: una frase messa lì per confondere gli allocchi, mentre si trattava di un gran complimento. Bastava fermarsi un attimo per capirlo: non sono propri della fanciullezza la spontaneità, la capacità di fantasticare, il candore di fronte alla verità?


Nadia no, non si era affatto comportata da bambina ingenua, aveva pianificato tutto con Stefano con cui condivideva lo stesso universo psichedelico. E aveva pure trovato il modo di non parlargli. A ben vedere, una giusta precauzione. Non era un avvocato, ma nel manovrare il fumo ci sapeva fare.


Purtroppo più in là, tra gli scaffali, si dava un sacco di arie La critica alla ragion pura di Kant; l’aveva aperto e la sua carriera da pensatore di mestiere si era subito conclusa. Non ci capiva niente. Inoltre, che cosa c’entrava l’odio per le donne di Schopenhauer con le idee trascendentali di Kant?


Leggendo qua e là aveva poi appreso che i filosofi più conosciuti al mondo sono Platone e Nietzsche, e che il testo filosofico di natura religiosa più letto, dopo la Bibbia e il Corano s’intende, sono le Confessioni di Agostino d’Ippona. Nessuna spiegazione nelle vicinanze; il perché doveva trovarsi celato in qualche altro scaffale. Brillante era invece l’esordio di un ragionamento che trovò in un’antologia dal titolo primaverile, I fiori della filosofia:


Le passioni sono solo delle idee confuse.


Parola di Spinoza. Vero. Proprio quello che era successo a lui con la ragazza dai capelli color fuoco. Se si fosse soffermato su quelle parole, nel suo cervello sarebbe scattata la sirena dei pompieri e così non sarebbe andato tutto in fumo. E ora starebbe con lei, accidenti, a dimostrazione del fatto che non c’è nulla di più pratico di una buona filosofia.


Dunque? Franz provò un po’ di delusione nel constatare che l’antologia non riportava commenti ai brani. Solo una sommaria presentazione dell’autore e qualche nota. Chi voleva addentrarsi in quella giungla filosofica doveva trovare il proprio sentiero.


Più in là tra gli scaffali notò un libro il cui titolo, più che un interrogativo, sembrava una fucilata in pieno petto: Che fare? L’autore, Lenin, l’aveva scritto in un momento drammatico della storia mondiale, non certo pensando a banali vicende sentimentali come la sua. Ma anche lui, nel suo infinitamente piccolo, doveva rispondere a quella stessa domanda. Insomma, prendere una decisione.


Si avviò alla cassa e comprò I fiori della filosofia. Era il segnale che “quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale” attendeva per irrompere nella sua vita. Cose dell’altro mondo, davvero stava succedendo? Lasciamo stare, i pregiudizi sono solo delle mosche che non vedono l’ora di essere scacciate. Nel caso di Franz, poi, si aggiungeva il piacere di contraddire se stesso. Quello del “bastian contrario” è un legno storto che non si raddrizza.


− Faccio un pacco regalo?

− No, è per me.


La cassiera rigirò il libro tra le mani alla ricerca del prezzo. Sulla quarta di copertina strizzava l’occhio ai lettori una frase di Einstein, ormai logora a furia di essere citata dai professori di filosofia:


La mente è come un paracadute. 
Funziona solo se si apre.


Franz sorrise con la tracotanza degli ignoranti. Fuori pioveva, a dispetto delle previsioni. Che il meteo di Torino fosse psicotico, incapace com’era di distinguere realtà e desideri, lo faceva infuriare. Si sentiva preso in giro. Così come si sentiva preso in giro dalla vita, di cui non riusciva a cogliere il senso.


I più sono angosciati dal pensiero della morte, lui invece era tormentato dal pensiero di passare il resto dei suoi giorni al guinzaglio del tempo.


Giunto a casa, Franz si distese sul letto. La pioggia, cresciuta d’intensità, giocherellava sulla ringhiera del balcone; il clima ideale per massaggiare i muscoli induriti della riflessione. Aprì I fiori della filosofia e si soffermò su alcune pagine di Platone, poi passò ad Agostino. Per Nietzsche c’era tempo; sapeva che era un pazzo. Infine si addormentò, mentre il suo inconscio prese a frullare le sensazioni di quella strana giornata. Le tende lasciavano filtrare i raggi di un sole invadente, quando passò dall’amaro di un sonno senza sogni alla dolcezza del dormiveglia.


Franz non si capacitava: aveva baciato una ragazza sconosciuta di cui non sapeva neanche il nome. Ripensò a quei momenti, ma non gli venne in mente nulla; solo un brivido sulla pelle gli ricordò il piacere provato. Un piacere impuro, avrebbe detto Platone; uno di quei piaceri da non ricercare in quanto preceduto o seguito da dolore. Nel suo caso si erano verificate entrambe le cose.


Mentre il suono di un’autoambulanza gli graffiava i timpani, aprì gli occhi. Per distrarsi si concentrò sulla qualità del bacio che aveva dato alla ragazza dai capelli color fuoco.


Con Nadia il bacio aveva il gusto della normalità, qualcosa di terreno che ricordava lo sbocciare di un fiore; con la ragazza dai capelli color fuoco aveva invece avvertito una tempesta emotiva, qualcosa di cosmico come se il tempo infinito si fosse concentrato tutto in un istante. Insomma, baciandola, Franz aveva sperimentato il tempo di Dio.


In Dio, diceva Agostino, non c’è il passato o il futuro, a lui non manca nulla, è l’eterno presente. Per farla breve, quel bacio era stato un’esplosione d’eternità. Niente male come sensazione: baciare come bacia Dio non capita a tutti.


Per capirci qualcosa, occorreva mettere i pezzi sulla scacchiera. Che cosa sapeva di quella ragazza? Praticamente nulla. Frequentava il bar della stazione? No, era di passaggio, aveva detto il barista. I suoi capelli erano color fuoco, questo sì, quindi erano tinti. Fine, non sapeva altro. No, sapeva anche che era una tipa passionale: aveva cercato di trattenere il bacio sulle sue labbra, questo non gli era sfuggito. Quindi, stando a Spinoza, anche lei non scherzava in quanto a confusione.


Che fare? Non rimaneva che tornare al bar per un supplemento d’indagine, magari qualcuno aveva visto da quale treno era scesa o su quale era salita. Anche Lenin, nel suo infinitamente grande, sarebbe stato d’accordo.


Stava per uscire di casa, quando il telefono squillò. Era suo padre.


Il padre di Franz faceva parte di quei temerari che osano sottrarsi “all’istinto del gregge”, per usare le parole del loro profeta, Nietzsche. Da qualche anno in pensione, aveva avuto Franz da una ragazza di una ventina d’anni più giovane che abitava nella sua stessa casa: terzo piano lui, secondo lei. Un amore nato sulle scale, così diceva, e finito sul pianerottolo, nel senso che non era andato lontano.


Un anno dopo la nascita di Franz, la madre si era innamorata di un giovane neuroscienziato della sua età. “L’uomo della mia vita”, aveva sentenziato. Con lui si era trasferita in Canada, dove aveva scodellato altri tre figli. Così Franz era cresciuto solo con il padre, sapendo che anche negli angoli più remoti dei pensieri di sua madre sventolava la foglia d’acero della bandiera canadese. Per un figlio specchio della spensieratezza italiana non c’era posto.


Poiché poi tutti pensavano che suo padre, visto il divario d’età, fosse suo nonno, per sdrammatizzare la situazione aveva preso l’abitudine di chiamarlo Giove: sì, come il re degli dèi, da Giovenale, poeta latino di cui portava il nome.


In ogni caso, tra i due vi era un affetto che andava al di là del rapporto padre e figlio. Si piacevano, insomma, sebbene l’antenna scorticata di Franz da qualche tempo non riuscisse più a captare con chiarezza i messaggi del padre.


− Allora Franz, come va?

− Bene Giove, scusa ma ho da fare, ci sentiamo più tardi.

− Com’è che da qualche tempo non riesco più a parlarti?

− Ho tanto da fare.

− Da studiare, vuoi dire?

− Non precisamente.

− Mi stai dicendo che hai smesso di studiare?

− Sì, da qualche tempo, ma non è come pensi.

− E com’è allora?

− Ho solo smesso di studiare astronomia, adoro guardare il cielo ma c’è troppa matematica, ora mi occupo di filosofia.

− Disciplina decisamente più concreta − commentò divertito Giove. − Hai per caso dichiarato guerra al buon senso?

− Ma no.

− E quando l’hai deciso?

− Adesso.

− In che senso?

− In questo momento, mentre sto parlando con te.

− Ti iscriverai a filosofia?

− No, non credo.

− Franz, vuoi studiare filosofia senza iscriverti all’università?

− Sì, la penso così. E poi me l’hai insegnato tu: è meglio affondare con le proprie convinzioni, piuttosto che con quelle degli altri.

− Certo, confermo.

− In ogni caso, studiare non è la parola giusta. Mi piace leggere, non fare l’autopsia dei libri che leggo. Capire è bello, sapere è noioso.

− Bene. Ottima scelta. La filosofia è una bevanda gassata che gonfia i pensieri; il nulla che dilata la mente. Bel risultato.

− Pensala come vuoi.

− Insomma, cosa vuoi fare nella vita?

− Niente.

− Guarda che la strada più semplice per fare niente non è fare niente. Se non fai niente ti ritrovi travolto dai problemi. Fare niente è un’arte che richiede dedizione, impegno, intelligenza, come ben sanno tutti i manager del mondo.

− Lo so.

− Non mi sembra. E con i soldi come farai?

− A questo penserai tu.

− Per tutta la vita?

− Mi troverò un lavoro. Non so.

− Che fai ora Franz?

− Vado al bar della stazione.

− Parti?

− No, questioni personali.

− Okay, bevi un po’ della tua bevanda gassata e poi ne parliamo.

− Certo, ciao Giove.


Giove riteneva fosse dovere di un padre dare al figlio tutti i consigli arrotati dall’esperienza che gli passavano per la testa, ma non si imponeva mai. Dopo le medie, Franz si era iscritto al liceo scientifico, poi era passato all’alberghiero e infine si era diplomato in ragioneria. Qualcuno gli aveva fatto notare che nessun padre può permettersi il lusso di essere relativista. Insomma, come può un padre non intervenire nelle scelte dei figli anche imponendosi se occorre? Come si fa a lasciare che i figli si schiantino contro un muro, quando tu sai per esperienza che andrà a finire così?


Ma Giove aveva le sue idee. Non stiamo parlando di droga o di reati, ma di progetti di vita. Spetta a mio figlio l’ultima parola. Perché ogni persona è segnata dalla sua stella, che lo porta a ragionare in un certo modo, a fare certe scelte.


Così, dopo il diploma in ragioneria, lo aveva addirittura incoraggiato quando aveva scelto il corso di laurea in astronomia. Una disciplina non certo popolare tra i padri di famiglia che sognano per i figli una brillante carriera in qualche multinazionale. Ma come si fa a dire di no a un figlio che ama guardare il cielo?


Che si occupasse poi di contorcimenti filosofici suonava ancora peggio, se possibile. Una scelta che avrebbe gettato nel panico qualsiasi genitore sprovvisto di una buona dose di umorismo.


Il filosofo è uno che s’è perso e non sa come tornare a casa.
Niente male come mestiere.


Intanto il tempo passava. A ventitré anni suo figlio ragionava come un ragazzo di quindici, cosa che però non preoccupava più di tanto Giove, da tempo convinto che l’esistenza umana fosse troppo complicata per avere delle certezze.


Concepiva infatti la vita non come un rettilineo di cui puoi intravedere l’intero percorso, ma come una strada piena di curve. Che cosa ci sia dopo ogni curva non lo puoi sapere. Può esserci un burrone, certo, così come un magnifico paesaggio. Proprio quello che era capitato a lui.


Senza un grande talento artistico, Giove si era iscritto all’Accademia di belle arti, dando credito al luogo comune che fosse un concentrato di ragazze carine alla caccia di emozioni. E così, tra una delusione e l’altra, si era laureato con una tesi in “Economia e mercato dell’arte”.


Dopo aver provato vari lavori, era infine approdato al Museo di arte contemporanea di Rivoli, alle porte di Torino, in cui aveva svolto un po’ tutte le mansioni, fino a diventarne il direttore. Da lì a fornire consulenze a varie case d’asta il passo era stato breve. E così il prodotto interno lordo della sua autostima era cresciuto di anno in anno in maniera esponenziale.


Andato in pensione, aveva cercato di mettere ordine tra i suoi pensieri. Non era diventato famoso, ma il suo saggio − Unico indizio, il silenzio dell’arte −, magari un po’ impolverato, si poteva trovare nei piani più bassi di qualche libreria. Insomma, era contento della sua vita. Gli piaceva quel mix di cultura e denaro in cui si era imbattuto. Ma della sua carriera non si dava tutto il merito; il caso aveva fatto la parte del leone.


Finita la telefonata, Giove ripensò al colloquio con Franz: in fondo la notizia era che suo figlio si sentiva confuso, sai che novità. Per rilassarsi chiuse gli occhi. E mentre cercava il respiro del sonno, rovistando tra i ricordi vide Franz bambino sull’altalena che implorava con voce sottile: spingi papà, spingi.


Anche in questo caso avrebbe spinto, fino a che non si fosse realizzato l’auspicio di Confucio:


Scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai.


Nell’attesa, non rimaneva che lucidare la pazienza, come già faceva tutte le mattine. Prima o poi Franz avrebbe cessato di essere quel killer di se stesso in cui l’adolescenza l’aveva trasformato.


Ovviamente al bar di Porta Nuova nessuno sapeva da quale treno fosse scesa o su quale fosse salita la ragazza dai capelli color fuoco.


− A che ora l’hai incontrata? − chiese qualcuno.

− Più o meno alle dieci, questa mattina.

− Allora può darsi che venisse da Milano o stesse per prendere il treno per Genova.


Franz si sedette sullo sgabello vicino al bancone, ordinò un succo di pompelmo, mentre nella sua mente scorrevano le immagini di un film che aveva visto qualche giorno prima verso le tre di notte; una di quelle vecchie pellicole in bianco e nero che trasmettono nelle ore notturne per riempire il palinsesto.


Il film era ambientato nell’atmosfera euforica seguita alla fine della Seconda guerra mondiale. Raccontava la storia di un ragazzo e di una ragazza che s’incontrano su un treno. I due iniziano a parlare, mentre il treno s’inabissa in una foresta innevata dove gli abeti abbracciano i binari. E quando le parole non servono più si abbandonano allo stupore di essersi incontrati. Strafatti d’amore, si dimenticano di tutto, anche del tempo che passa. D’improvviso, il treno arriva in stazione. Lei scende. Si salutano. Lacrime di felicità illuminano i loro volti. Ma è solo un attimo. Il treno riparte. A quel punto i due atterrano nel mondo reale.


− Come ti chiami? dove abiti? quando ci vediamo? – urla il ragazzo dal finestrino. La ragazza risponde che non sente, di gridare più forte, che il treno fa troppo rumore. I due non si incontreranno più. Che strazio. Dovrebbero mettere in galera gli sceneggiatori di film così, con la sola compagnia di un nido di vespe, aveva pensato Franz. Ghigliottinare il regista sulla pubblica piazza e appendere a testa in giù gli attori fino a far loro passare la voglia di recitare. Ma c’era poco da scherzare; ora quel ragazzo era lui.


Franz si guardò allo specchio per vedere se fosse sveglio. Strizzò l’occhio sinistro; lo specchio rispose con quello destro. Rimase un attimo interdetto. Okay, normale. Magari era tutto un incubo. Certo, magari aveva già un lavoro all’Osservatorio astronomico europeo in Cile. Nadia aveva smesso di vagare nel suo universo psichedelico e con lei aveva fatto un paio di bambini.


− Vuoi qualcos’altro? − gli chiese il barista dando voce allo sgabello che non ne poteva più del suo agitarsi.

− No, grazie.

− Se non sai che cosa fare, potresti almeno darmi una mano.

− In che senso?

− Cerco qualcuno che mi aiuti dalle otto del mattino alle otto di sera. Vuoi provare? I soldi non sono un problema, se ci sai fare ci metteremo d’accordo.


Un lampo di gioia guizzò negli occhi di Franz. Finalmente aveva un piano. Sarebbe rimasto in quel bar fino a che la ragazza dai capelli color fuoco non fosse passata da lì: o perché veniva da Milano, o perché voleva andare a Genova, o per cercare lui. Perché no? Il mondo è pieno di gente strana.


− E allora? – Il vocione asciutto del barista interruppe la divagazione.

− Affare fatto – rispose Franz dandogli la mano.

− Bene, un consiglio non richiesto: questa sera va’ a letto presto, ti aspetto domani: sarà dura. Dimenticavo, si lavora anche di domenica. Il tuo giorno libero è il giovedì.

− Grazie − si affrettò a rispondere Franz. − Vado subito a casa. Buona idea. − E uscì dal bar. Era quasi mezzogiorno, troppo presto per mantenere la promessa. La pioggia gli avrebbe fatto compagnia.


A Franz piaceva vagare senza meta per Torino, con qualsiasi clima, ma soprattutto se pioveva. Era rilassante. Da qualche tempo, poi, aveva scoperto che camminare produce pensieri. E tra i pensieri si trovava anche la soluzione ai suoi problemi.


La ragazza dai capelli color fuoco era entrata nella sua vita come un flash sparato all’improvviso. E c’era un solo modo per liberarsi di quella luce abbagliante: frequentarla. Anche perché non occorre aver digiunato sotto l’albero dell’illuminazione del Buddha per sapere che meno conosci una persona più ti sembra straordinaria, mentre da vicino facciamo tutti pena: santi, geni ed eroi compresi.


è ora di fare un po’ di spesa, pensò Franz, mentre attraversava fuori dalle strisce via Pietro Micca, cercando di non finire sotto una macchina. Se in quel momento si fosse girato e avesse guardato all’altro angolo della strada, avrebbe visto la ragazza dai capelli color fuoco. Ma non lo fece.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO