capitolo 13

Le scuole socratiche

Ci sono troppe somiglianze tra gli insegnamenti di Gesù e la filosofia dei cinici per essere solo una coincidenza.

Il pessimista è uno che si è informato”, sostengono i russi, il popolo a cui l’ottimismo ha dato più mazzate. Siamo fatti per la vita, eppure moriamo. L’“Alto dei Cieli” rimane un’opzione, ma il volo è di sola andata. Secondo la filosofia esiste l’aldilà, l’Essere; si tratta però della natura profonda delle cose, non il sogno di una vita spezzata.


Poiché dunque tutto quello che abbiamo di sicuro è l’aldiquà, facciamocene una ragione, il fallimento è nel nostro DNA. Non c’è da stare allegri. Occorre però reagire cercando di evitare che il pessimismo diventi depressione, un incubo al cui confronto l’inferno è una sala giochi.


Per non peggiorare le cose, bisogna usare un pizzico d’intelligenza: pensieri negativi favoriscono risultati negativi, mentre pensieri positivi favoriscono risultati positivi. Insomma, saggio è quel pessimista che guarda al futuro con ottimismo.


Come antidolorifico è consigliabile la leggerezza, che non è superficialità, ma il modo di vivere di chi sul treno che conduce ad Auschwitz sa apprezzare quel timido raggio di sole che sbuca tra le assi del vagone. Questo ci suggerisce la ragione.


Tutti dovrebbero possedere una cassetta di pronto soccorso filosofico, pensava Alice mentre in economy class viaggiava a trecento chilometri all’ora verso Milano, dove l’attendeva il dottor Monchiero. Con sé aveva alcuni numeri del Cigno Nero, la rivista filosofica diretta da Oberosler a cui la madre l’aveva abbonata.


Sfogliandola, la sua attenzione venne catturata dal dossier dedicato alle scuole socratiche, a partire da quella fondata da Euclide di Megara, celebre per aver richiamato l’attenzione su alcuni paradossi, il più noto dei quali è quello del mentitore:


Se uno dice “sto mentendo”, mente o dice il vero?


Intrigante era anche il paradosso del mucchio. Quando parliamo di un mucchio, che cosa intendiamo dire esattamente? Un granello di sabbia non è un mucchio, due granelli non sono un mucchio, tre granelli non sono un mucchio e così via: dunque qual è quel granello che trasforma dei granelli di sabbia in un mucchio? Che mai avrà di così speciale?


Un’altra scuola socratica era quella cinica: termine che probabilmente deriva da Cinosarge, alla lettera “cane agile” o “cane bianco”, nome dell’edificio in cui aveva sede. Tra i suoi maestri ricordiamo Diogene, detto “il Socrate pazzo”.


Alice abbozzò un sorriso. Probabilmente pazzo lo era davvero: uno che invitava a dire in faccia a chiunque, e soprattutto ai potenti, tutto quello che ti passa per la testa, come poteva essere definito diversamente?


Simpatico era infine l’aneddoto che lo riguardava. Un giorno Diogene stava prendendo il sole quando passò Alessandro Magno. Il sovrano, che all’epoca dominava il mondo, si rivolse al filosofo con queste parole: “Chiedimi quello che vuoi”; al che Diogene, cui l’enorme potenza di Alessandro era del tutto indifferente, si limitò a rispondere: “Spostati, lasciami il mio sole”.


Come “cani randagi”, Diogene e i suoi discepoli vagavano di villaggio in villaggio predicando il disprezzo per la ricchezza, le comodità della vita e la necessità di vivere secondo natura. Da qui l’aggettivo “cinico”, che indica chi rifiuta i valori comuni; all’epoca però non aveva quella coloritura negativa che gli attribuiamo noi oggi. Si narra infatti che nell’isola greca di Paro sia stata eretta in onore di Diogene una colonna con la scritta:


Anche il bronzo cede al tempo e invecchia, ma la tua gloria, o Diogene, rimarrà intatta per l’eternità, poiché tu solo insegnasti ai mortali la dottrina che la vita basta a se stessa, e additasti la via più facile per vivere.


La povertà come chiave d’accesso alla felicità: questo il messaggio di Diogene.


Il dossier sulle scuole socratiche si concludeva con un articolo che aveva per titolo: “Gesù conobbe i cinici?”. Secondo alcuni studiosi, ci sono troppe somiglianze tra gli insegnamenti di Gesù e la filosofia dei cinici perché sia solo una coincidenza. Anche perché Gadara, città dove risiedeva un certo numero di cinici, distava solo trenta chilometri da Nazareth.


L’influenza dei cinici sarebbe per esempio presente in alcune espressioni di Gesù, come “Beati i poveri perché di essi è il Regno dei Cieli”, o in questo dialogo del Vangelo di Matteo:


Un tale venne da Gesù e gli chiese:
− Signore, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?

Ma Gesù gli disse:
Parli di bontà? Ce n’è uno solo, sai, che è veramente buono: Dio. Per rispondere però alla tua domanda, ti dico che entrerai nella vita se obbedirai ai comandamenti.

Quali? chiese l’uomo.
E Gesù rispose:
− Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire il falso contro nessuno, onora tuo padre e tua madre, e ama il tuo prossimo come te stesso!

− Li ho sempre rispettati tutti questi comandamenti replicò il giovane. − Che cosa devo fare ancora?

Gesù gli rispose:
− Se vuoi essere perfetto, vai a vendere tutto ciò che possiedi e dai il denaro ai poveri, ne riceverai un tesoro in cielo. Poi vieni e seguimi.


Quando si leggono queste righe, è molto difficile non pensare a Cratete, che per seguire Diogene “vendette il suo patrimonio, ne ricavò circa duecento talenti che distribuì ai suoi concittadini”.


Immersa in questa lettura, Alice non si accorse che il treno era giunto a Milano. La carrozza prese ad animarsi e il Cigno Nero finì nella borsa. Qualche minuto dopo poggiava i piedi sulla pensilina della stazione.


Salita sul primo taxi, tornò a pensare ai suoi guai. La giornata era grigia. Per quel che poteva, la nebbia nascondeva il paesaggio dai colori cattivi della periferia milanese, fatto di case e fabbriche, fabbriche e case.


La sala d’attesa del San Raffaele era vuota. Una famigliola entrò rumorosamente. Poi fu la volta di una signora con un curioso cappotto viola accompagnata dal marito. Un ragazzo alto si sedette accanto ad Alice e accomodò lo sguardo all’infinito.


Non era la prima a passare. Doveva attendere le dieci, ed erano solo le nove. Decise di dedicarsi all’osservazione. La famigliola accompagnava chi? Chi era il malato? Il figlio, evidentemente. Un bambino di dieci anni non accompagna i genitori a una visita medica. Giusta osservazione.


Un’infermiera fece cenno di seguirla al ragazzo alto che si era seduto vicino a lei. Il telefono squillò:

− Mamma, sono nella sala d’attesa…

− Volevo solo sapere se eri arrivata. Appena hai finito chiamami.

− Certo, okay.


La signora con il cappotto viola si alzò, e si diresse nervosamente alla porta. Il marito la accompagnò con uno sguardo preoccupato. Dopo un po’ il ragazzo alto tornò a prendersi il giaccone. Le lacrime gli rigavano il volto. Uscì rapidamente senza salutare.


Era davvero deprimente osservare la sofferenza altrui. Doveva concentrarsi su qualcosa di positivo, ma nulla di piacevole le venne in soccorso.


Il bambino, uno di quelli a cui non basta promettere un paio di galassie per farli stare fermi, s’inciampò nel tavolino su cui erano disposti alcuni giornali. Senza sgridarlo, il padre e la madre rimisero tutto in ordine.


Era il suo turno. L’infermiera condusse Alice all’ascensore.

− L’accompagno ai laboratori. Dovrà avere un po’ di pazienza, gli esami che deve fare richiedono tempo. E poi c’è da aspettare tra un esame e l’altro.


Alice rispose con un sorriso di circostanza. L’esame più fastidioso fu l’angiografia cerebrale, mentre non ebbe problemi per quanto riguardava l’elettroencefalogramma. Altri esami erano di routine. Finalmente arrivò il sospirato annuncio.


− Abbiamo finito, il dottor Monchiero l’attende oggi pomeriggio alle tre. Nel frattempo può andare a pranzare al nostro ristorante, abbiamo anche un bar che fa dei panini niente male. Come crede…


Alice optò per il bar. Ordinò un cappuccino con croissant. Si informò sulla password del Wi-Fi e tirò fuori dalla borsa l’iPad. Solo un tavolino era rimasto libero, quello vicino alla porta dei servizi. Pazienza.


A quell’ora il bar era pieno di gente, e quel giorno non faceva eccezione. Improvvisamente Alice avvertì che qualche cosa non andava. Si guardò attorno in cerca di aiuto, ma non fece in tempo. I tentacoli dell’epilessia l’avevano già afferrata. In preda a convulsioni cadde a terra perdendo conoscenza. Questa volta la Tarasca aveva colpito duro. Quando si riprese, accanto al suo letto c’era il dottor Monchiero. Più in là, sul comodino era stata riposta con cura la parrucca rossa.


− Che cosa succede signorina?

− Non lo so… era un po’ che non mi capitava. Forse lo stress.

− E perché mai? Ho buone notizie.

− Davvero? Finalmente ha deciso di operarmi?

− No, non ha senso, troppo rischioso.


− E allora?

− La cosa è un po’ complicata... provo a spiegarmi. C’è una nuova terapia. Voglio però essere chiaro con te. Si tratta di una sperimentazione. Se sei d’accordo, sospendiamo la chemioterapia.


− È già una buona notizia.

− Si tratta di una terapia genica. In pratica prendiamo un virus, lo rendiamo innocuo, lo svuotiamo e lo riempiamo con geni terapeutici. In questo modo uccidiamo le cellule tumorali e rendiamo molto difficile il formarsene di nuove. Per dirla con un’immagine, inseriamo nel tuo corpo una sorta di “cavallo di Troia” e diamo l’assalto alle cellule tumorali.


− Geniale… e funziona?

− Abbiamo risultati che ci fanno ben sperare.

− Wow… sono d’accordo!

− Allora facciamo così. Torni a casa e appena siamo pronti ti chiamiamo.

− Okay − lo sguardo di Alice sprizzava gratitudine.

− Ricordati che la voglia di vivere in una cura fa la differenza.

− Lo so.

− Quindi basta lamentarsi: non serve a nulla.

− Non mi lamento, sono solo un po’ pessimista.


− Il pessimismo è sintomo d’intelligenza, ma attenzione: è anche una forma di pigrizia. Per una volta lasciati andare, lascia che l’ottimismo faccia il suo lavoro.


− Grazie dottore.

− A presto − e si chinò su di lei dandole un bacio sulla fronte.

− Fa così con tutte le pazienti?

Risata.


− Non fare la furba con me. Bacio solo le pazienti che poi guariscono.


Alice allungò il lenzuolo per coprire il sorriso sempre più largo che si stava impadronendo di lei. Se si fosse guardata allo specchio avrebbe visto il volto radioso di Bernardette Soubirous nel momento in cui a Lourdes incrociava lo sguardo della Madonna.


Mentre il futuro le sembrava una luminosa pista d’atterraggio, si ricordò che era martedì e che aveva perso non una lezione di filosofia, ma la lezione su Platone. Accidenti! Prese l’iPad e si collegò al sito dello stage. Altra dimenticanza, doveva chiamare sua madre.


Tutto comprensibile: l’ottimismo non più frenato dal pessimismo dell’intelligenza si era trasformato in euforia. E l’euforia, figlia dell’irrazionalità, non è mai una buona consigliera, sebbene faccia parte del patrimonio del saggio saper apprezzare i sogni a occhi aperti che la speranza regala.


Questioni che Alice non aveva ancora del tutto messo a fuoco. Una cosa, però, le avevano insegnato quel giorno le montagne russe dell’umore:


In una cassetta di pronto soccorso filosofico non deve mai mancare la leggerezza.
L’ossigeno dell’anima.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO