capitolo 18

Aristotele

Se c’è una soluzione, perché ti preoccupi?
Se non c’è una soluzione, perché ti preoccupi?

Secondo Alfred North Whitehead, “tutta la storia della filosofia occidentale altro non è che una serie di note a margine su Platone”. Se questa iperbole fosse vera, nessun filosofo dopo Platone dovrebbe più stupirci. Eppure di fronte ad Aristotele si rimane come chi, giunto sulla punta dell’Everest, scorgesse un’altra vetta tanto elevata da suscitargli un dubbio: ma allora qual è la cima più alta del mondo?


I dubbi sbocciano come fiori stagionali, e come tali hanno una vita breve. Ma non quello riguardante Platone e Aristotele. Quello ha attraversato tutte le epoche, ascoltato tutte le supposizioni, ed è giunto fino a noi. Irrisolto.


− No, − proseguì con convinzione Oberosler − nessun elogio nei confronti di Aristotele è mai esagerato. Difficile sopravvalutarlo. Circa la diversa strada intrapresa dai due per giungere alla verità, salomonico è il giudizio di Samuel Taylor Coleridge che osserva: “Gli uomini nascono platonici o aristotelici”.


I platonici sono coloro che amano la poesia, e tutto ciò che suscita in noi ammirazione poetica, come la musica e la matematica, discipline accomunate dall’avere la stessa struttura armonica.


Gli aristotelici sono invece tutti coloro che amano la prosa, e tutto ciò che suscita in noi ammirazione scientifica come la scoperta delle leggi della natura. Platone amava la sintesi, per questo ricorre ai miti; Aristotele amava l’analisi, per questo predilige le descrizioni. Mentre con Platone il sapere era tutto unito, secondo una visione arcaica, con Aristotele il sapere si articola nelle diverse discipline, si specializza. Basterebbe solo dire questo per capire la sua grandezza.


Alice e Franz parlottavano tra di loro.

− C’è qualche problema? – s’intromise Oberosler.

− No, niente – rispose Alice. – Ci stavamo chiedendo se lei fosse platonico o aristotelico.

− Dipende.

− Da cosa?

− Da chi sto spiegando: se spiego Platone sono platonico; se spiego Aristotele sono aristotelico.


− Ma lei, − lo incalzò Alice − personalmente che cos’è?


− Che volete che vi dica. Con il permesso di Coleridge, direi che si nasce platonici e si muore aristotelici, per cui mi sento ancora platonico, non sono così vecchio da essere aristotelico. Battute a parte, amo quella filosofia che volendo avvicinarsi il più possibile alla verità, come Icaro al Sole, precipita nelle contraddizioni; quella filosofia che pur sapendo di avere ali di cera non si arrende. Fallisce, ma ci prova. Per questo Platone è il mio eroe.


− E come fa allora a essere così entusiasta di Aristotele?


− Se valutiamo questi due grandi filosofi, prendendo come metro di giudizio le attuali convinzioni scientifiche e filosofiche, non vi è dubbio che la sfida l’abbia vinta Aristotele. La nostra mentalità è più vicina al suo modo di pensare, per cui è senza dubbio più facile parlare di Aristotele che di Platone.


In ogni caso, se vuoi capire qualcuno, prima bisogna camminare tre lune nei suoi mocassini, come dicono gli indiani Sioux, amando il paesaggio che lui ama. Questo è il mio compito. Solo dopo viene la critica. Mescolare presentazione e critica di un filosofo non ha senso.


Oberosler incrociò lo sguardo di Franz.

− È la prima volta che vieni qui, vero?

− Sì, mi ha invitato Alice.

− Ti chiami?

− Franz.


Come un proiettile, il nome colpì in fronte Marco, che reagì con un mezzo sorriso.


− Allora Franz, non so quanto sai di filosofia.

− Ne so abbastanza da essere disorientato.

− Allora sei il soggetto giusto per aiutarmi a fare una bella lezione, libero da preconcetti, voglio dire. Intervieni quando ti pare. Tutto chiaro fin qui?

− Sì.

− Domande?

− Una, la più banale:

Chi era Aristotele?

− Aristotele nacque a Stagira, in Macedonia, nel 384 a.C. Proveniva da una famiglia di scienziati. Suo padre, Nicomaco, era medico presso la corte di Aminta III, padre di Filippo II e nonno di Alessandro Magno.


Si narrava che la sua famiglia, gli Asclepiadi, avesse appreso direttamente dal dio della medicina i segreti delle cure mediche. Questo per dire che Aristotele trascorse la sua infanzia in un ambiente scientifico, appassionandosi alla ricerca sperimentale.


All’età di diciassette anni la sua famiglia lo mandò ad Atene, affinché completasse gli studi nella più celebre istituzione culturale dell’epoca, l’Accademia di Platone.


Tra le varie biografie di Aristotele, la più ricca di particolari è la cosiddetta “Vita Marciana”, chiamata così perché conservata nella Biblioteca Marciana di Venezia. Da questa biografia veniamo a sapere che il giovane Aristotele si assentava spesso dalle lezioni per rimanere a casa a leggere. Un giorno, non vedendolo, Platone avrebbe detto:


L’intelletto è assente, il pubblico è sordo.


− Vero o meno che sia questo aneddoto, sicuramente Aristotele si distinse nell’ambito dell’accademia per la sua straordinaria intelligenza, e sicuramente con lui cambiò l’approccio allo studio della filosofia: da Aristotele in poi la filosofia s’impara leggendo i libri, mentre secondo Platone, come per Socrate, dialogando.


Per circa vent’anni, fino alla morte del suo maestro, Aristotele frequentò la scuola di Platone. Eppure nelle sue opere Aristotele non cita mai nessun compagno di studi. Con un’unica eccezione. Nell’Etica nicomachea troviamo questa frase: “Pur essendoci care entrambe le cose [gli amici e la verità] è dovere morale preferire la verità”. Ma è chiaro, nonostante l’uso del plurale “amici”, il riferimento a Platone. Da qui la celebre formula elaborata dalla tradizione:


Caro mi è Platone, più cara ancora la verità.


− Un’espressione simile si trova anche in Platone, e precisamente nel Fedone: “Di Socrate ci si deve occupare un po’, ma della verità molto di più”.


Il fatto che Aristotele e Platone, a proposito del rapporto tra amicizia e verità, usino praticamente le stesse parole ci fa comprendere una cosa molto semplice: entrambi erano socratici. Per loro, insomma, la ricerca non poteva mai dirsi conclusa, nel senso che la fedeltà nei confronti del maestro si manifestava più nel proseguire la ricerca fino a contraddirlo, che non nell’accettare acriticamente le sue conclusioni.


Franz, mi segui?

− Sì, ma non riesco a raccapezzarmi: se entrambi erano socratici, allora perché gli uomini nascono platonici o aristotelici?


− Aristotele si distanzia da Platone innanzitutto per un fatto caratteriale. Come sosteneva Johann Fichte, il tipo di filosofia che si fa dipende dalla persona che si è. Se ci pensate, prima una cosa vi piace o non vi piace, poi ne elaborate le ragioni.


− Posso dirlo con parole mie?

− Certo.

− I pensieri nascono nella pancia, poi la mente li spiega. Ho capito bene?

− Sì, è così. Aristotele aveva l’indole dello scienziato, a lui piaceva osservare le cose percepite dai sensi e poi ragionarci su. Al contrario, Platone riteneva ingannatori i sensi e di conseguenza era affascinato dalle realtà eterne, immutabili, quelle raggiungibili solo con la ragione.


La differenza tra Platone e Aristotele è plasticamente sintetizzata dal celebre dipinto di Raffaello, La scuola di Atene, in cui Platone addita con l’indice il cielo, per dire che la verità sta nell’iperuranio, mentre Aristotele tende una mano verso il basso per dire che la verità sta in terra. Il che però non deve trarci in inganno, Aristotele si considerò platonico per tutta la vita: pensava cioè che Platone sarebbe giunto alle sue stesse conclusioni se non fosse morto; esattamente quello che pensava Platone di Socrate.


D’altra parte, Aristotele partecipò con vivo interesse alle discussioni dell’ultimo periodo della vita di Platone, nel momento in cui la dottrina delle idee entrò in crisi a causa di un’osservazione individuata dallo stesso Platone e approfondita da Aristotele, quella cosiddetta del “terzo uomo”.


− Posso interromperla?

− Certo Franz, è quello che ti ho chiesto.

− Sto leggendo un’antologia filosofica.

− Quale?

− I fiori della filosofia.

− Non la conosco.

− C’è un capitolo intitolato “Il terzo uomo”: non ci ho capito niente, a dire il vero.

Risata generale, e di Marco in particolare.


− Per farla breve, se la causa dell’uomo concreto (primo uomo) è l’idea uomo (secondo uomo), allora deve esistere anche un terzo uomo che sia la causa del secondo uomo e così di seguito. Insomma, se per spiegare una cosa si ricorre a un’altra, allora per spiegare questa seconda ne serve una terza, e poi per spiegare la terza una quarta, e per spiegare una quarta una quinta eccetera. Il risultato è che così facendo non si spiega nulla, si moltiplicano soltanto i ragionamenti. Un’osservazione che come una bomba fece crollare tutto l’edificio filosofico di Platone. Da queste macerie parte la riflessione di Aristotele.

Come ci appare l’Essere?

Per Franz una buona notizia. Si era sempre chiesto che cosa fosse l’Essere, senza porsi quella domanda, la più ovvia: come ci appare?


− L’Essere ci appare come esistente, risponde Aristotele; e ogni cosa esistente ci appare costituita da due aspetti: materia e forma. Che cosa sono infatti quella casa, quell’albero o quell’animale se non della materia unita a una forma? Ne consegue che l’idea cavallo non è nella nostra anima da sempre, come credeva Platone, ma nasce dall’osservazione. Così Aristotele si trova costretto a sostituire il termine “idea” con quello di “concetto”.


− E cosa cambia? Idea e concetto non sono sinonimi?

− Non per Aristotele. L’etimo ci aiuta a capirne il perché. Come sappiamo, il termine “idea” deriva dal verbo greco idein, “vedere”: per Platone indica un pensiero, una “visione” che la mente possiede come ricordo; il “concetto”, invece, è un pensiero che secondo Aristotele scaturisce dal rapporto tra la mente e la realtà che ci circonda. È come se la mente venisse “fecondata” da quello che percepisce attraverso i sensi. Il risultato è dunque un pensiero “concepito”, il concetto appunto.


− Chiaro, ma Aristotele come spiega che quella cosa che vedo è, per esempio, un cavallo e non un uomo?


− Tutto dipende dalla forma, cioè dal modo d’essere della cosa; dalla sua “formula” potremmo anche dire. Il che, tradotto nel linguaggio scientifico attuale, dal suo DNA.


− Davvero?

− È quanto scrive il biologo Max Delbrück, premio Nobel per la medicina, in un saggio dal celebre titolo Aristotele-totele-totele. Secondo Delbrück, Aristotele aveva intuito già 2400 anni fa il principio del DNA. E non è l’unica sua straordinaria intuizione, tanto che si ha come l’impressione che la scienza si sia sviluppata nei secoli come eco di uno stesso nome: Aristotele-totele-totele.


− Incredibile, e come c’è riuscito?

− Grazie al padre, medico alla corte di Alessandro. I medici osservano per esempio che un paziente ha la fronte calda e dei brividi. Ne deducono che si tratta di febbre. Deducono poi che la febbre può essere l’inizio di una malattia, che chiamano influenza, e che l’influenza, se accompagnata da macchie sul corpo, può essere il sintomo di una malattia contagiosa. Insomma, Aristotele osservava e ragionava.


Pare di vederlo mentre accompagna il padre medico al capezzale di qualche malato illustre. Tutti sono agitati meno lui, che tra sé pensa:


Se c’è una soluzione, perché ti preoccupi?
Se non c’è una soluzione, perché ti preoccupi?


− È dunque Aristotele il fondatore della scienza così come oggi noi la intendiamo?


− Più che della scienza, delle scienze, perché con Aristotele nascono le scienze al plurale. In precedenza la scienza era unica, nel senso che il sapere era percepito come un tutt’uno più o meno omogeneo. Di conseguenza, scienze che prima non esistevano, come la biologia, la zoologia o la botanica, vengono fondate da Aristotele. Domande?


Silenzio.

− Allora la domanda la faccio io. Non stiamo trascurando qualche argomento?

− Certo, l’Essere − rispose dal fondo dell’aula Alessandro.

− E perché non ne abbiamo ancora parlato?

Silenzio.


− Posso rispondere io? − intervenne a sorpresa Marco.


− Certo.

− Prima di affrontare il tema dell’Essere, occorre capire come funziona la logica, la scienza dei ragionamenti.


− Grazie Marco, proprio così. Partiamo dalla prima domanda che si pone Aristotele.

Quali sono i princìpi fondamentali della logica?

− Aristotele è il fondatore della logica, sebbene non sia il primo a parlarne; fu il primo però a inventare un metodo per analizzare i ragionamenti. Secondo Aristotele, alla base della logica ci sono tre princìpi che dobbiamo accettare per veri per una semplice ragione: sono evidenti.


Innanzitutto abbiamo il principio di identità: il che significa che una cosa è uguale a se stessa; segue il principio di non contraddizione, nel senso che una cosa è diversa da un’altra; infine vi è il principio del terzo escluso: o una cosa è uguale a se stessa o è diversa da un’altra, non esiste una terza possibilità.


Per farla breve, dire che “Dio è uno e nel contempo trino”, come afferma la religione cristiana, contrasta con il principio di non contraddizione. Magari davvero Dio è uno e trino, non abbiamo però la possibilità di verificarlo: quindi l’affermazione può anche essere vera, ma di certo non è logica.


Sentendo parlare di Dio, Alice ebbe un sussulto. Oberosler se ne accorse.

− Allo stesso modo, se metto in relazione due proposizioni, con quel meccanismo chiamato “sillogismo”, la logica mi dice solo come dev’essere costruito. Per esempio, se affermo che “tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, dunque Socrate è mortale”, il mio ragionamento è corretto. Ma corretto non vuol dire vero. Posso per esempio fare un sillogismo perfetto e dire una stupidaggine: “Tutti gli animali volano, Socrate è un animale, dunque Socrate vola”.


Per sapere se un sillogismo è vero occorre che le premesse (tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo) siano vere. E questo me lo dicono solo i sensi. Solo i sensi mi dicono cioè se quella cosa davvero esiste.


Franz si stava perdendo, ma non disse nulla.

− Prendiamo la statua di un atleta. Di che cosa è fatta? Di marmo. Il marmo ne è dunque la causa materiale. Il marmo però non è grezzo, ma ha una precisa forma, quella di un atleta: causa formale. Che cosa ha trasformato poi quel blocco di marmo nella statua di un atleta? Lo scalpello di uno scultore: causa efficiente.


Quando Michelangelo sosteneva che in un blocco di marmo già vedeva la statua che sarebbe stata, non faceva che citare Aristotele: la materia è infatti caratterizzata da potenza, nel senso che può assumere forme diverse. È questo il meccanismo che rende possibile il divenire della natura. Tutto chiaro dunque? Interrogativo retorico. Oberosler era un fiume in piena.


− Aristotele si pone poi un’altra domanda: per quale fine la statua è stata scolpita? Che è come chiedersi: perché c’è questa statua? Perché esiste? Una domanda molto diversa dalle precedenti, nel senso che in questo caso per avere una risposta occorre andare “oltre”, “al di là” della statua, occorre cioè interrogare chi l’ha scolpita. Perché solo così è possibile sapere che verrà esposta a Olimpia come simbolo delle virtù sportive. Il divenire, dunque, non è solo mosso da una causa materiale (lo scalpello dello scultore), ma anche da una causa spirituale, la causa finale, l’intenzione dello scultore.


La causa finale non è una causa tra le cause, ma quella che dà un senso a tutto l’universo.


− Quando Aristotele avvertì questo, sperimentò la stessa emozione che provarono Parmenide, nel momento in cui intuì l’Essere, e Platone, con il mondo delle idee. La causa finale è la chiave di volta del sistema filosofico di Aristotele, il momento in cui la riflessione dello scienziato si interseca con quella del filosofo. Un conto infatti è descrivere una cosa, come fa lo scienziato; un altro è invece interrogarsi sul perché esiste, ed è quello che fa il filosofo. E qui arriviamo alla domanda delle cento pistole.

Che cosa c’è al di là di tutto quello che percepiamo con i sensi?

− L’Essere, professore.

− Bravo, Franz. Aristotele chiama la scienza che si occupa dell’Essere “filosofia prima” o “filosofia suprema”, in quanto si occupa dei princìpi primi, delle “cause supreme”. Storicamente però queste definizioni non si sono affermate. Per indicare questi argomenti, agli studiosi è piaciuto di più utilizzare il termine “metafisica”.


Il primo a usarlo fu Andronico di Rodi, che nella sua biblioteca ordinò i testi di Aristotele in modo sistematico, iniziando da quelli riguardanti la fisica, intesa genericamente come natura.


Dopo di essi, collocò poi i testi riguardanti l’Essere. Da qui il termine “metafisica”, che significa “oltre la fisica”, “al di là della fisica”. Una definizione davvero azzeccata. Riassume perfettamente che cosa aveva in mente Aristotele quando parlava di “scienza dell’Essere”.

Metafisica è tutto ciò che sta al di là di ciò che vediamo.

− Ma se questa realtà sfugge ai nostri occhi, come possiamo conoscerla? Ecco il percorso che ci conduce alla metafisica. Diciamo innanzitutto che qualcosa esiste. Poi diciamo che questa cosa che esiste è bella, grande, lontana eccetera. Aristotele individua dieci modi di dire dell’Essere e li chiama “categorie”: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, possesso, azione e passione. La categoria più importante è quella di sostanza.


− Mi scusi professore, ma se non fa degli esempi non capisco.

− Non ti scusare, Franz. Attenzione, però: gli esempi sono un po’ come un’impalcatura. Terminati i lavori, l’impalcatura va tolta, nel senso che i ragionamenti devono stare su da soli.


− Certo.

− Dunque, la cosa che vedo nel mio giardino è una sostanza che chiamiamo albero. Posso poi dire che questo albero è bello (qualità), grande (quantità), lontano (luogo) eccetera. A questo punto mi chiedo: che cosa fa sì che l’albero che vedo sia quest’albero e non un altro? La sua essenza, risponde Aristotele.

− E questo vale anche per le persone?


− Senza dubbio. L’essenza è “ciò per cui una cosa è quel che è”: questa è la sua definizione. Tutto chiaro?


− Sì, grazie, lezione tosta però − commentò Alessandro a nome di tutti.


− Vero. La lezione è il momento della presa di coscienza di un problema; deve poi decantare fino a che un bel giorno quello che sembrava astruso apparirà lineare, facile. Nulla di strano. Ci vuole del tempo. Qualche osservazione?


Nessuno intervenne.

− A presto. Guardate il calendario; non ricordo più la data della prossima lezione su Aristotele.


Alice e Franz uscirono dall’aula tenendosi per mano. Come se stesse cercando qualcuno, Marco osservò la scena. L’amore è sempre negli occhi, e in quelli da predatore di Marco non ce n’era traccia. Non provava nulla per Alice. In lui c’era solo stizza per non averne compreso l’essenza, avrebbe concluso Aristotele. E allora perché non si rassegnava?

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO