Ci sono persone che stanno nel nostro cuore, ma che non possono stare nella nostra vita.
capitolo 20
La maschera
Perché ci innamoriamo proprio di quella persona? E non di una delle centomila altre che ci circondano? Oberosler aveva una risposta, e non era il successo riproduttivo.
Quando due persone si incontrano, sosteneva Darwin, la natura non fa altro che valutare se da quell’unione potrà nascere un bambino sano.
Un algoritmo che aveva qualcosa di urticante. E poi non rispondeva alla domanda: perché proprio quella persona? Darwin parlava di un bambino sano, e di persone che sprizzano salute ce ne sono tante: perché proprio quella?
La teoria di Oberosler sbirciava invece nel mistero: ci innamoriamo delle persone che abbiamo conosciuto in sogno, perché è dai sogni che sgorgano i sentimenti. Quando poi le incontriamo nella realtà chiamiamo in causa la violenza del cielo e gridiamo al colpo di fulmine: è lui, è lei!
A volte ci sbagliamo, perché i contorni dei sogni non sono nitidi, per non parlare dei fulmini, che cadono dove vogliono. Ma il meccanismo è quello. Cielo e terra s’incontrano nei sogni. Ad attrarci è la loro incredibile energia.
Marco tutte queste cose le sapeva, ma è sempre difficile credere a una teoria che non premia il tuo modo di stare al mondo. Si era però specializzato in grammatica emotiva femminile, settore giovanile. E aveva colto qualcosa nello sguardo di Alice. Un briciolo di luce subito spentosi. Perché? Uno come lui, abituato a distinguere essenza da sostanza, non poteva rassegnarsi al gorgoglìo del “non so”, “va’ a sapere”.
Non rimaneva che rivedere Alice. Il suo silenzio lo stordiva. Chissà, magari questa volta lo scandaglio psicologico avrebbe funzionato.
Le circostanze si erano però messe di traverso: quel martedì non sarebbe potuto andare alle Officine Grandi Riparazioni. Era impegnato con Lando, un piccolo editore, di quelli che si agitano nel sottobosco universitario. Voleva proporgli un curioso libretto su Voltaire, il cui spirito si era intrufolato nella sua mente. Per questo aveva mandato un messaggio ad Alice: gli sarebbe piaciuto incontrarla prima della lezione, così sarebbero andati insieme all’appuntamento. L’idea era quella di coinvolgerla in qualche modo, magari affidandole la correzione delle bozze. Ci voleva qualcuno che avesse dimestichezza con la filosofia, oltre che con la sintassi. Da cosa nasce cosa. Vecchia regola. Alice, però, non aveva risposto. Silenzio. Perché?
Marco si chinò sul suo Samsung: niente, nessun messaggio. Ancora silenzio. E così il gorgoglìo del “non so”, “va’ a sapere”, riprese a molestarlo con la determinazione di una mosca guerriera.
La giornata era un pianoforte scordato, con quel cielo misto di sole e pioggia. Lando l’attendeva alle Cantine Risso, in corso Casale. Salatini caldi e arneis fresco di benvenuto. Accordatura riuscita.
La pubblicazione avrebbe dovuto avere per titolo Giù le maschere, ma l’editore già al telefono si era detto contrario. La sua era un’idea più originale di quella a cui pensava Marco: voleva intitolarla Con Voltaire per le strade di Torino. Avrebbe voluto, cioè, che Voltaire fosse il tracciante fluorescente capace di illuminare la Torino misteriosa, quella che si nasconde dietro i monumenti, le piazze, le strade. E soprattutto le maschere. Tutte simili e tutte diverse, come in piazza San Carlo o in via XX Settembre. Chi gira per il centro avverte di essere osservato, tante ce ne sono.
Le maschere che sbucano dai palazzi storici di Torino possono essere i segni distintivi di un casato o rappresentazioni neogotiche di demoni e arcangeli con orecchie a punta e naso aquilino. Raffigurazioni che intimoriscono o sbeffeggiano il passante.
Era stato Cartesio, nel Seicento, a comprendere per primo l’importanza della maschera.
Come gli attori, perché il rossore della vergogna non appaia loro in volto, vestono la maschera, così anch’io sul punto di salire su questa scena mondana, di cui fin qui fui spettatore, avanzo mascherato.
Nel Settecento ad “avanzare mascherato” fu Voltaire. Tutti quelli che hanno un po’ di dimestichezza con la filosofia lo conoscono. Pochi però ricordano che in realtà si chiamava François-Marie Arouet; meno ancora sono quelli che sanno spiegare l’origine del suo pseudonimo, e con certezza nessuno.
“Voltaire” potrebbe essere l’anagramma del villaggio di origine della sua famiglia, Airvault; oppure la contrazione di volontaire (“volontario”), che richiama l’idea di audacia.
Questa è senz’altro l’ipotesi più intrigante, visto il personaggio, ma non è la più accreditata. Per quelli che se ne intendono, vince la gara la terza ipotesi: “Voltaire” corrisponderebbe all’anagramma di “jeune («giovane») Arouet” con la sostituzione di un paio di lettere, tanto per complicare le cose. Roba da enigmisti, di quelli bravi: per questo, in genere, nelle storie della filosofia non se ne parla. Si dice che Voltaire volle chiamarsi così, e la faccenda finisce senza ulteriori commenti. Sarebbe un inutile spreco d’inchiostro.
E allora, per abituarci all’immaginario filosofico di Voltaire, mettiamoci alla prova con altri due suoi enigmi.
Primo. Di tutte le cose del mondo, qual è la cosa più lunga e la più corta, la più veloce e la più lenta, la più divisibile e la più estesa, quella che più si trascura e più si rimpiange?
Secondo. Qual è quella cosa che riceviamo senza ringraziare, sprechiamo senza motivo, diamo agli altri senza sapere perché e perdiamo senza rendercene conto?
Chapeau a chi ha già risposto. Nel primo caso si tratta del tempo, e nel secondo della vita. Ma torniamo all’enigma del nome.
A Voltaire non piaceva chiamarsi Arouet perché questo era il cognome del padre, un moschettiere, mentre lui si riteneva figlio di un uomo d’ingegno, Rochebrune. Tutto qui? Si credeva un figlio illegittimo sebbene non ne avesse le prove? Non può essere. E allora avventuriamoci nelle pieghe del suo animo, partendo da un’evidenza: lo pseudonimo è una maschera.
Un’invenzione, quella della maschera, che risale alla preistoria. Indossandola, l’uomo primitivo pensava di assumere la forza del dio, dello spirito o dell’animale di cui prendeva le sembianze. E questo vale ancora oggi. La maschera dà forza alla comunicazione.
Voltaire era un comunicatore di una bravura inarrivabile, e istintivamente scelse uno pseudonimo per dire che lui parlava in nome della verità, non di se stesso. Lui non era un Arouet qualsiasi, al soldo delle sue vicende personali. Lui era Voltaire. Lui era la ragione.
Non siamo quello che crediamo di essere, ma quello che gli altri credono che noi siamo.
Per questo, quando ci avventuriamo in internet, viene spontaneo mettersi una maschera, il nickname.
La svolta comunicativa risale al Settecento. Con Voltaire compare la maschera del brillante intellettuale “mediatico”, capace di rivolgersi all’opinione pubblica che proprio in quel periodo si andava formando. Fu lui a inventare gli slogan, frasi ad effetto come quella che circolò in tutta Europa e preparò il terreno alla Rivoluzione francese:
Schiacciate l’infame!
Che poi nella vita privata Voltaire fosse un farabutto, un ipocrita, un codardo è un’altra questione. Si trattava di difetti che scaturivano dalla sua voglia di vivere. Perché Voltaire detestava tutto ciò che sapeva di morte, come l’intolleranza religiosa e il fanatismo, che per curare le anime bruciavano i corpi. Lui non scriveva per raccontare di sé, ma per agire.
Nessun farabutto, ipocrita e codardo ha lottato più di lui per una società migliore. E questo vale per tutte le sue opere, tutte scritte con la stessa formula.
Mescolate il ridicolo con la ragione, cercate di creare indifferenza, e allora molto probabilmente otterrete tolleranza.
Anche nella divulgazione scientifica, Voltaire è attento a non annoiare il lettore. Prendiamo il celebre aneddoto di Newton che scopre la forza di gravità quando una mela gli cade sulla testa. Chi lo ha fatto conoscere al mondo? Già lo sapete. Voltaire sosteneva di averlo appreso dalla sorella di Newton… Fate voi.
Se volessimo giocare un po’ con la storia del pensiero occidentale, potremmo dire che ci sono tanti filosofi ognuno con la sua filosofia. E poi ci sono due filosofi senza una filosofia: Socrate e Voltaire. Perché Socrate e Voltaire ci hanno lasciato non una filosofia, ma un atteggiamento filosofico. Da qui la pratica dell’ironia che li accomuna e li rende capaci di impastare ogni domanda nel dubbio.
Un atteggiamento pericoloso, il loro. Il primo ci rimise la pelle, il secondo dovette fuggire in Inghilterra. Ma fu lì che Voltaire capì che la filosofia doveva servire a migliorare la società, non a perdersi nei meandri della metafisica.
Se l’obiettivo di Socrate era quello di indirizzare l’uomo verso il bene-verità, quello di Voltaire consisteva nella liberazione dell’uomo dalla schiavitù della religione e del potere assoluto. La sua penna era una scatola magica da cui uscivano scritti graffianti capaci di mobilitare l’opinione pubblica della sua epoca contro il fanatismo e l’intolleranza.
L’editore Lando era contento. Il tracciante fluorescente Voltaire poteva essere lanciato. Nuovo titolo del libretto come somma dei due proposti:
Giù le maschere.
Con Voltaire per le strade di Torino.
Affare fatto. Altro giro di arneis fresco, grazie.
La libertà di pensiero è un tratto del carattere che richiede coraggio. Se c’è, c’è; se non c’è, non c’è. E Marco ce l’aveva. Per questo era attratto da Voltaire e dai suoi vari aggiornamenti, come Sartre, il Voltaire del Novecento.
Splendido personaggio, quello del brillante intellettuale mediatico dalle mille anime, ma non era la maschera che Alice aveva sognato. Da qui il suo silenzio.
In sogno le era apparso un tipo più alla buona, meno ciarliero, alla Talete per intenderci, uno a cui il dio della filosofia aveva dato il dono della sintesi.
Qual è l’origine di tutte le cose? L’acqua. Splendido. Tutto in una parola: l’utopia a cui mira il rasoio di Ockham. Una maschera di semplicità i cui contorni ricordavano quelli di Franz.
La vita nasconde segreti che solo i sogni conoscono. Come quello riguardante le persone che ci piacciono, ma con cui non usciremmo mai; persone che stanno nel nostro cuore, ma che non possono stare nella nostra vita.
Tutti scartiamo, e tutti veniamo scartati.
Ricordiamocelo, quando è il nostro turno. Perché stupirsene?
In amore, come in filosofia, l’unica verità certa è che non ci sono verità certe. Ma quando al primo appuntamento le cose non funzionano, e al secondo si va da soli, è il caso di lasciar perdere. A meno di non essere dei narcisisti-masochisti come Marco. Con Alice ci avrebbe prima o poi riprovato. Un po’ per l’intima convinzione che a Voltaire non si può dire di no. Un po’ per l’arneis fresco.
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO