capitolo 21

Le scuole ellenistiche

L’uomo è come un cane legato a un carro: può assecondarne il movimento, e seguirlo volontariamente, o farsi trascinare.

Mentire o dire una stronzata non sono la stessa cosa: chi mente riconosce in qualche modo l’autorità della verità, mentre chi dice una stronzata non ha nessun interesse verso i fatti.


Secondo Harry Frankfurt è molto più grave dire una stronzata che una menzogna, perché dire una menzogna non inficia la capacità di dire la verità, quanto invece il raccontare stronzate. Chi vive di stronzate perde il contatto con la verità.


L’argomento era affrontato nel numero del Cigno Nero che Alice aveva prestato a Franz. Certo che la verità esiste, era la tesi del primo articolo: credere che non esista è più un problema psicologico che filosofico. Non a caso la storiella dell’isola su cui vi è un gran sasso nero che tutti gli abitanti credono bianco, e quindi sono dei cretini, è di uno psicologo della percezione, Paolo Bozzi.


Facciamo un altro esempio: quanti pianeti ci sono nell’universo? Non lo sapremo mai: alcuni sono troppo lontani, altri troppo piccoli per poterne ricevere un segnale. Eppure un numero preciso c’è, esiste una verità. Qualcuno ha il coraggio di affermare il contrario?


Il successivo articolo entrava invece nel merito del significato di post-verità, così viene definita la verità di oggi, quella che prevale nel web, una verità che piace, non quella dei fatti.


In ogni caso, concludeva l’editoriale del Cigno Nero, ci sono verità e verità: la verità del numero dei pianeti e quella del sasso nero, ma anche la verità del perché esistono i pianeti e il sasso nero; una verità, quest’ultima, che non potrà mai trionfare, perché ha un nemico invincibile: un’altra verità.


Nei confronti della verità, insomma, proviamo lo stesso sentimento che il poeta latino Ovidio avvertiva per quella donna, tanto bella quanto fonte di guai, di cui dice rassegnato: “Né con te, né senza di te”. Regola con cui si è soliti concludere i corsi accelerati per aspiranti Casanova.


L’umanità maschile si divide tra coloro a cui le donne appaiono come dei misteri gioiosi e quelli che le collocano tra i dolorosi. Marco apparteneva alla prima categoria.


Come tutti i seduttori di talento, possedeva un lato femminile del carattere che gli rendeva facile avvertire le vibrazioni delle sue prede. Puoi mentire con le parole, ma non con il corpo. E lui aveva l’occhio lungo del cacciatore.


Con Alice qualcosa non aveva funzionato, è vero, ma anche i grandi campioni, ogni tanto, sbagliano i rigori. E come tutti i grandi campioni voleva riprovarci. Non era il tipo che si scansava se passava una mosca.


Passata l’euforia da arneis fresco, solo per prudenza Marco aveva deciso di mettere Alice in stand-by. Ora frequentava Franz, e la cosa sembrava seria. Ancora un messaggio, in attesa di qualche vuoto d’aria. Succede sempre, a tutte le coppie.


“Chiamami, se ti senti sola – digitò. – Anche tra un po’. Ciao, Marco.”

Sebbene stesse camminando, Alice decise di rispondere subito.

“Okay.”


E per la stizza una lacrima le rigò la guancia e naufragò sul cellulare. A dire il vero, il galateo emotivo avrebbe voluto che il messaggio fosse completato da un “anche tu”. Ma non se l’era sentita. Forse in un’altra vita avrebbe accarezzato i riccioli capricciosi di Marco. Forse. In questa non c’era spazio per lui. Franz, tumore e un figlio sulla rampa di lancio potevano bastare.


E poi Marco non sapeva ascoltare il silenzio, la voce di chi soffre, e questo indispettiva Alice più di ogni altra cosa. Ascoltare il silenzio significa entrare nella vita di un altro e l’altro nella nostra dalla porta dell’inconscio. Significa non credere di aver capito tutto, quando non si è capito niente. Così Marco rimaneva distante dalla dimensione più prossima a quella saggezza che il silenzio regala.


Il campanello squillò e il viso di Alice comparve nello schermo del videocitofono.


Da quando Franz aveva preso a frequentarla, erano trascorsi una ventina di giorni di ordinaria felicità. Ogni tanto pensava a Eleni; il ricordo era sempre vivo, ma intrappolato da qualche parte della sua mente come una farfalla in un barattolo.


Ora Franz percepiva il passato, il presente e il futuro come tre vecchi amici messicani intenti a scolarsi una bottiglia di tequila bum bum. Il salto di qualità l’aveva fatto conoscendo Oberosler, che l’aveva guidato per le sempre verdi vallate del pensiero di Aristotele. E sentirsi al centro dell’universo l’aveva messo di buon umore.


Fine del passaggio in ombra; era apparsa la luce e ora aveva un obiettivo, quello di tutti i filosofi di tutti i tempi: dare la caccia all’Essere. Che poi nel suo caso, vista l’impreparazione di base, l’impresa equivalesse a cercare di risalire a mani nude le cascate ghiacciate del Niagara, non lo preoccupava più di tanto. Dentro di lui si era acceso il sacro fuoco della filosofia, e non si sarebbe di certo fermato di fronte a qualche asperità culturale.


Al termine dell’ultima lezione su Aristotele, Oberosler aveva fatto un breve annuncio.


− Ora è la volta delle scuole ellenistiche. Affronteremo questo argomento in un modo particolare. A coppie. Cercatevi un partner con cui studiare, voglio dire. Poi dividetevi gli argomenti e spiegateveli a vicenda, interrompendovi, interrogandovi, polemizzando. Il dialogo è l’anima delle scuole ellenistiche.


Alice e Franz avevano così passato i giorni successivi a prepararsi. Ora era venuto il momento del confronto.


− Alice!

L’abbraccio caldo e profondo tendeva a diventare sempre più intimo.


− Lasciami almeno togliere il cappotto...

− Che c’è?

− Niente, lo sai Franz… prima voglio parlare con la ginecologa, non mi va di fare le cose alla cavolo con tutti i problemi che ho.

− Ma…

− Porta pazienza… la verità è che ti sei messo con un rottame.

− Non ti preoccupare Alice... davvero… lo vuoi un tè?

− Ce l’hai al bergamotto?

− Vediamo… eccolo!

− Perfetto.

− Ti vedo un po’ pensierosa, problemi?

− No… solo qualche dubbio.

− In che senso?

− Nel senso che incomincio ad avere delle perplessità sulla nuova cura.

− Alice, l’hai appena iniziata, porta pazienza.

− Sì, ma ieri a Milano ho visto negli occhi del dottor Monchiero una nuvola nera.


− Si tratta di una cura sperimentale, è normale che sia preoccupato.

− Certo Franz, però quella nuvola non c’era la prima volta che me ne ha parlato.

− Ma dai… se una rondine non fa primavera, come dice Aristotele, neanche una nuvola nera segnala tempesta, aggiungo io assai più modestamente.

− Sarà così.


Seguì un imbarazzato silenzio. Se ami qualcuno desideri per questa persona più di quello che vorresti per te. E Franz avrebbe voluto regalare ad Alice tutta la felicità del mondo, trattenendo per sé tutto il dolore che stare al mondo comporta. Ma come impastare felicità e dolore senza cadere nel ridicolo?


Meglio dunque cambiare argomento, magari parlando di Dio, tema che la intrigava particolarmente. Una buona idea: nulla è più consolatorio della religione.


No, meglio attenersi al programma, e parlare delle scuole ellenistiche. L’amore alza il tono del narcisismo, e sfoggiare quanto faticosamente appreso è una festa per l’ego.


− Allora Alice, sei pronta con l’ellenismo?

− Sì, ma comincia tu.

− Se vuoi… anche se non era questo l’accordo.

− Davvero?

− Non fare la furba, tu mi spieghi l’ellenismo, io l’epicureismo, tu lo stoicismo e io lo scetticismo. Questo si era detto.

− No, lo scetticismo lo facciamo a metà: tu spieghi quello antico e io concludo con quello attuale.

− Dello scetticismo attuale non so nulla.

− Allora Franz non conosci la storia del cigno nero.

− Esatto, mi chiedevo perché la rivista si chiamasse così.

C’entra con lo scetticismo contemporaneo, ne parliamo dopo.

− Okay, quindi che facciamo? Non ho voglia di litigare. Saltiamo l’introduzione sull’ellenismo e passiamo subito allo stoicismo.

− No Franz, scherzavo. Volevo metterti alla prova.


− In che senso?

− Volevo vedere come reagivi. Ora però basta, se vuoi puoi prendere appunti…

− No Alice… mi piace guardarti negli occhi quando parli.

− E cosa vedi?

− Che sono di un marrone soprannaturale con striature verde paradiso…

− Ma dai!


Alice aprì l’iPad su cui aveva studiato, e assunse quell’aria ispirata sorretta dalla voce solenne che Oberosler amava sfoggiare nelle grandi occasioni.


− Con l’irresistibile avanzata dell’esercito di Alessandro Magno, la Grecia perse la propria indipendenza. Ebbe così inizio l’età ellenistica (da Elleni, il nome con cui i Greci chiamavano se stessi), caratterizzata dal diffondersi della cultura greca in tutto l’impero macedone.


L’età ellenistica durò circa tre secoli, dal IV al I secolo a.C., quando i grandi regni di Macedonia, Siria ed Egitto vennero inglobati nell’impero romano. Fu così che la cultura greca giunse anche a Roma soppiantando quella tradizionale, tanto da far dire al poeta latino Orazio: “La Grecia, conquistata dai Romani, conquistò il rozzo vincitore”.


Caratteristica della cultura ellenistica fu la separazione della filosofia dalla scienza, nel senso che i due saperi, filosofico e scientifico, si separarono anche geograficamente: Atene proseguì la sua tradizione filosofica, mentre il centro della ricerca scientifica si spostò ad Alessandria d’Egitto.


− Bene − mormorò Franz, tanto per dire qualcosa.

− L’aspetto più interessante è che la filosofia nell’età ellenistica si diede un obiettivo esistenziale, prese cioè a riflettere su temi quali la felicità, il dolore o la morte. E lo fece dando vita alle scuole ellenistiche, come l’epicureismo e lo stoicismo. Lo scetticismo invece non va considerato una scuola in senso stretto, ma l’indirizzo seguito da differenti scuole filosofiche.

− Interessante, ma perché proprio in quel momento la filosofia vira verso un obiettivo esistenziale?


− Perché l’età ellenistica è un periodo di grandi trasformazioni politiche, economiche e sociali. E i cambiamenti sono sempre faticosi, nel senso che generano insicurezza, ansia, paura. In un contesto del genere, non interessano più i temi teorici della filosofia, ma quelli riguardanti l’esistenza. Tutto qui. Ora Franz tocca a te con l’epicureismo.


− Vorrai dire la “filosofia del giardino”, il nome che gli epicurei avevano dato alla loro scuola.


− Poetico, come nome.


− Epicuro nacque a Samo nel 341 a.C. Suo padre, Neocle, era un ateniese trasferitosi sull’isola come colono. Ritornato nel 306 a.C. nella sua terra d’origine, Epicuro acquistò alla periferia di Atene una casa con un giardino e incominciò a insegnare.


− Com’era questo giardino?

− Mah… sappiamo solo che era anche un orto e che nei giardini dell’età ellenistica particolarmente gradite erano le violette e le rose, mentre alti platani, pini e cipressi ombreggiavano i viali.


− Che meraviglia! E chi frequentava questa scuola?

− Alla “scuola del giardino” di Epicuro erano ammessi tutti: aristocratici e umili cittadini, liberi e schiavi, uomini e donne anche senza una particolare preparazione culturale.

− Di che cosa si occupavano?

− Si dedicavano principalmente alla lettura e allo studio dei testi del maestro. La scuola era poi anche un’associazione religiosa, con tanto di divinità di riferimento, Epicuro stesso. “Comportati sempre come se Epicuro ti vedesse”, dice uno dei precetti dell’epicureismo.


Epicuro morì nel 271 a. C., ma la scuola epicurea sopravvisse al suo fondatore fino al IV secolo d.C. Un notevole arco di tempo, che ci dà la misura della grande considerazione di cui Epicuro godette nel mondo antico.


− Senti Franz, che ne dici se smettiamo di fare lezione e cerchiamo di dialogare come ci ha suggerito Oberosler? Che cosa ti piace di Epicuro?


− La semplicità del ragionamento.

− E cioè?

− Secondo Epicuro ogni uomo si dovrebbe chiedere: che cos’è la felicità? E poi, come posso raggiungerla?


− Sono d’accordo, sentiamo le risposte.

− Per Epicuro la felicità coincide con il piacere. In pratica, ciò che piace è bene e ciò che provoca dolore è male.

− Semplice e diretto.


− Il problema, Alice, è che siamo malati, nel senso che la nostra anima è intossicata da paure irrazionali.

− E che cosa dobbiamo fare per guarire?

− Ricorrere alla filosofia.

− Spiegati meglio.

− Lo scopo della filosofia è quello di liberarci dalle paure che ci impediscono di vivere una vita piacevole.


− In che modo?

− Ecco il ragionamento di Epicuro. Prendiamo la paura degli dèi, un’angoscia molto diffusa nel mondo antico. Ebbene, la filosofia ci insegna a non temerli. Chi sono infatti gli dèi? Degli esseri perfetti che vivono eternamente nella loro beatitudine: e allora, come potrebbero essere beati se si occupassero delle travagliate vicende umane?


− Vero. A conoscere da vicino le nostre storie c’è solo da piangere.

− La seconda grande paura da sconfiggere è quella della morte: ma anche in questo caso si tratta di un abbaglio.

− Perché?

− Per la semplice ragione che “quando ci siamo noi la morte non c’è, e quando c’è la morte non ci siamo noi”.

− Sono d’accordo, Franz: nessuno ha mai sofferto da morto.


− La terza grande paura da sconfiggere consiste nel pensare che sia impossibile raggiungere il piacere. Ma il piacere altro non è che equilibrio interiore, quella sensazione che si prova nel mangiare sano, dormire bene, fare una bella passeggiata, ascoltare della buona musica o stare con la persona giusta. Il piacere è qualcosa di naturale, per questo è facilmente raggiungibile.


− Quindi per Epicuro non tutti i piaceri sono veri piaceri.

− Ovvio Alice, sono da ricercare solo i piaceri puri, quelli né preceduti né seguiti da dolore, come già avevano detto Platone e Aristotele. Solo dei pazzi possono ricercare i piaceri che mettono a repentaglio la nostra salute e alterano le nostre capacità razionali.


− Giusto.

− Infine, non bisogna avere paura del male inteso come dolore. Perché ci possono essere solo due casi: o il dolore è lieve e di breve durata, dunque facilmente sopportabile; oppure è acuto e di lunga durata, nel qual caso ci conduce alla morte, condizione in cui non c’è più il dolore.


− Secondo me, Franz, Epicuro la fa troppo semplice. Il ragionamento che fanno gli stoici mi sembra più convincente.


− Un attimo. Voglio ancora aggiungere una considerazione. Sebbene Epicuro non intendesse affatto alludere a “piaceri dissipati”, l’aggettivo “epicureo” viene oggi sovente usato in senso negativo, per indicare qualcuno che eccede nella ricerca del piacere, tanto da non essere molto lontano dal costituire un insulto, una sorta di sinonimo colto di “vizioso”. Un cortocircuito storico, questo è successo. Tanto che l’epicureismo è stato addirittura definito una “filosofia da prostituta”.


− Incredibile.

− Davvero. Pensa che invece Epicuro aveva in mente come modello della vita del saggio la beatitudine degli dèi, quella che si intravede nel sorriso delle statue greche: altro che piaceri dissipati.


Erano le cinque e la pioggia cadeva come pareva a lei, senza ritegno.


− Franz, anche tu hai la mia stessa impressione? Non mi ricordo un anno tanto piovoso come questo.


− Sarà, in ogni caso gli Aztechi lo avevano previsto.

− Non dire stupidaggini, mi accompagni a casa?

− Certo, così staremo stretti stretti sotto l’ombrello.

− E io ti parlerò degli stoici, sussurrandoti all’orecchio il loro pensiero.

− Che incanto!

− Mi sa che ci faremo la doccia, altro che incanto.

− Ho un ombrello matrimoniale, non ti preoccupare Alice.

− E allora andiamo: preferisci bagnarti a destra o a sinistra?

− Ma va’, sei la solita esagerata.


Usciti di casa, la situazione era peggiore di quella che si intravedeva dai vetri. Altro che parlare degli stoici, il problema era evitare, oltre alla pioggia che cadeva abbondante, anche gli schizzi delle auto. Fortunatamente via San Donato, dove abitava Franz, non era distante dal centro, e centro a Torino significa portici. Solo allora, chiuso l’ombrello, la conversazione poté essere ripresa.


− Che corsa!

− Però ce l’abbiamo fatta.

− Quanto sei bagnata da uno a cento?

− No, è tutto okay, salvo le scarpe, che sono delle zattere alla deriva.

− Dai Alice, ora dimmi degli stoici. Incomincio a pensare che gli stoici non ti siano molto simpatici.


− Scherzi?

− Continui a trovare tutte le scuse del mondo per non parlarne.

− Non è affatto così. Anzi, ti anticipo che mi hanno messo in crisi. Ascolta Franz. Qualche notizia per inquadrare il problema. La scuola stoica venne fondata da Zenone di Cizio tra il IV e il III secolo a.C. Zenone era solito tenere le sue lezioni passeggiando sotto un portico dipinto. “Portico”, in greco, si dice stoa: da qui il nome di “stoici”, dato a coloro che in gran numero si recavano alle sue lezioni.


− Con tutti questi portici, allora Torino è una città stoica.

− Vero, ne ha tutto l’aspetto.

− Se non sbaglio, però, oggi “stoico” è anche un aggettivo: indica chi affronta con fermezza il dolore o la sorte avversa.

In questo caso con ragione: basti dire che Zenone, dopo aver contratto una grave malattia, morì suicida; la vita non aveva più senso, e la cosa più razionale da fare era uccidersi.


− La differenza con gli epicurei è davvero notevole.

− Senza alcun dubbio, Franz, a partire dal fatto che gli stoici non ritenevano che il piacere fosse bene e il dolore male. Questa tesi degli epicurei era ritenuta sbagliata, in quanto secondo loro quello che faceva di un uomo un uomo non era la ricerca del piacere, ma il vivere secondo ragione. Di conseguenza le emozioni, da cui scaturiscono le passioni, venivano considerate delle vere e proprie malattie dell’anima, fonte di ogni male e infelicità.


− Tutte le passioni?

− Sì, se ci pensi sono tutte riconducibili alle quattro emozioni fondamentali che ognuno di noi prova: il piacere, il dolore, il desiderio e la paura.

− Quindi è normale emozionarsi; non capisco perché ce l’avessero tanto con le emozioni.


− Certo, è normale emozionarsi, ma non razionale. Ci emozioniamo perché non capiamo bene che cosa sta succedendo. Se comprendessimo le emozioni non ci emozioneremmo più. In pratica, gli avvenimenti sono collegati gli uni agli altri e l’insieme è una catena che chiamiamo destino. L’uomo è come un cane legato a un carro: può assecondarne il movimento, e seguirlo volontariamente, o farsi trascinare.


− Ma questo vale anche per le emozioni positive, come l’innamorarsi o il provare compassione?

− Sì Franz, secondo gli stoici si tratta di forme di esaltazione tipiche degli uomini superficiali.


− Mi sembra una visione del mondo molto arida e fredda.

− Sicuro, per gli stoici la ragione ci indica che cosa dobbiamo fare, e noi lo dobbiamo fare.


− Per esempio?

− Per esempio la ragione ci dice di “onorare i genitori, i fratelli, la patria e andar d’accordo con gli amici”.


− Si tratta di un’etica del dovere accessibile a tutti gli uomini, o solo alcuni eletti sono in grado di viverla?

− No, tutti la possono vivere, perché tutti hanno la ragione: uomini, donne, ricchi, poveri eccetera.


− Spiegami meglio questa storia del suicidio di Zenone.

− Il suicidio è un’uscita razionale dalla vita, di conseguenza tipica del sapiente. Può essere giustificata per la patria, per gli amici o quando si è affetti da una malattia incurabile: tutti casi in cui l’istinto di sopravvivenza dev’essere messo a tacere.


− Ma la ragione non dice anche che un attimo di vita è superiore al nulla della morte?

− Non per gli stoici: quando la vita non ha più senso, la ragione ci dice che è meglio morire.


Alice abbassò lo sguardo.


− Che stai pensando? Questo in ogni caso non vale per te.

− E perché? Se la cura che sto facendo si rivelasse inutile, potrebbe essere una buona soluzione.


− Allora promettimi che se deciderai di suicidarti, prima mi sparerai un colpo al cuore; così ti sarà chiaro che il suicida non solo uccide se stesso ma anche tutti quelli che lo amano. Non puoi essere tanto egoista.


− Non buttarla in tragedia Franz, tanto ho deciso di guarire. E poi Dio mi darà una mano. Ne sono sicura.


− Finalmente una buona notizia.

− Che ne dici se ci prendiamo qualcosa al bar?

Il bar scelto aveva una saletta interna, un tempo vi troneggiava un biliardo.

− Per me un ginseng − ordinò Alice.

− E per me invece un caffè, grazie.

− Ora tocca a te Franz, vai con lo scetticismo.


− Il termine “scettico” trae origine dal greco sképsis, che significa “indagine”, “ricerca” ma anche “dubbio”. Il verbo sképtomai, da cui deriva, indica infatti l’atto di chi “osserva in modo critico e riflette”.


− E che cosa sostenevano gli scettici?

− Lo scetticismo non diede vita a una vera e propria scuola, ma a un indirizzo filosofico: un modo cioè di pensare che consiste nel mettere in dubbio qualsiasi dottrina filosofica fino a distruggerla. Per gli scettici non possiamo conoscere la verità. Se infatti la verità fosse conoscibile, esisterebbe una sola dottrina filosofica, mentre non solo ne esistono tante, ma tra loro si contraddicono.


− Parliamoci chiaro, Franz: gli scettici erano dei depressi?

− No, per nulla. L’abbandono di tutte le certezze consente il raggiungimento della pace interiore. Prova a pensarci: se non ci sono certezze, tutte le scelte si equivalgono. Fine delle preoccupazioni, dell’ansia e dell’angoscia.


− Vero.


− Pochi però nel corso della storia hanno veramente capito gli scettici, tanto che sono stati sovente presi in giro. Diogene Laerzio, per esempio, racconta che Pirrone, non credendo in nulla, andasse a sbattere contro i muri.


− E come stanno invece le cose?

− Vedi Alice, lo scetticismo nel corso dei secoli è stato sovente ridotto a una teoria che nega l’esistenza della realtà. Gli scettici invece sostenevano che nessuno fosse in grado di spiegarla, non che non esistesse. Per esempio, gli scettici non misero affatto in dubbio che ci fossero il giorno e la notte, la terra e il sole: ciò che non accettavano erano le teorie che pretendevano di spiegare l’universo.


− In ogni caso, Franz, oggi gli scettici sono stati rivalutati, come dimostra la storia del cigno nero.


− Sono curioso, dimmi.

− Usciamo, te la racconto mentre camminiamo.


La pioggia era cessata, e la città aveva assunto quell’aria metafisica che costituisce la comfort zone dei torinesi dall’animo filosofico.


− Ascolta Franz. Non si può che essere scettici, sostiene Nicholas Taleb. Sintesi del suo pensiero è la metafora del cigno nero. Per millenni si è creduto che tutti i cigni fossero bianchi. Un bel giorno viene scoperta l’Australia e qualcuno avvista un cigno nero.


− Quindi?

− Quindi una sola osservazione può demolire una convinzione ricavata da millenni di avvistamenti di milioni di cigni bianchi.


− In pratica, Alice, le cose che conosciamo sono infinitamente meno di quelle che non conosciamo.

− Proprio così. Per questo delle cose che conosciamo non possiamo avere alcuna certezza.


− Sono d’accordo.


− E poi, altra considerazione che dovrebbe far riflettere: la scoperta del cigno nero non è frutto di una ricerca scientifica, ma del caso. Avevano dunque ragione gli scettici: non possiamo che dubitare delle nostre conoscenze, anche quelle che ci sembrano più evidenti e consolidate.


− Scusa Alice, ma questo non dovrebbe essere l’atteggiamento dell’intera ricerca filosofica?

− Bravo, ecco perché la rivista s’intitola Cigno Nero.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO