capitolo 23

Ockham

Filosofo non è colui che straparla di cose che non esistono, ma colui che cerca di comprendere il significato profondo delle cose che esistono.

La metafisica è come il vino dolcissimo e molto forte offerto da Ulisse a Polifemo. Chi lo assaggia ne vuole ancora finché la mente non si rifugia nel sonno. Ed è quello che accadde con la “disputa sugli universali”, la più celebre discussione che si svolse nelle scholae, le università medievali: da qui il termine “scolastica” con cui si è soliti indicare la filosofia dell’epoca. Nelle scholae la riflessione sull’Essere si ingarbugliò a tal punto da diventare un gomitolo di teorie arrotolate su se stesse.


Per sbrogliare la matassa, occorre dunque partire dalla fine. Un po’ come quando ci si stanca di un giallo troppo complicato, e si sfogliano le ultime pagine per conoscere l’assassino. Occorre cioè guardare alla “disputa sugli universali” con gli occhi dei francescani di Oxford del XIII-XIV secolo, al tramonto dunque del Medioevo.


La loro importanza è tale che se la storia della filosofia medievale fosse una cattedrale gotica, i francescani di Oxford ne sarebbero il rosone, un vortice di colori incastrati in una vetrata rotonda i cui raggi concentrici la illuminano di senso.


Nel dondolarsi sull’amaca, Alice andò a sbattere contro la maniglia della porta d’ingresso, a dimostrazione che la noia non sempre partorisce idee geniali. Franz invece, comodamente seduto sul divano, non urtava alcunché, a dimostrazione che le soluzioni tradizionali sono idee geniali collaudate.


L’articolo del Cigno Nero che Alice stava leggendo rivelava nel sommario quanto ostico fosse l’argomento.


C’è un solo modo per capire qualcosa della filosofia medievale: attraversarla con “gli stivali delle sette leghe”.
Così parlò Hegel.


Dopo aver urtato una decina di volte contro la maniglia della porta d’ingresso, Alice terminò l’articolo. Si erano divisi i compiti. Lei avrebbe cercato di individuare il succo della “disputa sugli universali”, mentre Franz, il più sentimentale tra i due, si sarebbe occupato della storia d’amore tra Abelardo, grande protagonista della filosofia medievale, ed Eloisa, manco a dirlo sua allieva.


Hai finito anche tu, Franz?

Quasi.

Preparo un tè?

Okay.


Poco dopo, anche Franz aveva concluso la lettura della Storia delle mie disgrazie di Abelardo. Visibilmente commosso, chiuse il libro e osservò il soggiorno con gli occhi spiritati di un medievale arrivato fin lì con la macchina del tempo.


Allora comincio io − intervenne Alice, riportando Franz nel nostro secolo.

Come vuoi.

Ai medievali piaceva discutere, e più di tutto piaceva parlare di Dio, sulla scorta del “credi per comprendere, comprendi per credere” di Agostino. è infatti con Agostino che inizia filosoficamente il Medioevo. Ma per parlare di Dio occorreva prima sapere quale rapporto ci fosse tra le parole e la realtà. Nacque così la “disputa sugli universali”.


Un attimo, che cosa sono gli universali? – La interruppe Franz, memore del primo comandamento di Oberosler:


Qualsiasi ragionamento filosofico deve sempre partire dalla definizione delle parole che si intendono usare.


Presto detto: gli universali sono le idee (per Platone) o i concetti (per Aristotele). Di questo discutevano.

− La cosa si fa difficile.

− Per nulla. Ti faccio un esempio: quando diciamo “uomo” o “montagna”, che cosa diciamo? L’uomo e la montagna esistono indipendentemente dal singolo uomo o da quella specifica montagna? E se esistono, dove esistono? Nella mente di Dio? O solo nella nostra? O nella mente di Dio e nel contempo nella nostra? E se non esistono, quando parliamo di che cosa parliamo? Del nulla?

Il problema era particolarmente sentito perché metteva in discussione la rivelazione cristiana. Le Sacre Scritture sono piene di idee o concetti. Insomma, la disputa rischiava di travolgere la fede stessa. Per questo i medievali si accanirono sull’argomento.


− E che cosa conclusero?

Niente, proposero infinite varianti tra due tesi opposte: quella nominalista, e cioè che gli universali fossero solo dei nomi, un “soffio della voce”; e quella realista, e cioè che gli universali esistessero davvero nella mente di Dio, in quella degli uomini e nelle cose.


E tu che ne pensi?

Che la disputa non fu affatto inutile, anzi produsse una svolta epocale nella storia della filosofia. Da allora la ricerca filosofica si è divisa sul metodo per giungere alla verità: da un lato abbiamo gli empiristi, secondo cui la verità si fonda sull’esperienza, e non si fidano della ragione poiché fonte di contraddizioni; dall’altro ci sono i razionalisti, secondo cui la verità si può raggiungere solo con la ragione, in quanto ritengono l’esperienza ingannevole.


Spiegati meglio.

− Okay. I francescani di Oxford capirono perché i ragionamenti dei medievali si erano ingarbugliati: a forza di discutere avevano perso il contatto con la realtà. Allora con Ruggero Bacone, e soprattutto con Guglielmo di Ockham, decisero che era venuto il momento di troncare la discussione.


In pratica?

Per Ockham bisognava rimanere ancorati alle cose concrete, quelle di cui abbiamo esperienza, eliminando tutto il resto. Il filosofo deve cioè avere la capacità di eliminare dalla sua ricerca tutto ciò che non serve. Con un deciso colpo di rasoio. Nel Novecento Wittgenstein dirà:


Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.


Che non vuol dire la banalità che molti pensano: “Se non sai, taci”. Wittgenstein voleva invece dire che se vuoi fare un discorso logico devi parlare solo di ciò che accade, dei fatti insomma. Ed è esattamente quello che sosteneva Ockham, secondo cui era necessario abbandonare la pretesa di capire l’essenza dei fenomeni per cercare di descriverli in base alla nostra esperienza.


Basta dunque con la metafisica, occupiamoci della fisica, occupiamoci del mondo così com’è. Possiamo riassumere la formula del “rasoio di Ockham” con queste parole:


Di un qualsiasi problema, la spiegazione più semplice tende a essere quella più giusta.


Con il diffondersi di questa formula, e qui sta l’importanza storica dei francescani di Oxford, la geografia filosofica cambiò: la strada empirista indicata da Ockham venne da quel momento percorsa in lungo e in largo dalla filosofia anglosassone, mentre l’Europa continentale continuò a privilegiare il metodo tradizionale, quello razionalista.


La metafisica dunque sopravvisse, ma non fu più la stessa. Perse per sempre la sua arroganza, e nei suoi confronti iniziò una lunga contestazione che giunge fino ai giorni nostri. Il “rasoio di Ockham” ne aveva rivelato i limiti: filosofo, infatti, non è colui che straparla di cose che non esistono, ma colui che cerca di comprendere il significato profondo delle cose che esistono.


La filosofia medievale passò così dal sonno alla morte, nel senso che quel modo di ricercare la verità venne per sempre abbandonato.

La verità ama la semplicità.

Ecco che cosa aveva capito Ockham.

Straordinario, davvero.

Ora però tocca a te, Franz. Che mi dici di Abelardo ed Eloisa?

Si tratta di una storia ad alta concentrazione emotiva. Sei pronta?

Prontissima.

All’epoca dei fatti, Abelardo aveva trentasette anni ed era il filosofo più famoso del XII secolo, oltre che uno dei più grandi logici di tutti i tempi. Eloisa, invece, aveva circa sedici anni. Ma anche lei, nonostante la giovane età, era già nota per la sua cultura: conosceva il latino classico, il greco e pure qualche nozione di ebraico.


Ecco come Abelardo racconta la loro storia d’amore. Te ne leggo alcuni passaggi, perché è impossibile riassumerla senza rovinarla. Bastano poche righe e si rimane appesi all’amo fino alla fine.


Viveva allora a Parigi una fanciulla di nome Eloisa, nipote di un certo Fulberto, un canonico, che le voleva un grandissimo bene e che aveva cercato di farla istruire in ogni disciplina letteraria.

Così Eloisa, non ultima per bellezza, superava tutte per la sua profonda cultura, anzi, proprio questa sua dote, tanto rara nelle donne, le conferiva una particolare attrattiva e le aveva già dato una certa fama in tutto il regno.

Trovando in lei tutte le qualità che sogliono attrarre gli amanti, pensai di iniziare con lei un’interessante relazione, ed ero sicuro che nulla mi sarebbe stato più facile: avevo allora una tale fama e un tale fascino, anche in considerazione della mia giovane età, che a qualsiasi donna mi fossi degnato di offrire il mio amore, non avevo timore di riceverne alcun rifiuto.


Che non ci fosse donna in Francia capace di negarsi ad Abelardo, lo conferma la stessa Eloisa:


Tutti facevano a gara per vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi voltando indietro il capo quando ti incrociavano per la via. Eri giovane, bello, intelligente. Quale regina, quale donna potente non avrebbe invidiato le mie gioie e il mio letto?


In quel periodo, Abelardo alloggiava presso lo zio di Eloisa, Fulberto, a cui non pareva vero di poter affidare l’istruzione della nipote al filosofo più famoso dell’epoca. Ma fu come mettere la paglia vicino al fuoco.


Insomma prima ci trovammo uniti sotto lo stesso tetto, poi anche nei nostri cuori. Con il pretesto dello studio pensavamo solo al nostro amore e inoltre le cure scolastiche ci offrivano quella solitudine che l’amore sempre richiede.

Aprivamo i libri, ma si parlava più d’amore che di filosofia: erano più i baci che le spiegazioni. Le mie mani correvano più spesso al suo seno che ai libri. L’amore attirava i nostri occhi più spesso di quanto la lettura non li dirigesse sui libri. E talvolta, per meglio allontanare qualsiasi sospetto, io arrivavo al punto di percuoterla: ma era l’amore, non lo sdegno, era la tenerezza, non l’ira a dare quelle percosse, e tutto ciò era più dolce di qualsiasi balsamo prezioso. Ma le parole sono inutili. Nel nostro ardore, passammo per tutte le fasi dell’amore: e se in amore si può inventare qualcosa di nuovo, noi lo inventammo. E il piacere che provavamo era tanto più grande, perché noi non lo avevamo mai conosciuto, e non ci stancavamo mai.


Iniziano i problemi.


Non molto tempo dopo Eloisa si accorse di essere incinta. Subito me lo scrisse piena di gioia e di entusiasmo, domandandomi che cosa dovesse fare. Così una notte, mentre suo zio era assente, secondo un piano che avevamo studiato insieme, la rapii dalla casa di Fulberto e la condussi in tutta fretta nel mio paese natio, dove rimase ospite di mia sorella finché diede alla luce un bimbo cui pose il nome di Astrolabio.


Abelardo pensò allora che la soluzione fosse il matrimonio, ma con suo grande stupore Eloisa si dichiarò contraria. Il motivo? Era troppo innamorata di lui, e non voleva che il matrimonio gli rovinasse la carriera.


Quante lacrime verserebbero coloro che amano la filosofia a causa del matrimonio... cos’hanno in comune le lezioni dei maestri con le serve, gli scrittoi con le culle, i libri e le tavolette con i mestoli, le penne con i fusi?

Come può chi medita testi sacri e filosofici sopportare il pianto dei bambini, le ninne nanne delle nutrici, la folla rumorosa dei servi? I ricchi possono sopportare queste cose perché hanno palazzi e case con ampie stanze appartate, perché la loro ricchezza non risente delle spese e non è afflitta dai problemi quotidiani.


Alla fine, però, Eloisa cedette. In gran segreto, come prevedeva l’accordo, il matrimonio venne celebrato alla presenza dello zio Fulberto e di pochi amici. Lo zio, però, non mantenne la parola data, e diffuse la notizia. Pubblico era stato lo scandalo, pubblica doveva essere la riparazione.


Allora Abelardo, per cercare di far tacere le malelingue, portò Eloisa nel convento di Argenteuil. Mossa che venne ancora una volta fraintesa dallo zio, il quale pensò che Abelardo volesse ripudiarla. E passò all’azione. Tre suoi servi lo sorpresero in casa mentre dormiva e lo evirarono.


Da quel momento i due amanti non si rividero più. Entrambi presero i voti, legandosi per sempre alla vita religiosa. Eloisa diventerà badessa di un monastero; Abelardo invece proseguirà la sua carriera di intellettuale per poi ritirarsi anche lui in un convento.


Nelle lettere che si scrissero emerge però una diversa valutazione dell’accaduto. Abelardo ne dà un’interpretazione spirituale: Dio ha voluto allontanarlo dalla lussuria, sostiene; Eloisa, invece, non riesce a dimenticare: “Il piacere che ho conosciuto è stato così forte che non posso odiarlo”, afferma.


Quando infine Abelardo sente la morte avvicinarsi, scrive a Eloisa:


Mi vedrai presto, per fortificare la tua pietà con l’orrore di un cadavere e la mia morte, ben più eloquente di me, ti dirà che cosa si ama quando si ama un uomo.


In realtà, anche lui non riesce a dimenticarla. Traspare dal desiderio di essere sepolto vicino ad Eloisa, nel monastero in cui era badessa. E nella stessa tomba vorrà essere sepolta anche lei, ventidue anni dopo.


Alice chiuse gli occhi. Quell’immagine dei due amanti che si ritrovano solo nella tomba la rattristava. Non era un bel finale per una storia d’amore. Franz se ne accorse.


Scusa, ma non volevo concludere con questa immagine. Sei pronta? Voglio leggerti la più appassionata dichiarazione d’amore di tutti i tempi, quella di Eloisa ad Abelardo. Sono queste le parole che rendono unica la loro storia:


Chiamo Dio a testimone: se Augusto stesso, signore dell’universo, si fosse degnato di chiedermi in sposa e mi avesse offerto il dominio perpetuo sul mondo, mi sarebbe sembrata cosa più dolce e più bella essere considerata una prostituta qualsiasi e stare con te, piuttosto che essere un’imperatrice con lui.


Alice arrossì imbarazzata.

Senti… domani vado a Milano. Il dottor Monchiero mi ha detto che deve parlarmi. A dire il vero non ho capito bene il perché. È stato un po’ evasivo, forse aveva fretta. Intanto ne approfitto per fare la visita ginecologica che da tempo voglio fare. Che ne pensi?


Della visita ginecologica tutto il bene possibile. Per il resto, da quello che mi racconti il dottor Monchiero è uno tosto. Non ti fa certo andare a Milano per niente. Avrà i suoi motivi. Sai che ti dico? Che se le cose andassero male è il tipo che te lo direbbe al telefono, senza tanti problemi, così, anche solo per risparmiare del tempo.


Sarà… comunque… Abelardo ed Eloisa, che vicenda, da non credere. Ora però è meglio che torni a casa, mi devo preparare per domani.


Come vuoi: hai bisogno che ti accompagni alla stazione o che ti venga a prendere?


No, ci pensa mia madre a queste cose. Ti telefono appena posso. Nel frattempo prega.


Ma se sono ateo!

E allora di’ così: Dio, per un istante voglio credere in te: aiuta Alice, fa’ il miracolo.


Sei l’eterno presente, come dice Agostino. E allora da sempre sai che morirà presto. Se le cose stanno in questo modo, per una volta fai un’eccezione. Dai, cambia idea. Ascoltami, ti prego, fa’ che Alice guarisca!


Va bene… ci provo, ma tu telefonami appena sai qualcosa, chissà che il miracolo non l’abbia già fatto il dottor Monchiero, e te lo voglia comunicare di persona solo per vederti sorridere.


Okay, buona serata Franz.

Di slancio si abbracciarono, e per un attimo furono Abelardo ed Eloisa.


Rimasto solo, Franz si sistemò sull’amaca cercando di fare tesoro dell’esperienza di Alice. L’amava e l’ammirava. Credere in Dio era stata per lei una scelta per nulla scontata, la madre era atea. E se Dio esistesse davvero?


Chiuse gli occhi per meglio ascoltare lo scorrere dei pensieri, che come un fiume attraversavano la sua mente.


Che tipo strano, però, Dio. Ci regala la vita, ma non per sempre. Dopo un po’ la rivuole indietro, e ci tocca morire. Non contento, ha pure inventato il sonno, e così mezza vita la passiamo a non vivere. Che inutile spreco, come si fa a credere a un Dio così sprecone?


Si stava quasi arrabbiando quando si addormentò. E sognò di essere Abelardo e che Alice fosse Eloisa, lì, intenti a studiare filosofia nella casa dello zio Fulberto...


Quando si risvegliò non era più tanto sicuro che il sonno fosse un inutile spreco.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO