capitolo 2

Un cantiere

Tutte le nostre inquietudini sono riconducibili al tema dell’Essere.

Ad Alice non piaceva il nome Alice. Non le piaceva perché le ricordava Alice nel paese delle meraviglie e una miriade di prodotti che qualche genio del marketing in vena di originalità aveva deciso di chiamare così. E poi Alice era un nome sdolcinato, una sorta di bignè linguistico con troppa crema.


A lei piaceva la musica (tutta) e piacevano i gatti (tutti). Perché si sentiva un gatto, anzi, una ragazza dagli occhi marroni ma con una venatura così intensa di verde da sembrare una gatta. Più di ogni altra cosa, però, ad Alice piaceva la filosofia.


Così non aveva esitato a sceglierla, quando si era trattato di iscriversi all’Università, quella di Torino, ovviamente, anche perché non c’erano alternative. Suo padre, in un inverno scivoloso di alcuni anni prima, aveva posto fine ai sogni di gloria famigliari andandosi a schiantare con la moto contro un bus di linea. Quasi una metafora per uno allergico alle regole com’era lui, alla vigilia di un penoso divorzio.


Da allora, i magri flussi di denaro che scorrevano in casa avevano come unica fonte lo stipendio di sua madre, un’infermiera. Pensare quindi di andare all’estero in qualche università famosa, dove la filosofia godesse di buona salute, era da trattamento sanitario obbligatorio.


Certo, avrebbe potuto vendere il negozio che il padre le aveva intestato per fare il bullo con sua madre. Ma l’affitto serviva ad Alice per non sentirsi un canarino in gabbia, dall’iPhone ai vestiti, e quel che rimaneva lo teneva per gli agguati della vita. Mai fidarsi dei soldi che piovono dal cielo dei bulli.


Dunque a Torino viveva, e a Torino avrebbe studiato senza dilapidare il suo tesoro. Punto. E se a Torino la filosofia era morta, pazienza. Altro punto.


Questo pensava Alice mentre saliva le scale di Palazzo Nuovo, dove aveva sede la facoltà di filosofia. In verità, questo palazzo non era affatto nuovo: edificato a metà degli anni Sessanta del Novecento, era una delle prime costruzioni interamente in acciaio di Torino. Ma i torinesi sono fatti così. Tutto quello che di pubblico viene edificato nella loro città trovano il modo di chiamarlo “nuovo”, indipendentemente dal nome scelto dalle autorità. E “nuovo” rimarrà nei secoli. Così la stazione si chiama “Porta Nuova”, anche se è stata costruita nell’Ottocento. Le carceri? “le Nuove”, finché non sono diventate un museo. Il teatro? “il Nuovo”, ovviamente.


In fondo c’era da comprenderli questi professori, pensò Alice mentre entrava nell’atrio di Palazzo Nuovo. In una città come Torino che non sa distinguere il vecchio dal nuovo, com’era possibile che la filosofia fosse viva?


In ogni caso, Torino è una città che ama inventare. Senza Torino, non ci sarebbero il vermouth, i grissini, i tramezzini e tante altre cose di cui oggi l’umanità non può più fare a meno.


Ebbene, mentre passeggiava nell’atrio di Palazzo Nuovo, l’attenzione di Alice venne attirata da una locandina dai colori giallo e blu (i colori di Torino, va da sé), in cui campeggiava la scritta:


OFFICINE GRANDI RIPARAZIONI

Stage biennale di filosofia

Corso Castelfidardo, 22 - Torino


Le ferrovie proponevano uno stage di filosofia? Subito abbassò lo sguardo sull’iPhone. Sul sito non c’era granché. Le Officine Grandi Riparazioni, una cattedrale dell’architettura industriale di fine Ottocento, avevano cessato da qualche anno di riparare locomotive per occuparsi di un altro motore: il pensiero.


Ora quegli enormi locali ospitavano mostre, eventi culturali, atelier artistici e stage di vario genere. Quello di filosofia si proponeva di ricreare l’atmosfera delle prime scuole filosofiche, quando la filosofia non era un tempio, ma un “cantiere”.


Lo stage di filosofia sarebbe stato dunque il seme di una nuova università? Ne aveva tutta l’aria. Chissà. Inoltre si accennava a una “Crociera del pensiero”, ma anche in questo caso non si capiva bene che cosa fosse, se si trattasse cioè di una metafora o di un viaggio per mare.


A ogni modo, l’iscrizione era gratuita. Forse nella testa di qualche mecenate vive il tarlo della filosofia, provò a immaginare Alice. Ottimo. Stava per rivolgere lo sguardo altrove, quando in basso, al piede del manifesto, lesse:


La filosofia non sta nelle certezze, ma nelle domande.
Perché la filosofia è pensiero che cerca.


Domande? Ne ho un milione, pensò Alice, e si precipitò fuori da Palazzo Nuovo per raggiungere le Officine Grandi Riparazioni.


I locali erano stati ristrutturati con cura d’altri tempi. In segreteria, formalizzò l’iscrizione e si mise a cercare il posto dove proprio quel giorno si sarebbe tenuta la presentazione dello stage. Era contenta. Le piaceva essere tra i pionieri di una nuova iniziativa.


Il “cantiere” aveva la forma di un’aula universitaria in cui bivaccavano una ventina di persone. Seduto dietro la cattedra, un tipo di circa trent’anni con giubbotto nero e riccioli capricciosi aveva tutta l’aria di chi attende di poter parlare.


Strano, pensò Alice, ma i filosofi non sono barbuti? In soccorso gli venne in mente la celebre battuta di Luciano di Samosata:


Se i filosofi si misurassero dalla barba,
il primo posto spetterebbe alle capre.


Abbozzò un sorriso ricordando il titolo dell’articolo da cui aveva tratto tanta sapienza: “La barba degli uomini punge?”.


La presentazione dello stage sarebbe dovuta iniziare alle dieci. Erano le dieci e cinque minuti. D’improvviso la porta si aprì ed entrarono chiacchierando due studenti. Il tipo con il giubbotto nero e i riccioli capricciosi aspettò che si sedessero, osservò a uno a uno tutti i presenti, lanciò uno sguardo alla porta per assicurarsi che non ci fossero nuovi arrivi, guardò l’orologio e prese a parlare.


− Diamo inizio allo stage. Lo chiamiamo così perché vuole essere un aiuto pratico alla vita. Oggi la filosofia è quel metodo che ci impedisce di rimanere soffocati dal web, nel senso che stimola il pensiero critico, a guardare alle cose da un altro punto di vista. È l’arte di rimanere svegli. Nulla di più concreto, dunque.


Ci ritroveremo il martedì mattina, alle dieci, salvo eccezioni: controllate sempre il calendario. Lo stage durerà due anni. La cadenza quindicinale o mensile è dettata dalla necessità di studiare e riflettere tra una lezione e l’altra, anche perché alcuni di voi saranno direttamente coinvolti: voglio dire che terranno loro le lezioni e quindi occorre del tempo per prepararle.


Lo stage ha per titolo “L’avventura dell’Essere”: si tratta in pratica di una breve storia della filosofia. Una contraddizione in termini, a ben vedere. è come dire “breve maratona”. La maratona è quella lì, di 42,195 chilometri, né più lunga né più corta. Questo per dire che dovremo fare delle scelte assai discutibili. Mettiamolo in conto. La brevità richiede la sapienza del potatore. Se sbaglia, la pianta muore. In ogni caso, per non perderci nell’intricato percorso filosofico, faremo come Teseo nel labirinto di Minosse, seguiremo cioè solo quel filo rosso che fa della filosofia la filosofia, e che possiamo riassumere in una parola: l’Essere. Tutte le nostre inquietudini sono infatti riconducibili a questo tema. Lo capiremo strada facendo.


A questo punto il tipo con giubbotto nero e riccioli capricciosi si accarezzò il mento da cui spuntava una barba rada. Intanto si guardava attorno, alla caccia di qualche suggerimento.


− Non vorrei abbagliarvi con troppe metafore − proseguì contraendo il volto dai lineamenti aristocratici. − Ne aggiungo solo una per rafforzare questo concetto:


La filosofia è come un elastico:
puoi correre lontano, ma l’Essere ti riporta sempre a casa.


− E adesso un consiglio. Negli appunti vi suggerisco di scrivere il termine “Essere” sempre con l’iniziale maiuscola. Non tutti saranno d’accordo, ma così sarà più facile distinguerlo dal verbo “essere”. Fine del consiglio.


Immaginate quest’aula come un’altura che si eleva sopra i secoli: sotto si stende il paesaggio disegnato dalla storia della filosofia. L’obiettivo è quello di abbracciarlo con un unico sguardo fino a capirne il senso. E per capire non basta vedere, percepire cioè qualcosa con gli occhi; occorre guardare, soffermandosi su quello che si vede. A questo servono le guide turistiche: trasformano il vedere in guardare. Ricordatevi, la comunità filosofica è un club esclusivo, la cui porta è sbarrata da un linguaggio ostico, comprensibile solo agli iniziati. Per entrarvi occorre che qualche socio vi fornisca la password. Gli autodidatti fanno solo casino.


Il tipo con giubbotto nero e riccioli capricciosi s’interruppe, la gola gli stava dando fastidio, residuo di una bronchite che non voleva passare. Bevve un sorso d’acqua, poi aggiunse:


−Lo stage verrà tenuto dal professor Enrico Oberosler, che viene da Trento. Io sono il suo assistente, mi chiamo Marco, il cognome non ha importanza. Il professor Oberosler mi ha incaricato di dirvi che non ci sarà sempre. Un po’ perché non può, un po’ perché non vuole: tutti devono sentirsi professori. Talvolta dunque dobbiamo essere disponibili a fare anche la sua parte.


Mormorio.


− Essere professori di filosofia non significa necessariamente essere dei filosofi. Anzi, si può sapere tutto della filosofia senza averla capita, tanto che molti professori si comportano con gli studenti come si racconta facciano gli allevatori di elefanti con i loro animali. Li legano a un palo quando sono piccoli. L’elefantino cerca di liberarsi, ma non ce la fa. Tira e tira più forte che può. Niente. Riprova. Niente ancora, finché si stanca e lascia perdere. Così anche quando sarà diventato grande e grosso, in grado di sradicare una foresta, se viene legato a un palo non proverà più a liberarsi. Rimarrà lì, fermo. E voi volete venire a questo stage per trovare qualche palo a cui legarvi?


Silenzio.


− Dunque mettetevi in gioco, fate fiorire nuovi pensieri nel giardino del già pensato: questo l’augurio. Bene, ci vediamo fra quindici giorni, alle dieci, cercate di essere puntuali. Oggi abbiamo iniziato con un leggero ritardo. Non capiterà più. Se stabiliamo un’ora è quella. Okay?


Nessuno rispose e Marco uscì.


Un signore con un bastone raggiunse a fatica la porta dell’aula. Potrebbe essere il professor Oberosler, pensò Alice, avrà almeno una cinquantina d’anni. Troppo tardi, però, per indagare. E con decisione abbandonò l’edificio. Le dava fastidio arrivare tardi agli appuntamenti, specie con sua madre. Glielo avrebbe senz’altro rinfacciato. Rischiò un paio di volte di cadere a causa della pioggia, ma alla fine raggiunse piazza Castello all’ora concordata.


Sua madre era lì: capelli biondo cenere che contrastavano con l’abito nero e l’aria vagamente snob da torinese autentica. A tradirla, solo la parlata dal forte accento francese.


− Allora, com’è andata?

− Bene, mi sono iscritta a uno stage di filosofia.

− Non all’università?

− No, non mi ispirava.

− Ci mancava anche questa.

− Mamma, per favore, lasciami fare!

− Okay, e poi?

− Poi mi sono fermata per capire come funzionava.

− Racconta.

− In genere si studia solo il cadavere della filosofia, mentre la filosofia è una realtà viva, non morta.


La madre di Alice era una di quelle persone che da piccole si innamorano dei cerbiatti. Poi nell’adolescenza vogliono fare i medici in Africa, possibilmente in qualche lebbrosario. Infine, stremate dagli esami di medicina, finiscono per fare le infermiere.


In ogni caso, odiava l’anatomia: l’aveva studiata per un anno senza successo, e l’esempio era stato fatto apposta da Alice per ricordarle qualcosa di sgradevole, così da porre fine alla discussione.


Ma non fu per questo motivo che la madre tacque. Aveva ritirato le analisi della figlia e non sapeva come diglielo: le bordate di chemio non davano gli esiti sperati.


− Mamma, lo vedi quel ragazzo?

− Quale?

− Quello laggiù che sta attraversando via Pietro Micca.

− Carino, vero?

− Sì, e allora?

− È il mio ragazzo.

− Il tuo ragazzo? E come si chiama?

− Non lo so.

− Alice, hai un ragazzo immaginario?

− No, ci siamo già baciati.

− Dove l’hai incontrato?

− Al bar, quello della stazione.

− Allora attraversa la strada, chiamalo, presentami.

− No, non è ancora venuto il momento di stare con lui.

− E quando sarà il momento?

− Quando sarò guarita.

− Ma così rischi di non vederlo più.

− Pazienza, il mondo è pieno di ragazzi carini. Sono andate male le analisi, vero mamma?

− Da cosa l’hai capito?

− Dalla tua faccia, non sai mentire. Dovresti fare un corso di recitazione, come quello che ho fatto io anni fa.

− Lo so, lo farò quando avrò l’Alzheimer, così non mi vergognerò più. − E mentre diceva queste parole aprì il portone di casa, che si richiuse cigolando, irritato da quel cortocircuito verbale.


In bagno, Alice si tolse la parrucca rossa; poi con cura la posò su una testina di plastica. Poco più in là due altre parrucche, una nera e l’altra bionda, attendevano pazientemente il loro turno.


Intanto lo specchio la stava fissando. Era completamente senza capelli. Calva. La chemio in questo aveva funzionato. Vincendo la tentazione di spaccare lo specchio, Alice si trascinò in camera sua, si distese sul letto e chiuse gli occhi. Vide un giardino fiorito, dei bimbi che giocavano con un cagnolino che scodinzolava, un uomo con una camicia a scacchi che le sorrideva offrendole un calice di pinot grigio, mentre sua madre in cucina preparava una torta di compleanno.


Tutto questo non sarebbe mai accaduto. Niente matrimonio, niente figli, niente cagnolino, niente calice di pinot grigio e niente torta di compleanno. Per lei il destino aveva in serbo il suo frutto più velenoso: mesi di sofferenza e poi la morte.


Le lacrime presero a zigzagare sul suo volto fino a che divennero un torrente tropicale. La televisione accesa copriva i singhiozzi. Meglio così. Non le piaceva essere compatita. Doveva reagire. Stava per alzarsi quando sentì un soffio caldo sul viso, il buio invase la sua mente e la Tarasca la inghiottì.


Quando Alice si svegliò vide sua madre accanto a lei nel letto.


− Che ci fai qui?

− Niente, mi piaceva starti vicino.

− Mamma?

− Sì?

− Come ha fatto Santa Marta a uccidere la Tarasca?


Da buona provenzale, la madre di Alice conosceva bene la leggenda della Tarasca.


− Con le preghiere.

− Cioè?

− Ogni volta che recitava un’avemaria la Tarasca si rimpiccioliva sempre più; infine, diventata piccola come un pulcino, la uccise. Vedi, le preghiere servono.

− Da quando credi, mamma?

− Da mai.

− E preghi?

− A volte.

− Davvero?

− Alice, tu sai quanto rispetti la tua scelta: hai deciso di credere e vai a messa, fai la comunione e frequenti quando ti gira la parrocchia. Benissimo, ma non pensare che gli atei non preghino, perché la preghiera fa parte della natura umana.

− Fammi capire.

− Che c’è da capire?

− Scusa mamma, la cosa non quadra: pregare significa rivolgersi a un Dio, se però pensi che non ci sia nessun Dio che ti possa dare una mano, che senso ha pregare?

− Ascoltami: la preghiera dell’ateo è come un sogno, un respiro del desiderio, una richiesta di aiuto al destino.

− Davvero?

− Certo Alice, quando cala la notte la preghiera tiene compagnia tanto al credente quanto all’ateo; ci fa sentire meno soli.

− Non l’avrei mai immaginato.

− Ricordi cosa dicono gli inglesi? Dove c’è una volontà c’è una strada. Santa Marta è riuscita a realizzare il suo sogno. Tu che sogno hai?

− Lo stesso di Santa Marta, uccidere la Tarasca.

− E allora, Alice, non aspettare che il vento della fortuna gonfi le tue vele, soffiaci dentro!

− Come parli? Una frase più lirica dell’altra. Ti sei laureata in letteratura barocca mentre facevo la chemio? Che succede mamma?

− Niente, ho solo cambiato supermercato. In quello in cui vado ora ci sono un paio di scaffali pieni di libri. Non ne compro mai nessuno, ma mi piace sfogliarli e rubare qualche frase. Poi ci penso e le faccio mie.

− Incredibile, una ladra di frasi. Non ci posso credere. La prossima volta sfoglia però qualche libro scritto in questo secolo. Ce la puoi fare?

− Consiglio accettato. Ma tu soffia dentro le vele della fortuna fino a farle gonfiare, promesso?

− Okay mamma, finiamola qui.


Alla ricerca di qualcosa di concreto a cui appigliarsi, Alice posò gli occhi sulla cucina. Sua madre poteva anche darsi arie da cuoca stellata, ma la ricetta che proponeva ricordava la banalità dell’hot dog.


Basta frignare, la vita è quella che è:
sbaglia felice senza andarne fiera!


Non c’era bisogno di chiamare in causa Santa Marta o rubare frasi al supermercato per esprimere un concetto del genere. Tutta la novità era concentrata in quell’augurio “sbaglia felice”. Il resto sapeva di muffa.


La provocazione ebbe un esito inaspettato: Alice digitò qualcosa sull’iPhone.


− Ciao Walter, ascolta, accetto, ci sarò anch’io sabato pomeriggio.

− Bene, ti aspettiamo.

− Okay, grazie.

− Alice, hai nostalgia di Walter?

− Ma va, è una storia strafinita.

− E allora dove vai sabato pomeriggio? Un altro spettacolo?

− Ognuno ha i suoi segreti.


Senza aggiungere altro, Alice andò in bagno e si vestì con la velocità di un’indossatrice tra una passarella e l’altra. Poi s’infilò una parrucca bionda. Oggi si sentiva così, femme fatale, irresistibilmente bionda. Tra i personaggi del suo immaginario era quello che sceglieva quando aveva l’anima leggera.


− Prenoto la visita dal dottor Monchiero?

− Okay mamma, ma ricordati dello stage di filosofia. Guarda il calendario, l’ho appeso da qualche parte in cucina. Ciao.


Nell’uscire di casa, Alice aveva gli occhi ribelli che hanno le ragazze quando nei film s’innamorano dell’uomo sbagliato. La madre ne guardò un fotogramma: com’era bella sua figlia quand’era felice, era lei. Bofonchiò qualcosa, probabilmente un saluto, ma la sua mente era già altrove. Cercava disperatamente di ricordarsi quale scrittore del supermercato avesse detto che una persona è tanto più autentica quanto più risponde all’idea che ha di se stessa.


Chiunque fosse, doveva aver visto Alice con quella parrucca bionda.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO