capitolo 26

Rousseau

Il luogo in cui abita la felicità non è il presente, e nemmeno il futuro, ma il passato.

È sempre un gran giorno quello in cui scopri che c’è qualcuno che sopporta il “lato B” del tuo carattere, quello gradevole come il trapano di un dentista. Significa che non sei solo al mondo.


L’orologio biologico suona quando suona. Può suonare a vent’anni come a quaranta. Ma quando suona la donna entra in fibrillazione perché l’orologio biologico emette un segnale ansiogeno. E se non rimane incinta un’ondata emotiva la travolge. Non si tratta di un modo di dire, è un fatto. L’ansia da gravidanza traspare dagli occhi vuoti, dalla parlata sconnessa, dai gesti scomposti. Non solo il cuore e la mente: è tutto il corpo della donna che si ribella, un po’ come chi si sente rispondere “io no” dopo aver detto “ti amo” in ginocchio, porgendo un anello con diamante. Una bastonata in pieno volto fa meno male.


Convivere con il cancro non è facile, e quei bambini che giocavano ai giardinetti, protetti dallo sguardo compiaciuto delle madri, rappresentavano per Alice un atto di accusa.


Un’ossessione, la gravidanza, che faceva traballare gli equilibri della coppia. Ma più traballavano, più Franz indossava i panni del monaco zen: taceva, lasciando che il silenzio del silenzio, quello che non va in cerca di risposte, penetrasse nelle sue vene fino a raggiungere il cuore. Allora Alice si sentiva amata così com’era e si rilassava. Insomma, l’amore funzionava da analgesico.


Quando tornava il sereno, Alice si occupava di pedagogia. Chissà, forse un po’ di tempo per stare con suo figlio l’avrebbe avuto prima di essere scaraventata nell’aldilà. E poi qualche chiacchierata su come allevare il bambino avrebbe pur dovuto farla con Franz.

Ogni filosofia racconta una storia;  quella di Rousseau la storia di un bambino felice.

Alice aveva sempre avuto un brutto rapporto con la pedagogia. Le dava fastidio quella marmellata di buoni sentimenti e regole razionali. Ora però il desiderio di maternità la spingeva a interessarsene.

In biblioteca aveva preso qualche libro e notato che tutte le opere riguardanti Rousseau trovavano il modo di scrivere in copertina che si trattava del “padre della pedagogia moderna”.


Da tempo ne conosceva la tesi, ormai diventata un luogo comune: il bambino nasce buono, l’educazione lo rovina. Ma perché il “padre della pedagogia moderna” era giunto a questa originale conclusione?


Bisognava scavare nella vita di Rousseau, aveva suggerito Oberosler. Avanti allora a leggere le Confessioni, la sua autobiografia, scritta non certo con l’intento di dar gloria a Dio, come aveva fatto Agostino, da cui aveva ripreso il titolo, ma nella speranza che almeno i posteri l’avrebbero capito.


Rousseau nacque a Ginevra il 28 giugno del 1712. Pochi giorni dopo la madre morì. Laconico il suo commento:


Venni al mondo debole e malaticcio; costai la vita a mia madre e la mia nascita fu la prima delle mie sventure.


Sembra l’incipit di una tragedia, ma le cose non gli andarono poi così male. Anzi, possiamo dire che Rousseau fu un bambino fortunato. Pur senza madre, trascorse un’infanzia felice. Ad accudirlo amorevolmente ci pensarono il padre, un modesto orologiaio, una balia e una zia che gli trasmise l’amore per la musica. In questo contesto positivo, sarebbe stato impossibile – scrive Rousseau − sviluppare un’indole malvagia.


Come avrei potuto divenire cattivo, non avendo sotto gli occhi che esempi di dolcezza, e intorno a me la gente migliore del mondo? Mio padre, mia zia, la mia bambinaia, i miei parenti, i nostri vicini, il mondo che mi circondava, se è vero che non obbedivano a me, nondimeno mi volevano bene, e io altrettanto li amavo.


Il padre era solito trascorrere le serate con lui, intrattenendolo con letture riguardanti i grandi classici dell’antichità.

Mi credevo greco o romano, diventavo il personaggio di cui leggevo la biografia.

Questo felice stato di cose finì quando Rousseau compì dieci anni. Nel 1722, a causa di una lite, il padre fu costretto a scappare da Ginevra perché ricercato dalla giustizia, e uscì per sempre dalla sua vita.


Affidato allo zio materno, che aveva un figlio più o meno della sua età, Rousseau andò a vivere a Bossey, nell’Alta Savoia. Si trattò di un periodo che ricorderà da un lato con nostalgia per l’amicizia con il cugino e “la semplicità della vita campestre”; dall’altro con rancore, perché gli venne imposto di studiare “insieme con il latino, tutta la paccottiglia che l’accompagna sotto il nome di educazione”. Fu così che, per sfuggire alle punizioni corporali, imparò a mentire e il suo carattere venne “corrotto”.


Alice interruppe la lettura delle Confessioni. Sarebbe stato più facile ricordarsi del pensiero di Rousseau se avesse annotato sull’iPad qualche considerazione.


Prima considerazione. L’infanzia felice, l’amicizia con il cugino, la semplicità della vita campestre: ecco le radici del pensiero di Rousseau; ecco da dove trasse la convinzione che il luogo in cui abita la felicità non fosse il presente, e nemmeno il futuro, ma il passato; ecco perché si scagliò contro ogni forma di educazione autoritaria e repressiva. Aveva sperimentato sulla sua pelle quanto fosse deleteria.


A sedici anni, Rousseau andò a vivere a Charmettes, in Savoia, presso Madame de Warens, una donna di ventinove anni alquanto libera e intraprendente per l’epoca. Inizialmente Rousseau vide in lei quella madre che non aveva mai conosciuto.


Ella fu per me la più tenera delle madri; non cercò mai il suo piacere ma sempre il mio bene, e se i sensi entrarono nel mio affetto per lei, non fu per mutarne la natura, ma solo per renderlo più squisito, per inebriarmi dell’incanto d’avere una mamma giovane e graziosa che m’era delizioso accarezzare. E dico accarezzare nel senso più letterale, poiché mai pensò di lesinarmi baci e le più tenere carezze materne, e mai sfiorò il mio cuore l’idea di abusarne.


Alcuni anni dopo, quando lei aveva trentaquattro anni e lui ventuno, i due divennero amanti. E così Rousseau scoprì la differenza tra felicità e piacere.


Mi vidi per la prima volta tra le braccia di una donna, e di una donna che adoravo. Fui felice? No, gustai il piacere. Non so quale invincibile tristezza ne avvelenava l’incanto. Era come se avessi commesso un incesto. Due o tre volte, stringendola con foga tra le braccia, inondai il suo seno di lacrime. Lei, non era né triste né accesa; era carezzevole e tranquilla. Poiché era poco sensuale e non aveva cercato la voluttà, non ne ebbe le delizie e non ne ha mai avuto i rimorsi.


La storia con Madame de Warens entrò in crisi nel momento in cui comparve “un insipidissimo biondino, vuoto, stupido, ignorante, insolente”, così lo descrive Rousseau, ferito nell’orgoglio come tutti gli amanti abbandonati.


Lasciata Madame de Warens, Rousseau iniziò una relazione con una cameriera praticamente analfabeta, Thérèse Levasseur. “Una stupida consigliera eccezionale”: così la definisce nelle Confessioni. Insieme ebbero cinque figli, che Rousseau “pensò bene” di abbandonare all’Enfant-Trouvés, l’orfanotrofio.


Ad Alice si strinse il cuore, non ci poteva credere.


Seconda considerazione. Ma perché uno come Rousseau, uno che per tutta la vita rimpiangerà la felice infanzia trascorsa in famiglia, “pensò bene” di abbandonare i suoi figli? Che cosa lo spinse a una scelta così sciagurata? Questa la difesa di Rousseau:


Mi accontenterò di affermare che affidando i miei figli alla pubblica educazione, non potendoli allevare io stesso, destinandoli a diventare operai e contadini piuttosto che avventurieri e cacciatori di doti, credetti di compiere un atto di cittadino e di padre; e mi considerai come un membro della repubblica di Platone.

Più d’una volta, da quel tempo, i rimorsi del mio cuore mi hanno insegnato d’essermi illuso; ma lungi dall’aver avuto lo stesso avvertimento per parte della ragione, ho benedetto sovente il Cielo di avere in quel modo scongiurato a essi la sorte del padre loro.


C’è anche una spiegazione più maliziosa: e se Rousseau avesse saputo che quei figli non erano suoi? Un’ipotesi intrigante, di cui però non abbiamo riscontri.


In ogni caso, che fine fecero quei bambini? Non lo sappiamo. È assai difficile trovare tracce di neonati senza nome. E poi la mortalità negli orfanotrofi dell’epoca era molto alta a causa della malnutrizione e delle malattie. Pochi, insomma, raggiungevano l’età adulta.


Terza considerazione. Quale fu la scintilla da cui scaturì la filosofia di Rousseau? Tutto ebbe inizio casualmente in un giorno di ottobre del 1749. Fu allora che Rousseau apprese dalla rivista Mercure de France di un quesito proposto dall’Accademia di Digione per il premio dell’anno:


La rinascita delle scienze e delle arti ha contribuito a migliorare i costumi?


Nel leggerlo, la sua mente rimase come “percossa da mille luci”, invasa da “un turbamento indescrivibile” nel comprendere questa “grande verità”: l’uomo è naturalmente buono, ma è diventato malvagio a causa dello sviluppo della civiltà.


Quarta considerazione. Per Rousseau, l’uomo primitivo che vive immerso nella natura, il “buon selvaggio” insomma, “respira solo pace e libertà, chiede solo di vivere e di starsene in ozio”, mentre l’uomo civile è “sempre in faccende, suda, si agita, si tormenta senza posa per cercare occupazioni sempre più laboriose; lavora fino alla morte, corre addirittura alla morte per essere in grado di vivere”.


Quinta considerazione. Ma perché gli uomini non rimasero “liberi, sani, buoni e felici”? Perché la società umana degenerò?


Secondo Rousseau, tutte le sciagure sociali che noi conosciamo hanno un colpevole con tanto di nome e cognome: la proprietà privata. È questo il peccato originale dell’umanità, la causa della nostra infelicità.


Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire “questo è mio”, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili:

Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore.
Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra di nessuno, voi siete perduti!


Sesta considerazione. Nell’Emilio Rousseau utilizza un innovativo metodo per esporre i propri princìpi pedagogici: il racconto di fantasia. La storia di Emilio è quella di un allievo immaginario che vive in campagna, a contatto con la natura.


Tutto è bene ciò che esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo.


Settima considerazione. Secondo Rousseau, il compito dell’educatore consiste nell’organizzare situazioni favorevoli all’apprendimento, ispirandosi a tre fondamentali princìpi: la spontaneità (l’apprendimento è un’attività libera), la creatività (l’apprendimento è scoperta), l’interiorità (l’apprendimento è espressione dell’istinto e dei sentimenti del ragazzo). Nulla dev’essere imposto.


Fin dai primi giorni di vita, dunque, il bambino dev’essere lasciato libero di muoversi e di esprimersi come meglio crede. Il pianto è la prima naturale forma di linguaggio; pertanto, quando il bambino piange non bisogna né vezzeggiarlo né punirlo, ma capirlo.


Quando il bambino inizierà a parlare, occorre invece stare attenti a non condizionarlo con il linguaggio astratto degli adulti, perché così finisce per avere più parole che idee. E soprattutto non dovrà mai conoscere parole come “ubbidire” o “comandare”: qualsiasi cosa dovrà invece essere da lui ottenuta perché “ne ha bisogno”.


Tra i dodici e i quindici anni, Emilio vivrà “il tempo più prezioso della vita”, l’età dell’intelletto, “il tempo dei lavori, delle istruzioni, degli studi”; mentre, tra i quindici e i ventidue anni, imparerà a dominare le passioni e svilupperà il pensiero morale.


Infine, Emilio entrerà in contatto con la società, ma questo dovrà avvenire in modo “semplice e senza fasto”. Conoscerà inevitabilmente la vita dei ricchi parigini, ma capirà presto che è più piacevole vivere a contatto con la natura che in città.


Ritornato in campagna, Emilio incontrerà Sofia, di cui si innamorerà. Nel descriverla, Rousseau si sofferma sull’educazione femminile. Cosa che mise in allarme Alice. Seguiamo il suo ragionamento.


Rousseau ritiene che la natura abbia dato alla donna e all’uomo caratteristiche così diverse da risultare opposte: Sofia è timida e sottomessa, mentre Emilio ha un carattere forte e imperioso; Sofia ha un’intelligenza pratica, mentre Emilio una teorica; Sofia tende a sopportare l’ingiustizia, Emilio invece si ribella.


Per farla breve, Rousseau ritiene che occorra educare la donna non come l’uomo, ma in funzione dell’uomo. D’altra parte qual è il suo scopo? Essere una buona madre e una brava moglie, nessun altro. Anche alle figlie Sofia dovrà insegnare che “la dipendenza è uno stato naturale delle donne”. E per abituarle a essere docili interromperà sovente i loro giochi.


Ottava considerazione. Ma di chi stiamo parlando? Del “padre della moderna pedagogia” o di qualche reazionario maschilista? Rousseau non si contraddice parlando dell’educazione femminile? No, almeno secondo chi lo difende, nel senso che Rousseau ha in mente l’utopia della perfetta armonia sociale tra uomini e donne; un’armonia possibile soltanto se sono ben chiari e distinti i diversi ruoli sociali, perché è dalle differenze che scaturisce la complementarietà tra i sessi.


Mettiamola così: Rousseau non intende dare un giudizio di valore sulle donne. Per lui le donne sono addirittura dotate di una sensibilità superiore a quella degli uomini. Il loro destino è però quello di “regnare” all’interno della casa, mentre all’uomo spetta il compito di “regnare” sul mondo esterno.


Alice si guardò attorno: a lei la corona di regina di camera, soggiorno, cucina e bagno faceva venire l’orticaria. Convinzioni del Settecento, lasciamo stare. E riprese a occuparsi della storia di Emilio.


Da annotare era il momento in cui l’educatore chiede a Emilio di compiere un viaggio di due anni all’estero per completare la sua educazione. Solo dopo potrà sposare Sofia.


Il racconto termina con Emilio che si reca dal suo precettore per annunciargli che sarà a sua volta padre e maestro.


Nona considerazione. Per le sue idee Rousseau rischiò il linciaggio fisico. Così nelle Confessioni ricorda quel drammatico momento:

Mi si ammonì dal pulpito, fui chiamato l’Anticristo, e perseguitato nella campagna come un lupo mannaro. E infine fui assalito nella mia dimora. Cedetti perché lo spettacolo dell’odio popolare mi lacerava il cuore da non poterne più.


Il motivo di tanto odio va ricercato nelle sue idee, e soprattutto nella critica alle religioni tradizionali, che pretendono di imporre agli uomini la loro visione del mondo. Tanto per essere chiari, Rousseau riteneva che il cristianesimo non fosse più quello del Vangelo predicato da Cristo, “l’uomo più santo che sia mai esistito”, in quanto “pur non essendo Dio, morì da Dio”.


Secondo Rousseau, non rimaneva dunque che scoprire Dio da soli.


Io sento Dio e così me lo provo.
La fede null’altro è se non un sentimento.


Alice rimase interdetta: “Io sento Dio e così me lo provo”, ripeté nella sua mente. La frase suonava falsa e vera insieme. Cosa vuoi che provi, mio caro Rousseau? Delusione, solo delusione, tanta delusione. Dio se ne frega di me.


E nel formulare questo pensiero avvertì come un boato interiore. Sgomenta, Alice guardò dentro di sé e vide solo macerie: il castello della fede era crollato. Dio non esisteva più. Scomparso.


L’attimo dopo sperimentava quello che Friedrich Schleiermacher chiama “santa tristezza”. La tristezza che provò Cristo quando sulla croce si sentì “orfano del Cielo”.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO