capitolo 28

Kant

È la nostra mente che costruisce il mondo, non il mondo che si specchia nella nostra mente.

Kant non è Kant, è molto di più, è la stella polare della storia della filosofia occidentale. Nel suo pensiero risuona l’eco di quel meravigliarsi da cui scaturisce la riflessione filosofica in tutte le sue declinazioni: dal razionalismo di Platone a quello di Cartesio; dall’empirismo di Aristotele a quello di Hume. Una mappa non potrebbe essere più precisa. Vivere senza conoscere Kant è come non essere mai nati.


Due cose riempiono l’animo di ammirazione e reverenza sempre nuova e crescente, il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me.


Alice sorrise. Non c’è persona al mondo che parlando di Kant non citi questa frase, incisa sulla sua tomba. E Névache non faceva eccezione.


Franz era sempre con suo padre. Meglio così. Dopo essersi asciugata e cambiata, poteva starsene tranquilla a leggere che cosa Kant aveva da dirle, e nessuno l’avrebbe disturbata. Voleva proprio capire dove Névache intendesse andare a parare. Era evidente che qualcosa dei ragionamenti sull’esistenza di Dio non lo convinceva.


Névache era uno di quei sacerdoti di confine tra il mondo laico e quello religioso. Non era cioè arroccato a difesa dei suoi convincimenti. Amava sottoporli alla più spietata confutazione. Sapeva ascoltare, dote assai rara per chi pensa che Dio gli abbia affidato il compito di parlare. Era cioè una di quelle persone che nel dialogo rischiano continuamente la sconfitta, perché non si accontentano mai di un pareggio, vogliono la vittoria. E lui era convinto che il sale della verità fosse tutto lì, concentrato nel Vangelo.


Per Kant, Névache provava non solo ammirazione ma anche simpatia; lo si capiva da come raccontava la sua giornata tipo.


Lampe, il fedele servitore di Kant, aveva l’ordine di svegliarlo alle cinque meno cinque in punto. Sempre. D’inverno come d’estate, entrava nella sua stanza e con tono militare scandiva queste parole: “Signor professore, è l’ora!”. Senza alcun indugio Kant si alzava e alle cinque in punto era già seduto davanti alla sua tazza di tè.


Dopo aver passato la mattinata a scrivere o a far lezione all’università, Kant amava pranzare con gli amici, sebbene diffidasse dell’amicizia.


Miei cari amici, − amava dire − non esistono amici!


Nel pomeriggio poi – scrive uno dei suoi biografi, Reinhold Jachmann – Kant era solito andare a casa di un suo amico inglese, Green, che trovava immancabilmente “addormentato in poltrona; gli si sedeva accanto e, seguendo i propri pensieri, si addormentava; poi arrivava il solito Ruffmann, il direttore di banca, e faceva altrettanto; finché a una data ora entrava Motherby (un socio di Green), a svegliare la compagnia, che fino alle sette stava a conversare su interessantissimi argomenti. La brigata si scioglieva alle sette con tale puntualità che più volte udii gli inquilini della via osservare che non potevano essere le sette perché il professor Kant non era ancora passato”.


E le donne? Niente, non ce n’è traccia nella sua vita. Non si fidanzò, né si sposò mai. Scelta che nella vecchiaia giustificò così:


Quando avrei avuto bisogno di una donna, non potevo mantenerla;
ora che posso, non ne ho più bisogno.


Morì il 12 febbraio 1804. Le sue ultime parole furono: “Es ist gut”, “Sta bene”. Gli andava bene pure la morte.


Che cosa c’entrasse il modo di vivere di Kant con l’esistenza di Dio, ad Alice non era chiaro. A Névache invece sì. La frase, “cari amici, non ho amici”, era davvero illuminante.


Kant conosceva evidentemente il sentimento dell’amicizia, così come l’amore per una donna, ma ne temeva l’irrazionalità. Da qui il suo atteggiamento distaccato. Le emozioni fanno perdere lucidità alla mente. Questo pensava rifugiandosi nella sua vita, tanto noiosa in apparenza quanto straordinaria nelle sue acrobazie filosofiche.


A lui dobbiamo la più brillante definizione dell’illuminismo, di cui fu l’esponente di punta.


In uno scritto del 1784, spiega:

L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità, il quale è da imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!


Tre sono le grandi opere di Kant: la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del Giudizio. “Critica” è il termine chiave. Deriva dal greco krino e significa “giudizio”. Kant intende cioè sottoporre a giudizio le conclusioni a cui è giunto il pensiero filosofico occidentale. Tutte. Nientemeno.


Che sia particolarmente ambizioso il suo progetto, lo si capisce fin dalla prima opera, la Critica della ragion pura: scoprire la natura della conoscenza. Forte è infatti in Kant il sospetto che il fastidioso contraddirsi dei vari sistemi filosofici abbia una semplice spiegazione: ai loro autori non erano ben chiare le caratteristiche della mente umana.


Secondo Kant, nella storia della filosofia occidentale si sono succeduti innumerevoli filosofi. Il loro modo di intendere la conoscenza è però riconducibile allo scontro tra razionalisti ed empiristi.


I razionalisti − come Cartesio e Spinoza − partono dal presupposto che nella nostra mente esistano le idee innate. Di conseguenza formulano giudizi del tipo:


Il corpo è esteso.


Verità certa, questa. Peccato che non dica nulla di nuovo, per la semplice ragione che il soggetto “corpo” e l’oggetto “esteso” coincidono. Sono la stessa cosa. Il corpo è esteso, occupa cioè dello spazio per definizione. La verità dei razionalisti è dunque dogmatica, nel senso che non può essere messa in discussione ed è valida per tutti e in tutti i tempi. Universale, dunque, ma del tutto inutile.


Invece gli empiristi − come Locke, Berkeley e Hume − sostengono che la conoscenza derivi dall’esperienza. Di conseguenza formulano giudizi del tipo:


Il corpo è pesante.


Che un corpo infatti sia pesante me lo dice solo l’esperienza. Potrei anche giudicarlo leggero. Ma se così stanno le cose, appena si finisce di dire che un corpo è pesante, occorre rifare l’esperienza perché nel frattempo quel corpo potrebbe modificarsi e risultare leggero. L’esperienza mi ha portato a una nuova conoscenza. Utile, ma non universale, nel senso che non è valida per tutti, né in tutti i tempi. L’empirismo sfocia dunque inevitabilmente nello scetticismo, nella convinzione cioè che la verità sia così volubile da risultare inafferrabile.


Il fatto è, conclude Kant, che tanto i razionalisti quanto gli empiristi fanno un errore simile a quello che faceva Tolomeo, secondo cui il Sole ruotava intorno alla Terra. Per porvi rimedio, dobbiamo anche in filosofia compiere una “rivoluzione copernicana”; ribaltare cioè il rapporto tra Sole e Terra come ha fatto Copernico.


Non è infatti la nostra mente (Sole)
che si adatta alla natura (Terra),
ma è la natura (Terra)
che si adatta alla nostra mente (Sole).


In pratica, è la nostra mente, chiamata da Kant Io penso, che costruisce il mondo; non il mondo che si specchia nella nostra mente. Operazione che la nostra mente compie per mezzo di due strumenti: spazio e tempo.


Il concetto sembra complesso, ma il meccanismo è semplice. Se ci mettiamo degli occhiali con delle lenti rosse, non vediamo forse tutte le cose rossastre? Ma le cose sono rossastre? No, sono le nostre lenti rosse che le costruiscono rossastre. Allo stesso modo, spazio e tempo sono le lenti attraverso cui la nostra mente costruisce il mondo.


Ma se è la nostra mente a costruire il mondo, esistono davvero le cose?


Certamente, secondo Kant; i nostri sensi ci dicono di sì, esistono. Tuttavia, come accadeva al re Mida, che trasformava tutto ciò che toccava in oro, quando la mente umana entra in contatto con le cose le trasforma in qualcos’altro.


E allora com’è in realtà il mondo che ci circonda? Non lo possiamo sapere e non lo sapremo mai. Va al di là delle possibilità della nostra mente. Non possiamo toglierci gli occhiali dalle lenti rosse. C’è dunque un muro invalicabile che segna il confine tra il conoscibile e l’inconoscibile. Al di qua c’è il fenomeno; al di là il noùmeno. Il fenomeno è la cosa per me, la cosa così come mi appare, ed è l’unica cosa che posso conoscere perché l’unica di cui posso fare esperienza.


Il noùmeno, invece, è la cosa in sé, così com’è veramente, una realtà che può essere solo pensata, ma non conosciuta perché non ne posso fare esperienza. Posso anche cercare di scavalcare il muro per conoscere ciò che va al di là dell’apparenza, ma arriverò sempre e solo a conclusioni contraddittorie.


Così, se ragiono sull’origine dell’universo, tenderò inevitabilmente a due conclusioni diametralmente opposte: che abbia avuto inizio nel tempo e nello spazio o che esista da sempre. Quale di queste due ipotesi sarà quella giusta? Non lo saprò mai.


Allo stesso modo, non saprò mai decidermi se l’anima esiste o se è un’attività della mente; così come non saprò mai se sono libero o se sono solo una rotella di un’infernale sequenza meccanica di cause ed effetti.

E l’Essere?

Anche l’Essere è qualcosa che va al di là del muro dell’apparenza. Quindi è illegittimo occuparsene. La metafisica non è una scienza. Per Kant, quelli che se ne occupano sono simili a quei navigatori che, non contenti della loro isola (la realtà così come appare), osano sfidare il “vasto oceano burrascoso” dell’Essere, “dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre; incessantemente ingannando poi con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo”.


Ma se non ha senso occuparsi dell’Essere, perché ne siamo attratti?


Perché è nella nostra natura, così come il salmone compie quell’incredibile viaggio controcorrente per andare a deporre le uova e riprodursi. Chi glielo fa fare? La verità è che siamo pazzi come i salmoni. Anzi, di più. Perché mentre i salmoni, sebbene decimati e sfiancati dalla fatica, raggiungono la loro meta, nessun uomo è mai approdato sulle spiagge dell’Essere. Eppure non smetteremo mai di provarci. Siamo fatti così.


Lo stesso discorso vale per Dio: le prove razionali sulla sua esistenza non hanno senso. Si tratta solo di bei ragionamenti. E con dei bei ragionamenti posso anche convincermi di possedere cento talleri (la moneta prussiana dell’epoca); ma che cosa posso comprare con cento talleri pensati? Assolutamente nulla. Un’idea è, e rimane, un’idea. Le prove razionali sull’esistenza di Dio sono solo un esercizio retorico. Non dimostrano nulla. Posso infatti essere certo dell’esistenza di una cosa solo se la vedo, la sento e la tocco.


Alice era confusa. Névache pareva del tutto convinto. Era questo il tarlo che gli impediva di esultare quando spiegava le prove razionali sull’esistenza di Dio: cento talleri… Ma allora come faceva a continuare ad avere fede?


Ancora un po’ di pazienza e l’avrebbe compreso. Kant è come uno di quei pugili che prima sfiancano l’avversario, colpendolo ripetutamente, per poi sferrare il colpo del k.o. all’ultimo round.


Nella Critica della ragion pratica Kant affronta il tema della morale. E anche in questo caso si rende conto che occorre fare una “rivoluzione copernicana”.


Fin dai tempi antichi, la filosofia ha sempre cercato di individuare le motivazioni più profonde della nostra vita morale: le risposte sono state le più varie. Per esempio, mi devo comportare bene perché così proverò piacere, vivrò in pace o perché così vuole Dio.


Tutte queste risposte però, a ben vedere, sono inadeguate. Non spiegano infatti il meccanismo su cui si fonda la morale: il piacere, la serenità o la volontà di Dio non hanno nulla a che fare con la morale. Sono tutte considerazioni esterne alla morale. È come dire: comportati bene, così ti darò tanti soldi. Che cosa c’entrano i soldi con la morale?


Secondo Kant, l’errore consiste nel fatto che il concetto di bene viene applicato all’uomo, mentre è l’uomo che elabora il concetto di bene. È l’uomo, cioè, il Sole attorno a cui ruota la Terra della morale; non il contrario.


Il meccanismo che spiega la morale è dunque dentro di noi. Perché è dentro di noi che risuona l’imperativo categorico, quel perentorio comando che ci ordina di agire in un certo modo perché è giusto così.

Devi perché devi.

Così parla la coscienza. Se infatti il tuo agire ha come obiettivo quello di ottenere dei vantaggi, non sei un uomo morale ma solo un astuto commerciante.


E se non agisci come ti ordina di fare l’imperativo categorico? Allora la tua coscienza te lo dice forte e chiaro: hai sbagliato. E ti punisce. Il vergognarsi ne è un segno. Ne consegue che l’imperativo categorico è contemporaneamente il legislatore, il giudice, l’imputato e il poliziotto della tua coscienza.


La vita morale non è dunque fatta di contenuti. Kant non si ispira ai dieci comandamenti, per intenderci. Dentro di noi non c’è una tavola delle leggi su cui sia inciso “non rubare”, “non uccidere” eccetera. Può infatti essere una buona cosa non rubare, ma se stai morendo di fame e non hai alternative, la tua coscienza ti ordina di rubare, perché la vita è più importante del principio di proprietà.


Allo stesso modo è giusto non uccidere, ci mancherebbe, ma se vedi un pazzo furioso che cerca di accoltellare dei bambini che escono da una scuola, la tua coscienza ti ordina di fermarlo. E se non trovi un modo migliore, anche ammazzandolo. Quindi rubare o uccidere possono essere morali o immorali. Dipende.


Ma allora, come si regola l’imperativo categorico? Secondo un profondo convincimento che è dentro di noi, quella legge morale che insieme al cielo stellato “riempie l’animo di ammirazione e reverenza sempre nuova e crescente”.


Kant ce ne fornisce tre esempi; tre punti di vista diversi, ma il concetto è sempre lo stesso:

Agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una legge universale.

Agisci in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona, quanto nella persona di ogni altro uomo, sempre come fine e mai come mezzo.

Agisci in modo tale che la tua volontà possa istituire una legislazione universale.

L’ispirazione evangelica è evidente. Kant ha in mente “Ama il prossimo tuo come te stesso”; oppure, Come volete che gli altri facciano a voi, così fate a loro”. Però non cita queste esortazioni; le riscrive in quanto non le ritiene universali. Nota infatti, maliziosamente, che se venissero applicate alla lettera da un masochista probabilmente non tutti sarebbero d’accordo.


Tutti sentono la voce della coscienza? Sì, tutti. Per esempio, chi mente pensando di potere ottenere un vantaggio sa che lo può fare perché presumibilmente non lo faranno tutti gli altri. Così pensando, riconosce che la sua azione può avere senso solo come eccezione. Per farla breve, è proprio perché sa che l’imperativo categorico risuona in ogni coscienza che ne approfitta mentendo.


È questo il punto a cui Kant voleva arrivare per sferrare il colpo del k.o. Se la coscienza mi dice “tu devi”, allora sa che posso agire anche in un altro modo. Sa cioè che sono libero. Altrimenti non mi direbbe “tu devi!”.


La ragione, dunque, non sa se la libertà esiste o meno, ma la mia coscienza sì: la libertà esiste.

Io sono libero, non sono una rotella di un meccanismo infernale.

Allo stesso modo, anche se la ragione non ne ha certezza, la mia coscienza sa che l’anima esiste. L’imperativo categorico, infatti, pretende la perfezione morale. Non mi dice: “Fai più o meno così”. Ma mi ordina di agire in modo perfetto. Poiché tuttavia la perfezione non è umanamente raggiungibile, evidentemente la mia coscienza sa di avere a disposizione un tempo infinito per realizzarla, un tempo cioè che va oltre la vita terrena. Il che è possibile soltanto se si ammette l’immortalità dell’anima, cioè la sopravvivenza infinita dell’esistenza spirituale nell’aldilà.


Infine, quando noi agiamo in modo virtuoso non lo facciamo per essere felici. Nel contempo, però, ci attendiamo come conseguenza del nostro impegno la felicità. Nella vita sensibile, tuttavia, questo non si realizza affatto, se non casualmente.


Ma allora perché pensiamo che il virtuoso debba essere felice? Perché la nostra coscienza sa che Dio esiste. Perché solo Dio, quale giudice supremo, può far corrispondere alla virtù la felicità. Quando dunque mi arrabbio perché ritengo assurdo che il giusto soffra e l’ingiusto goda, testimonio l’esistenza di Dio. Perché solo Dio può intervenire per mettere le cose a posto.


In conclusione, anche se la ragione non è in grado di dimostrarlo, io so, nell’intimo della mia coscienza, che sono libero, che l’anima esiste e che esiste Dio.


Sappiamo che Kant era un uomo piccolo, alto a malapena un metro e mezzo, con un fisico fragile, ma con un bel viso in cui gli occhi, scrive Jachmann, “parevano fatti di etere celeste donde brillasse sensibilmente il profondo sguardo spirituale”.


Ad Alice sembrava di vederlo fare capolino dalle pagine del libro di Névache per sussurrarle all’orecchio:


Dio esiste, e tu lo sai… il tuo cuore sente Dio.


Névache era finalmente soddisfatto. Il ragionamento di Kant gli ricordava quello di Pascal: “Il cuore, e non la ragione, sente Dio”.


Questa è la fede: un sentimento d’amore. E Névache era pascaliano dalla punta dei capelli a quella dei piedi. A ben vedere, anche Rousseau aveva detto qualcosa del genere.


Ma proprio questo era il problema di Alice. Il risultato del suo amore per Dio? Un tumore. Così si era spento l’incendio interiore della fede e non bastavano delle belle parole come quelle di Kant per riaccenderlo.


La cosa però non finiva lì. L’uscita di Dio dal suo universo mentale le provocava angoscia. Credere era stato il cemento con cui nell’adolescenza aveva costruito il castello interiore della fede a dispetto dell’ateismo della madre.


Ora che era crollato, la sua anima assomigliava a un deserto freddo. Senza speranza. E non c’è nessuno più indifeso di chi è senza speranza. Doveva parlarne con qualcuno. Un angelo sarebbe andato bene, se ce ne fossero stati in circolazione. Non certo uno psicologo o uno psicoanalista. Quelli per mestiere cercano di capire le persone, mentre lei voleva capire Dio.


Don Vincenzo, sì, don Vincenzo era la persona giusta con cui parlarne.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO