capitolo 30

L'astuzia della ragione

La filosofia è pensiero che pensa, e a pensare s’impara pensando.

La pigrizia è la madre dell’astuzia della ragione. Chi ha inventato la bicicletta se non qualcuno che non aveva voglia di camminare? E l’automobile se non qualcuno che non aveva voglia di pedalare? E il computer se non qualcuno che non aveva voglia di calcolare? E i comandi vocali se non qualcuno che non aveva voglia di digitare? La trasmissione del pensiero, ecco la nuova frontiera della pigrizia. E dell’astuzia della ragione.


Torino è una città filosoficamente avvolgente. Il vento della filosofia soffia dappertutto, ma solo in certi luoghi ne abbiamo la sensazione. La Mole Antonelliana è uno di questi, il luogo più hegeliano della città. Per Alice, l’ombelico del mondo.


La Mole Antonelliana è una scommessa vinta. Alta 167,5 metri (l’edificio in muratura più alto del mondo per circa dieci anni, dal 1889 al 1908), è il simbolo di Torino.


Ospita il Museo del Cinema. Un tentativo di dargli un senso. Ma in quel suo slanciarsi verso il cielo abbraccia il vuoto. Un enorme contenitore che non contiene nulla, tanto che Nietzsche vide in questo nulla che si slancia verso l’assoluto l’immagine dell’uomo descritto da Zarathustra, il profeta della morte di Dio.


Ecce Homo, “ecco l’uomo”: così Nietzsche aveva battezzato la Mole Antonelliana. Entriamoci insieme.


L’ascensore sale nel vuoto fino in punta. Lì il nulla scivola nel tutto, e Torino appare nella sua essenza: una pittura a tempera che narra di un accampamento romano diventato con il tempo città barocca e poi industriale, con strade tracciate con il righello e compiaciute montagne che disegnano lo sfondo.


In cima alla Mole Antonelliana, tutti sono filosofi. I commenti dei visitatori andrebbero registrati e inseriti in qualche antologia filosofica. L’effetto “bambino in pasticceria” è garantito. C’è chi si lancia in memorabili riflessioni sul rapporto tra cosmo e microcosmo, fino a sospettare che finito e infinito siano la stessa cosa. E l’intensità di quel pensiero gli fa girare la testa.


C’è chi invece non si dà pace nello scoprire che nessuno può sfuggire alla tenaglia delle contraddizioni. Dire significa contraddire: non c’è da stare allegri.


In cima alla Mole Antonelliana tutti sono hegeliani. Se la guardi invece dal basso la prospettiva è nietzschiana.


In cima alla Mole Antonelliana ad Alice pareva di baciare il cielo. E nel baciarlo sentiva il respiro dell’universo. Il bordo delle montagne le ricordava poi il bordo del tempo. Al di là c’era il futuro, e in quell’azzurro graffiato di bianco s’immaginò qualche ritaglio della vita di suo figlio. Senza fantasia non si può vivere. La fantasia è una bolla di sapone, ma guai a farla scoppiare.


Suo figlio avrebbe solcato quel cielo con un aereo di sua invenzione, che funzionava combinando l’idrogeno con l’ossigeno, cioè ad acqua. Oppure avrebbe regalato all’umanità qualche farmaco per curarla dall’amnesia storica nell’epoca del web. E l’umanità l’avrebbe ringraziato dandogli il Nobel. Forse, chissà. Lacrime dolcissime di mamma le sgorgarono dagli occhi.


E se invece suo figlio avesse scelto di fare, che so, il parrucchiere? Allora sarebbe stato un mago. Trasformare gli anatroccoli in cigni non è da tutti.


Figli? Un paio. Sposato? Almeno quattro volte o mai. Impossibile una relazione lunga una vita. Il futuro era così. Per saperlo, bastava essere sufficientemente masochisti da sopportare qualche serie televisiva, di quelle che quando le guardi maledici il giorno in cui hai incominciato a vederle.


Il carattere? Un po’ ironico e simpatico a corrente alternata. In pratica, oltre le montagne c’era uno specchio. Suo figlio sarebbe stato come lei; solo un po’ meglio. Niente di che. Mamma ragioniera, figlio economista; papà geometra, figlio ingegnere: così sognano i genitori di tutti i tempi e a tutte le latitudini. Chissà se era capitato anche a Hegel. Unico indizio: aveva chiamato il suo primo figlio Immanuel, come Kant.


Prima di scendere da quell’osservatorio hegeliano, Alice guardò ancora una volta il paesaggio. Un pigro tramonto lo stava accendendo di giallo con striature arancioni.


Hegel aveva passato la vita a dimostrare che Kant sbagliava o ne aveva proseguito il ragionamento, un po’ come aveva fatto Aristotele con Platone? A Oberosler l’ardua sentenza.


Mai chiedere le previsioni del tempo a un depresso, in questo caso a una depressa. Da quando Alice era andata a vivere con Franz, un drappo nero era calato sugli occhi di sua madre.


− Se esci vestiti bene. Questo è un autunno che dà di matto − le aveva detto. Vero. Quell’autunno sapeva d’estate, con tanto di sole molesto e precipitazioni tropicali.


Il fascino è una vibrazione di magnetismo che Hegel possedeva in larga misura. Con lui bisogna solo avere un po’ di pazienza.


Avvertendo lo sciogliersi dei ghiacci dell’antipatia, Oberosler diede inizio alla seconda lezione su Hegel con una massima maturata negli anni, e precisamente nel momento in cui aveva smesso di credere alle favole:


Nel dubbio vivono tutte le risposte; le verità assolute ci rovinano.


− Attenzione, voglio dire. Hegel è il filosofo delle verità assolute. Il suo pensiero va maneggiato con cura. Può essere pericoloso. Dove eravamo rimasti? Alice ci sei?

− Sono qui, professore.

− Allora accomodati accanto a me e intervieni quando e quanto vuoi. La filosofia di Hegel è una sinfonia che intimidisce con quei colpi ossessivi delle percussioni: tesi, antitesi, sintesi. Ma tu non lasciarti spaventare.

− Okay.


− L’Enciclopedia delle scienze filosofiche si articola in tre parti: logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito. Seguiamo il binario su cui scorre la riflessione di Hegel. Pensare alla verità significa dividere la realtà in due sezioni: da una parte c’è l’Essere, cioè la logica delle cose; dall’altra la natura, il modo in cui le cose appaiono. La logica non solo ci dice come funziona il pensiero, ma anche come funziona la natura. Questo è il marchio di fabbrica di Hegel. Di conseguenza, la metafisica non solo è legittima, ma è anche scienza, scienza dell’Essere e si chiama logica.


− Non capisco, professore.

− Che cosa pensava Dio prima di creare il mondo? Lo pensava in modo astratto, senza materia; lo pensava ragionando, secondo logica.

− Grazie.

− E poiché Dio pensava il mondo ragionando, la natura segue leggi razionali.

− Ovvia conseguenza.


− Il problema è che la natura non sa né può sapere di essere razionale. Se non ci fosse l’uomo, non saprebbe neppure di esistere. E poi la natura è limitata dalla morte. Immortale è solo lo spirito del mondo, il pensiero che sa di essere pensiero.


Alice avrebbe voluto intervenire, ma lo schermo fu più veloce nel proiettare una nuova domanda:


In che modo si esprime lo spirito del mondo?


− Si esprime innanzitutto nel linguaggio, nel senso che la lingua non è solo un modo di comunicare, ma anche un modo di ragionare e di stare al mondo. Così il tedesco, l’inglese o il cinese non sono solo delle lingue diverse, ma modi di ragionare diversi.


− Se però lo spirito del mondo è immortale, come mai ogni periodo storico ha una sua verità? In pratica, come possono esserci tante verità?


− Il fatto è che ogni periodo storico ha il suo particolare modo di pensare, la sua mentalità. E ciò che può essere ritenuto utile o giusto in un momento non ha magari senso in un altro contesto storico.


− Per esempio?

− Non c’è dubbio, per esempio, che nel contesto del mondo antico la schiavitù abbia permesso all’umanità di progredire. Oggi però nessuno potrebbe sostenere questa tesi. Anzi, è vero il contrario: dove c’è schiavitù non c’è progresso. Ogni periodo storico ha dunque la sua verità, che affonda le radici in quella precedente, la contraddice e la supera.


− La supera per andare dove?

− La storia non procede a caso, ma verso la libertà: inizia con le antiche monarchie orientali, dove “solo uno era libero”; prosegue con il mondo greco e romano, dove “solo alcuni erano liberi”, per giungere all’epoca moderna dove “tutti sono liberi”.


− La storia ha un termine?

− Sì e no. Nel momento in cui viene raggiunta la libertà termina la storia, non però nel senso che non ci saranno più nuovi avvenimenti, ma nel senso che non ci saranno più mutamenti sostanziali: con l’avvento della libertà la storia ha raggiunto il suo fine.


− Prima ci ha invitati a fare molta attenzione al pensiero di Hegel: ma che cosa ci può essere di pericoloso nel ritenere la storia un viaggio verso la libertà?

− Per rispondere a questa domanda occorre fare una premessa. Secondo Hegel, lo Stato è “l’ingresso di Dio nel mondo”, nel senso che il valore dello Stato è superiore a quello degli individui, così come a quello della società civile: per questo lo Stato di Hegel viene definito “etico”, in quanto interprete morale del bene collettivo. Sta qui il pericolo: se infatti lo Stato in quanto etico non è l’espressione degli individui, come pensano i democratici, ma qualcosa di moralmente superiore, ne deriva che in nome di una libertà più grande lo Stato può soffocare la libertà degli individui. Nella loro retorica, il totalitarismo stalinista, nazista e fascista attingerà a piene mani a questo concetto, andando ben oltre le intenzioni di Hegel.

Il ruolo del popolo-guida.

− Come accade agli individui, anche lo spirito dei popoli nasce, fiorisce e muore. Il popolo-guida è quello che di volta in volta meglio esprime lo spirito del mondo. Inutile aggiungere che, secondo Hegel, nella modernità questo requisito è incarnato dal popolo tedesco. Alla testa dei popoli-guida vi sono individui come Alessandro il Macedone, Carlo Magno, Federico II di Prussia, Napoleone.


− Tutti personaggi eccezionali.

− Certo, ma non da un punto di vista morale: il fatto è che, pur perseguendo egoisticamente i loro interessi, senza saperlo favoriscono l’affermazione della libertà nel mondo. Agisce cioè nella storia una sorta di “astuzia della ragione” che riscatta quanto accade, indirizzandolo verso un fine superiore. Se così non fosse, la storia sarebbe soltanto “un banco da macellaio”. Invece è il trionfo della ragione.


− E in che modo lo spirito del mondo scopre la verità?

− La scopre compiendo un percorso che va dall’arte alla religione per approdare alla filosofia.

Che cos’è la bellezza?

− Per Hegel l’arte è intuizione della verità; un’intuizione che si esprime nella creazione di cose belle. L’arte coglie cioè la bellezza della verità.


− La bellezza ha però tante espressioni.

− Certo. La bellezza può essere naturale o artistica: quella naturale è un prodotto inconsapevole della natura, mentre la bellezza artistica è frutto dell’ingegno dell’uomo: è cioè bellezza che sa di essere bellezza. Per meglio spiegarsi, anche in questo caso Hegel si lancia in un excursus storico individuando tre tipologie di arte: simbolica, classica e romantica.


− Qualche esempio, professore.

− L’arte simbolica è tipica del mondo orientale. Evidente è per esempio l’intento delle piramidi di oltrepassare la realtà sensibile con dimensioni gigantesche per entrare nella logica dell’eterno. Arte pura: straordinari capolavori architettonici, caratterizzati dalla mancanza di equilibrio tra ciò che si vuole rappresentare e l’oggetto artistico.


Equilibrio che è invece perfettamente raggiunto nell’arte classica, tipica del mondo greco. La perfezione dell’arte classica è dimostrata dalla scelta della figura umana come principale mezzo espressivo. La bellezza dell’arte greca è insuperabile: l’uomo greco esprime nell’arte verità eterne. Nel contempo, però, ne avverte la distanza. Per questo le statue greche degli dèi sono forme perfette ma “cieche”, prive cioè di vita interiore. Non esprimono nulla, se non l’armonia delle forme.


A partire dal Medioevo, invece, le raffigurazioni di Cristo mostrano “un Dio che vede”, soffre, desidera e vuole. Un Dio romantico, insomma. La stessa sensibilità che troviamo nel romanzo, un racconto che non si limita a narrare delle vicende, ma scava nella psicologia dei personaggi.


Per Hegel, tuttavia, simbolismo, classicismo e romanticismo appartengono a epoche storiche passate. L’arte moderna, quella a lui contemporanea, è libera in quanto gli artisti non si sentono più vincolati ad alcuna tradizione o a qualche soggetto particolare, come Cristo o la Madonna.

Religione e filosofia.

Alice era perplessa.

− L’arte dunque consiste nell’intuire la verità: e la verità è Dio?

− Certo.

− Ma Hegel credeva in Dio?

− Non nel senso tradizionale. Per Hegel Dio corrisponde allo spirito assoluto, cioè alla ragione che non solo abita il mondo, ma che ne è anche consapevole.


− E allora che differenza c’è tra religione e filosofia?

− La religione parla di Dio in modo comprensibile a tutti attraverso racconti, mentre la filosofia parla di Dio attraverso concetti: richiede cioè una mente educata alla riflessione astratta. Un conto infatti è raccontare Dio, come fa la religione; un altro è pensarlo, come fa la filosofia.


− Raccontare Dio… in che modo?

− Le prime forme religiose vengono definite da Hegel “naturali”: Dio viene cioè percepito immerso nella natura, come nel caso del buddhismo o del confucianesimo.


Dalla religione naturale si passa poi a quella in cui Dio è raccontato come persona (gli dèi greci e romani o la religione ebraica ne sono un esempio).


Infine si giunge alla religione più elevata, il cristianesimo, in cui Dio è raffigurato non solo come trinità, cogliendone la natura dialettica, ma in cui l’uomo e Dio coincidono in Cristo.


− È questo il punto in cui la religione sfocia nella filosofia?

− Giusto. Dal racconto religioso del cristianesimo alla filosofia il passo è breve. La filosofia comprende che non solo Cristo è Dio, ma che tutta l’umanità coincide con Dio, nel senso che Dio è la ragione che sa di abitare il mondo, e lo sa nella testa dell’umanità. Per questo la filosofia è la forma più alta di conoscenza: perché non solo si occupa della verità, come l’arte e la religione, ma è la verità che sa di essere verità.


− Come avviene il passaggio dalla religione alla filosofia? In modo spontaneo o con una brusca presa di coscienza?

− Spontaneo, senz’altro. Amante dello champagne Hegel paragona questo passaggio a quando nel calice la schiuma e le bollicine scompaiono nel vino.

− E poi che succede?

− Fine. La filosofia ha raggiunto il suo obiettivo. Secondo Hegel, con il suo sistema termina la filosofia, così come la storia termina al raggiungimento della libertà.


− Mi sembra una conclusione assurda. Prova ne sia che dopo Hegel sono nate tante altre filosofie.


− Tutto previsto. Nel senso che secondo Hegel altre filosofie sarebbero nate, ma solo in quanto perfezionamento della sua. Questo dichiara ai suoi adoranti studenti in quel di Berlino. Non credo ci siano altre parole da aggiungere per comprendere l’origine dell’antipatia nei confronti di Hegel. Uno che dichiara che la filosofia termina con lui, come può essere simpatico alla comunità filosofica?


Mormorio.


− In ogni caso, Hegel non si è sbagliato di molto. Tutto il dibattito filosofico successivo ha lui come punto di riferimento, magari per negare ogni validità al suo pensiero, mai però ignorandone l’esistenza.


Oberosler si guardò intorno come se cercasse qualcosa o qualcuno. Ma era solo un modo per prendere fiato.


− Facciamo una pausa, professore?

− Certo, ma non più di cinque minuti. Hegel era davvero un tipo straordinario. Rilassatevi un attimo e poi riprendiamo, anche perché abbiamo quasi finito.

Pochissimi uscirono dall’aula, i più rimasero seduti a chiacchierare. Oberosler si rivolse ad Alice.


− Come va?

− Bene, non può immaginare quanto bene!

− Davvero?

− Professore, scusate l’intrusione. − Veronica si era avvicinata alla cattedra. − Non ho capito se c’è continuità tra Kant ed Hegel, un po’ come tra Platone e Aristotele.


Alice sorrise.


− È quello che volevo chiederle anch’io.

− Non c’è dubbio che la riflessione di Hegel sia radicata nell’Io penso di Kant, e quindi senza Kant, niente Hegel. Ma non c’è continuità tra i due. Neanche sotto tortura Kant avrebbe accettato i due grandi pilastri su cui si regge il sistema filosofico hegeliano, e cioè che reale e razionale coincidano e che il finito, in quanto reale, sia infinito.


Veronica e Alice non replicarono. Oberosler prese a sfogliare i suoi appunti per qualche minuto; poi decise che era venuto il momento di riprendere la lezione.


− Vi prego, andate a posto.

Brusio generale, poi silenzio.

Ora passiamo alla critica.

− È facile criticare Hegel, uno che se la tira sostenendo che il bicchiere della conoscenza sia mezzo pieno; più facile stare dalla parte di Kant, secondo cui è mezzo vuoto. Da qui le critiche feroci, ironiche, trancianti, a partire da quelle dei suoi contemporanei: Schopenhauer e Kierkegaard.


− Certo, professore − lo interruppe Alice. − È facile criticare Hegel, ma è anche assai arduo, per non dire impossibile, avere del sistema hegeliano un’immagine che ne sia la rappresentazione visiva. Se penso per esempio a Kant mi viene in mente l’immagine dell’isola che racchiude tutto quello che posso conoscere; così come il mare aperto coincide con l’inconoscibile, la metafisica. Di Hegel invece non mi viene in mente niente.


− Non fare anche tu l’errore di sottovalutarlo: è lui stesso a fornirci lo strumento che chiedi. E lo fa paragonando la civetta alla filosofia: è lui l’autore della metafora che abbiamo utilizzato nell’introduzione a Platone, te lo immaginavi? Gli occhi scintillanti della civetta vedono nel buio dove altri non vedono. Vedere di sera significa però capire le cose troppo tardi rispetto al formarsi della realtà.


La filosofia dunque, per Hegel, non è in grado di trasformare il mondo, ma solo di contemplarlo. A trasformare il mondo ci pensa invece la talpa (metafora di origine shakespeariana), che scuote la storia con il lavorio cieco, sotterraneo, incessante degli individui mossi dai loro interessi irrazionali.


Ecco l’immagine-simbolo che cercavi, Alice. Tutto il sistema hegeliano riassunto in una metafora: la civetta che guarda e la talpa che scava; la filosofia che contempla il mondo e la storia che lo trasforma. Così funziona la realtà secondo Hegel.


Ora Oberosler aveva davvero finito.

− Ancora una cosa, professore…

− Sì, Alice?

− Mi chiedevo, ma forse non dovrei fare questa domanda… è solo una curiosità.

− Dimmi.

− Hegel era un tipo concreto o romantico? Mi piace immaginare i filosofi immersi nella vita quotidiana.


Oberosler la osservò incuriosito.

− Mi scusi…

− Ma no, bella domanda. Era entrambe le cose. In occasione del matrimonio scrive all’amico Niethammer: “Ho raggiunto il mio ideale terreno, perché con un lavoro e una donna si ha tutto in questo mondo”. Una frase che ci mostra il lato concreto della sua personalità; quello romantico lo ricaviamo invece da come Hegel descrive l’amore. Solo uno che l’ha vissuto con tutto se stesso può definirlo come fa lui.


In una relazione d’amore, osserva Hegel, la persona amata non viene percepita del tutto come un’altra persona, ma come una parte della propria identità. Ecco le sue precise parole:


L’amato non ci è opposto, è uno con la nostra essenza:
in lui vediamo solo noi stessi, e tuttavia non è noi:
è un miracolo che non siamo in grado di capire.


Alice non ci poteva credere. Hegel e l’amore: chi l’avrebbe detto? La descrizione di quanto stava succedendo nella sua pancia era perfetta. Un miracolo d’amore, e l’amore non si può capire.


Nel gergo hegeliano, Alice stava diventando non-Alice per essere la vera Alice. Mentre sorrideva all’idea che Hegel hegelianamente si occupasse della sua pancia, un pensiero le attraversò la mente. Uno squarcio tra le nuvole. Splendido, era la cosa giusta da fare. Subito!


Grazie Hegel, pensò tra sé, mentre usciva dall’aula inseguita dallo sguardo indagatore di Oberosler.


Fuori, le foglie cadute dagli alberi rendevano pericoloso camminare velocemente. L’unica questione, questa delle foglie che d’autunno si appiccicano alle scarpe, di cui non c’è traccia negli scritti di Hegel.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO