capitolo 31

Schopenhauer

Chi è capace di vedere l’intero è filosofo.
Chi no, no.

Nella pancia di Alice, il cuore del bambino incitava alla carica con allegri squilli di tromba, più che con sordi colpi di tamburo. Ma la realtà era quella che era, cupi pensieri coprivano la luna impedendo ai sogni di raggiungerla.


Così, ben presto la rabbia ruppe nuovamente gli argini, e con perfidia spiegò ad Alice che stava cercando di raggiungere l’impossibile attraverso l’impossibile. Come gli eroi delle fiabe. Appunto, delle fiabe.


La rabbia sarà pure un perfido veleno, ma guai a sprecarla. Perché la rabbia è la benzina dell’anima, il carburante che l’anima usa per strambare, come si dice nel gergo marinaresco, cambiare cioè improvvisamente direzione alla vita.

È dalla rabbia che nascono le grandi imprese.

Su questo Alice non aveva mai riflettuto. Per non soccombere, la sua mente dilatò i confini del tempo e dello spazio e s’immaginò lontano da tutto; meglio, da tutti quelli che l’amavano: da Franz e da sua madre, per farla breve. Aveva voglia di libertà, e l’amore è un legame: qualcosa che ha a che fare con le catene.


Stare sola, per pensare, riordinare le idee, guardare alle vicende della vita in cima alla Mole Antonelliana con il maestoso sguardo razionale di Hegel. Concretezza e romanticismo. Da qui la strambata.


Ma dove andare? A Milano: lì vanno gli italiani in cerca d’America. Non distante dal San Raffaele, Milano poteva essere un’idea. A Milano si era pure trasferito don Vincenzo, il che rendeva agevole andargli a parlare. A proposito, o adesso o mai più.


Era venuto il momento di utilizzare il tesoro messo da parte con l’affitto del negozio che suo padre le aveva lasciato con scaltra preveggenza. E poi, con un po’ di fortuna, avrebbe trovato un lavoro. Qualsiasi lavoro.


In ogni caso, occorreva recidere con il machete il rapporto con sua madre e Franz. Il piano consisteva nel lasciare attaccata alla porta una lettera che sapesse di caramella al rabarbaro, dolce e amara insieme. Impresa disperata, anche perché non c’era modo di rimediare al retrogusto sgradevole della conclusione:


Non cercatemi. Ho bisogno di stare da sola.
So che mi amate, per questo lasciarvi fa più male a me che a voi.
Ma lo devo fare. Grazie.


No, non poteva continuare a vedere i loro occhi intrisi di lacrime, mentre il suo corpo si stava trasformando in un campo di battaglia. Da un lato lei, il bambino e la vita; dall’altro il tumore, le metastasi e la morte.


Sua madre e Franz non erano neanche dei bravi attori.


La rabbia delle donne è un inferno da cui conviene stare alla larga. Per essere carino, Franz avrebbe voluto rispondere “capisco” al messaggio di Alice, anche se non aveva capito un bel niente. Provò a chiamarla. Telefono spento. Ovvio.


Il non essere cullati da parole d’amore stordisce. Franz si accasciò sul divano in attesa di una reazione neuronale. Qualche impulso elettrico che rimettesse in moto il cervello. Sì, mandare un messaggio a suo padre poteva essere una buona idea:


− Ho bisogno di parlarti, vieni qui per favore. Alice se n’è andata.

− Perché? − rispose prontamente Giove.

− Non lo so.

− Ma ti ama ancora?

− Va’ a sapere… dice che il non vedermi fa più male a lei che a me.

− Ah…

− Scusa, in realtà dice la stessa cosa anche di sua madre.


Il telefono rimase un po’ in silenzio, poi vibrò nuovamente. Messaggio.


Tutti conoscono la storia di quel padre che bastonando il figlio gli diceva:
Figlio mio, credimi, fa più male a me che a te.
Al che il figlio rispose:
Allora, papà, perché non lasci che ti bastoni io?


Giove era sempre Giove, in qualunque circostanza. Non si smentiva mai. Ma ci voleva ben altro che una storiella di Bertrand Russell per rincuorarlo.


Franz era dell’umore di un fiore a cui hanno reciso il gambo. Nero. Vedeva tutto nero. Nero il suo passato, nero il suo futuro. Non si trattava però di uno stato d’animo, di depressione insomma, ma di pessimismo. Il sorriso di Alice non illuminava più il mondo.


Eppure già gli antichi epicurei avevano scoperto che c’è un farmaco che cura il pessimismo. Si chiama filosofia. Un farmaco che funziona perché va alla radice del problema, riflette cioè sulle cause del pessimismo. Che cos’è infatti il pessimismo se non una visione del mondo?


I Fiori della filosofia, fonte di tutte le pensate di Franz, definivano Schopenhauer filosofo del pessimismo; anzi, il più grande di tutti i tempi in quella specialità, al pari di Hegel, che lo era dell’ottimismo. Rivelava poi che la storia, con discutibile senso dell’umorismo, aveva fatto incontrare i due. Con quale esito, lo si poteva facilmente intuire dal titolo che riassumeva il pensiero di Schopenhauer:


Hegel? Un cialtrone.


1820, Università di Berlino, primo pomeriggio. In un’aula stracolma, numerosi studenti assistono estasiati alla lezione di Hegel; poco distante, in un’aula semideserta, qualche studente assiste preoccupato alla lezione di un giovane professore di poco più di trent’anni, Schopenhauer.


Una scena che si ripeterà per ben undici anni, dal 1820 al 1831, con un risultato ancora peggiore: dopo il primo anno nessun studente si presenterà.


La scelta di Schopenhauer di far coincidere l’orario delle sue lezioni con quello di Hegel era un preciso messaggio: la sua filosofia non aveva nulla in comune con quella di quel “cialtrone dalla mente ottusa”, il cui pensiero era solo “una buffonata filosofica”, “la più vuota, insignificante chiacchierata di cui si sia mai contentata una testa di legno”.


Il risultato lo conosciamo. E allora? Ecco il commento di Schopenhauer:


Io non ho scritto per gli imbecilli, per questo il mio pubblico è ristretto.


Franz sorrise: quante bugie bisogna dire a se stessi e agli altri per affrontare la vita così com’è? In ogni caso, l’argomento era interessante, o perlomeno distraente. E poi si vedeva: Schopenhauer era uno che amava litigare con le parole. E come dargli torto? Le parole non sono mai innocenti.


Stava per sistemarsi sull’amaca quando il campanello squillò. Era suo padre.

− Avete litigato?

− No, Alice vuole stare sola.

− Allora avete litigato.

− No, affatto, come devo dirtelo Giove?

− Non capisco.

− Figurati io… andava tutto bene.

− Magari non per lei.

− Che dici, ultimamente era molto allegra.

− Davvero? Strano.

Altro squillo del campanello.

− Attendi qualcuno?

− No, sarà la posta. Sì?

− Sono Esther.


Franz corse a nascondere nel lavandino i resti del pranzo e a spostare qualcosa. Quando Esther comparve sulla porta, il disordine aveva assunto una sua logica.


− Scusa Franz…

− La mamma di Alice, Esther. Mio padre, Giovenale, Giove...

− Ah… piacere.

− Scusa Franz, se vado subito al dunque, – sbottò Esther − ma non so che cosa pensare. Tu hai qualche idea del perché Alice se ne sia andata? Mi ha lasciato una lettera in cui dice che vuole stare da sola e di non cercarla: ma perché? C’è qualcosa che dovrei sapere?


− No, assolutamente. E poi era molto contenta che avessi trovato lavoro in un’agenzia immobiliare. Diceva che questo rendeva più solido il nostro rapporto.


− Allora per quale ragione è sparita?

− Questo è il punto. Se il problema fossi io, come ha subito pensato mio padre…

− Era solo un’ipotesi − si giustificò Giove. − Molte cose maturano sotto la soglia della consapevolezza, senza che uno se ne renda conto, voglio dire.

− Se il problema fossi io sarebbe tornata da sua madre; perché invece non vuole stare né con me né con sua madre?

− Magari le ultime analisi sono disastrose… non me le ha fatte vedere.

− So solo che le cose tra noi andavano alla grande.

− Sarà − concluse Giove con una smorfia di quelle che fanno salire la pressione, convinto com’era che i black-out emotivi delle coppie avessero sempre un colpevole. Dimenticando che la felicità si costruisce in due, ma anche l’infelicità.


La madre di Alice cercò di dire ancora qualcosa, ma un groppo allo stomaco glielo impedì.


− Ascoltate, ho un amico che fa l’investigatore… è uno in gamba, la trova in mezz’ora − intervenne Giove.

− No, − risposero all’unisono Franz ed Esther − Alice non ce lo perdonerebbe mai.

− E allora non ci rimane che aspettare. Un bel po’. Le fratture psicologiche impiegano più tempo a guarire di quelle fisiche.

− Sarà dura, il silenzio è insopportabile.

− Tè? Chi vuole del tè? − chiese Franz cercando una via di fuga da quell’ingorgo emotivo.

− Per me no, − rispose Esther − devo andare al lavoro e la metropolitana non passa da queste parti.

− Nessun problema, se vuoi ti accompagno io con la macchina − intervenne Giove.

− Ma no, non ti disturbare…

− Mi farebbe piacere.

− Okay, grazie.


Nel salutarli, Franz guardò negli occhi suo padre: brillavano di speranza come quelli di un ragazzo. Che cosa stava succedendo? Giove era venuto in suo soccorso e per aiutarlo non aveva trovato di meglio che corteggiare Esther. Ecco che cosa stava succedendo. E faceva pure bene, se Alice non fosse scomparsa. Era solo, e nel suo cuore non c’era alcun altare dedicato a qualche altro amore.


Visto che a suo padre erano rispuntati i brufoli dell’adolescenza, non rimaneva che parlarne con il nonno. Poteva essere un’idea. Il nonno era un tipo pratico, e poi era un professionista dell’ottimismo, il che non guastava. Chissà cosa avrebbe tirato fuori dal cilindro della sua esperienza.


Oberosler poteva invece tornare utile da un punto di vista teorico: c’era qualche filosofo capace di giustificare il comportamento di Alice? La risposta richiedeva un professionista del pensiero.


Quanto a suo padre, era chiaro quello che pensava. Quando una ragazza ti chiede spazio, devi concederglielo. Se insisti, peggiori solo le cose. Fattene una ragione, al più presto.


Chiusa la porta, Franz tornò nel soggiorno. Sembrava che Schopenhauer lo stesse aspettando. Si distese sull’amaca e aprì I fiori della filosofia.

Vita di Schopenhauer, filosofo e misogino.

Nato a Danzica il 22 febbraio 1788, Arthur Schopenhauer apparteneva a una delle famiglie più facoltose della città. Il padre era un commerciante tedesco, mentre la madre, di vent’anni più giovane del marito, aveva un temperamento artistico e amava scrivere.


Il giovane Schopenhauer era destinato a proseguire l’attività paterna, quando nel 1805 accadde l’imprevedibile: il padre venne trovato morto di fronte alla propria abitazione. Si era suicidato gettandosi dal tetto del suo magazzino? Probabilmente, ma si preferì farlo passare per un tragico incidente. Il motivo di quel gesto andava ricercato nei contrasti con la giovane moglie, più che in ragioni di tipo economico. A ogni buon conto, nessuno pianse a lungo quella morte.


Appena entrata in possesso dell’eredità, la madre si trasferì a Weimar e ben presto la sua casa divenne il luogo d’incontro dei più bei nomi della letteratura germanica. Schopenhauer invece ne approfittò per studiare finalmente quello che più gli piaceva, la filosofia.


Madre e figlio però non erano fatti per andare d’accordo, e a furia di litigare finirono per non vedersi più. Schopenhauer non sopportava il carattere frivolo e mondano della madre, mentre la madre lo riteneva un irritante saccente.


Probabilmente il difficile rapporto con la madre è all’origine della sua misoginia, quell’odio e disprezzo per le donne di cui troviamo tracce in tutta l’opera di Schopenhauer, e in particolare nel saggio L’arte di trattare le donne.


A 21 anni Schopenhauer si innamorò perdutamente di un’attrice, Caroline Jagemann, una donna di trentun’anni a cui dedicò un ingenuo poemetto d’amore senza ottenere alcuna risposta: solo un imbarazzato silenzio.


Dopo l’amore platonico per Caroline, Schopenhauer ebbe una relazione per nulla platonica con una domestica di Dresda. Nacque un figlio, che non riconobbe e che morì in tenerissima età.


Ma il grande amore della sua vita fu un’altra Caroline, anch’essa attrice, Caroline Richter. La relazione entrò però presto in crisi, anche se si protrasse per una decina d’anni. Al ritorno da un viaggio in Italia, Schopenhauer scoprì che la donna aveva avuto un figlio da un altro uomo.


Schopenhauer ebbe numerose amanti. Era attratto soprattutto da ragazze molto più giovani di lui che non lo ricambiavano. Emblematico fu quando, a quarantatré anni, si invaghì di una ragazza di diciassette, Flora Weiss. Le sue intenzioni erano decisamente serie, voleva sposarla. Il padre della ragazza, però, non solo non gli diede il suo consenso, ma lo derise. Se avesse avuto la pazienza di ascoltarlo, ecco quello che Schopenhauer gli avrebbe detto:


La donna deve o sacrificare il fiore della giovinezza a un uomo già sfiorito, oppure avere poi la sensazione di non essere più un oggetto adatto per un uomo ancora nel vigore degli anni.


Le delusioni patite fecero crescere in lui la convinzione dell’assurdità del matrimonio, di cui diede alcune celebri definizioni. Eccone un paio.


Il matrimonio significa il doppio dei doveri rispetto ai diritti che si acquisiscono.
Sposarsi vuol dire fare tutto il possibile per diventare oggetto di disgusto per l’altro.


Schopenhauer morì nel 1860 a 72 anni. Passò l’ultimo periodo della vita frequentando sempre lo stesso ristorante e in compagnia di una lunga serie di cani chiamati tutti Atma (“anima del mondo”, nella filosofia indù) e tutti soprannominati Butz.


Con grande ironia, ripensando al suo rapporto con le donne, in tarda età giunse a questa conclusione, di una sincerità tale da riscattarlo almeno un po’ dalla sua ostentata misoginia:


Per quanto riguarda le donne, mi sono sempre piaciute.
Ero io che non piacevo a loro!


Franz scese dall’amaca per prendere l’iPad. Oberosler aveva parlato di Schopenhauer due settimane prima. Si fece una spremuta di pompelmo, si allungò sulla poltrona e scaricò la lezione che da qualche tempo languiva nel sito dello stage.

Che cos’è il mondo?

Per Schopenhauer il mondo è una rappresentazione, cioè fenomeno, direbbe Kant. Ma mentre per Kant il fenomeno è ciò che appare della realtà, qualcosa di vero dunque, per Schopenhauer è solo un’illusione.


L’uomo non conosce né il sole, né la terra, ma è soltanto “un occhio che vede il sole e una mano che tocca la terra”. Insomma, la realtà è nascosta dal “velo di Maya”: termine, quest’ultimo, ripreso dal sanscrito e che significa “illusione”.


È possibile lacerare questo velo di Maya, così da conoscere la verità? Sì, in quanto l’uomo non è soltanto pensiero, ma anche corpo. E se ascoltiamo il nostro corpo ne possiamo scoprire l’intima essenza. Scopriamo cioè che la realtà è il prodotto di un’assurda energia, una “volontà” − così la definisce Schopenhauer − che non persegue alcuno scopo, se non quello di riprodurre se stessa.

Esiste la libertà?

No, secondo Schopenhauer non esiste. Gli uomini credono di prendere decisioni in piena autonomia, mentre in realtà chi decide per loro è la volontà, un inconscio impulso alla vita e alla perpetuazione della specie.


La volontà è ovunque: nel fiore che cresce e nel piede che lo calpesta; nella gazzella che scappa e nel leone che la insegue; nell’amore come nell’odio; nella nascita come nella morte. In sintesi, la volontà è l’essere del mondo, il male che lo pervade.


Il pessimismo di Schopenhauer non potrebbe essere più radicale.


Tutta la natura soffre, non soltanto l’uomo: il mondo animale si nutre di quello vegetale, e gli animali si nutrono l’uno dell’altro. L’uomo poi soffre più di tutti, perché è colui che ha la maggiore consapevolezza della sua condizione, e tra gli uomini ancora di più soffre il genio. In pratica, “più intelligenza avrai, più soffrirai”.


Il piacere null’altro è se non il rilassamento dal dolore; ma poiché il piacere consiste nel rilassamento, inevitabilmente sfocia nella noia. Di conseguenza, la vita umana è simile a un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia.


Dei sette giorni della settimana, sei sono di dolore e uno di noia.


Questo incessante oscillare tra dolore e noia non potrà mai aver fine: per sua natura l’uomo desidera sempre qualcosa che non ha. Da qui la sua cronica insoddisfazione.


La vita umana è una tragedia, e gli sforzi per cercare di accaparrarsi un po’ di felicità sono “come quelli di chi cerca di gonfiare quanto più, e quanto più a lungo possibile, una bolla di sapone, pur sapendola destinata a scoppiare”.


La storia dell’umanità assomiglia a una ruota che gira all’infinito senza andare da nessuna parte, come quella del criceto che dentro la sua gabbia si affanna a correre sempre più velocemente, senza però spostarsi di un millimetro.


Il mondo è dunque un inferno in cui “ognuno è diavolo per l’altro”: prova ne sia che “l’uomo è l’unico animale che faccia soffrire gli altri al solo scopo di farli soffrire”, mentre “gli altri animali lo fanno unicamente per soddisfare la loro fame o nel furore della lotta”.


Stando così le cose, inevitabilmente l’uomo si rifugia nelle illusioni, la più tragica delle quali è l’amore inteso come ricerca del piacere sessuale. Ma il concepimento altro non è che “due infelicità che ne mettono al mondo una terza”. Un tragico inganno, insomma.

Non rimane che suicidarsi?

No. Secondo Schopenhauer, il suicidio non è una valida risposta alla tragedia esistenziale dell’uomo. Il suicida “vuole la vita, non è solo contento delle condizioni che gli sono toccate”. In pratica, il suicida ama talmente la vita da non sopportare che non sia come la desidera. Per quale ragione infatti decide di togliersi la vita? I motivi possono essere i più vari: un amore non corrisposto o un fallimento economico. Non lo fa, cioè, perché non vuole più vivere; non vuole semplicemente più vivere così.


Ma se il suicidio non ha senso, quali alternative abbiamo per spezzare le catene della volontà? Schopenhauer ne prende in considerazione tre: l’arte, la morale e l’ascesi.


L’arte è “la cosa più consolante e innocente della vita”, una sorta di magia in quanto riflette il gioco tragico dell’esistenza. Quello tuttavia che può produrre l’arte è solo un “breve incantesimo”, terminato il quale l’uomo ritorna vittima della volontà.


La morale, invece, impone un forte impegno nei confronti del prossimo. Ma solo chi “com-patisce” − cioè chi “patisce con gli altri” − ama veramente. Perché il vero amore consiste nel sentire nostre le “spine degli altri”, le loro sofferenze. Concetto ben sintetizzato dalla formula che i testi sacri dell’induismo, i Veda, suggeriscono di ripetere tutte le volte che incontriamo una creatura:


Questo vivente sei tu!


Compatire significa tuttavia ancora patire. Inoltre la compassione rivela l’attaccamento alla vita, nel senso che si soffre per il dolore degli altri e si desidera per loro una vita migliore. Anche la strada della moralità, dunque, non ci libera completamente dal dolore che il vivere comporta.


Non rimane che tentare un’ultima strada, quella dell’ascesi che scaturisce dall’orrore dell’uomo per questa terrificante energia che ci domina. Lo scopo dell’ascesi consiste nell’annullare in sé ogni volontà, estirpando dal proprio animo ogni desiderio di vivere.


Il primo gradino dell’ascesi è costituito dalla perfetta castità: basta, cioè, con l’irrazionale impulso alla perpetuazione della specie. Seguono poi la povertà volontaria, il digiuno, il sacrificio, fino a che si giunge alla soppressione totale della propria volontà.


Annullando la volontà si entra in uno stato di assoluta quiete in cui ogni possibilità è indifferente, ogni sofferenza viene privata della sua causa, ogni desiderio vanificato e ogni dolore estinto fino a che “davanti a noi non resta che il nulla”: il nirvana per l’induismo e il buddhismo, “un oceano di pace e di luminosa serenità”.


Franz era perplesso. Intanto sembrava di sentire Nadia parlare degli effetti di qualche sostanza stupefacente. E poi se Schopenhauer era così convinto della validità delle sue idee, perché non le aveva messe in pratica? Non sarebbe stato molto più credibile? Perché invece di condurre una vita ascetica aveva preferito corteggiare ragazze di diciassette anni? O andare tutte le sere al ristorante insieme al suo cane Atma, detto Butz?


Franz chiuse l’iPad e riaprì I fiori della filosofia. Lesse qualche brano di Schopenhauer e in una nota trovò la risposta. Com’è nella tradizione occidentale, Schopenhauer era un filosofo alla maniera di Platone che scrive:


Chi è capace di vedere l’intero è filosofo.
Chi no, no.


Platone parla di “vedere” non di “vivere”. Il filosofo, insomma, osserva la verità dall’esterno perché vi giunge attraverso la ragione, e non va confuso con il mistico, che vive invece la verità dall’interno perché la scopre attraverso l’esperienza.


E allora diciamola tutta: la coerenza va richiesta al mistico, non al filosofo, e in ogni caso non a uno come Schopenhauer, che santo non era, e lo sapeva.


Franz si rabbuiò. Neanche Alice lo era. I santi hanno il coraggio delle loro idee. Non scappano. E non era neanche una filosofa alla maniera di Platone. Ma che importava? Insieme formavano un intero, la stessa musica suonava nei loro cuori. Perché non voleva più ascoltarla?


Okay, Alice aveva deciso di cambiare vita, di voltare pagina. E allora? Un suo diritto, ci mancherebbe. Aveva però voltato la pagina sbagliata, quella di chi l’amava. Questo avrebbe voluto dirle. Ma si può? Meglio uscire di casa a fare due passi.


Un attimo. Schopenhauer aveva ancora qualcosa da dirgli.


Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non trovarono una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.


Certo, bisognava trovare la “moderata distanza reciproca”. Ne avrebbe parlato con Alice alla prima occasione. Ma quale occasione? Intanto un nubifragio allagava Torino. Alcuni correvano; altri, trovato un riparo, rimanevano fermi in attesa che spiovesse. Franz invece procedeva con calma. Lui c’era abituato. Per tutta la vita non aveva fatto altro che cercare di respirare sott’acqua.


Era stato un ingenuo, doveva ammetterlo. Di solito alla sua età la gente attraversa la strada guardando da entrambi i lati. Lui invece era andato dritto verso Alice come aveva visto fare da quelli che ci sanno fare.


La stupidità non canta da sola, ma in gruppo, e lui ne era il frontman.


No, Alice aveva un altro, un nuovo compagno. Ebbene sì, un altro. Perché non ci aveva pensato prima? L’allegria che sprigionava negli ultimi tempi ne era un segno. C’era anche stato un momento, a pensarci bene, in cui aveva preso a parlare a raffica, come chi non sa trattenere un’emozione.


Ora però era tutto chiaro, persino banale, come solo le teorie di seconda mano sanno essere. Alice aveva qualcun altro e non sapeva come dirglielo. Tutto qui. Capita.


Nessuno ama stare da solo, parola di Aristotele, non di Franz; e se lo diceva il “maestro di coloro che sanno”, allora le cose dovevano essere andate proprio così. In quello stesso istante, uno sconosciuto la stava abbracciando come lui non aveva mai osato fare.


No.


Una sensazione simile a quei graffi che ti ritrovi su un braccio o su una gamba, senza sapere come te li sei procurati, scosse Franz.


La stessa musica suonava nei loro cuori, e presto sarebbero tornati ad ascoltarla insieme.


Lo squillo del telefono lo risvegliò dal torpore romantico. Era Oberosler.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO