capitolo 33

Il dubbio

La morale è strabica:
con un occhio mira al bene dell’individuo;
con l’altro a quello della collettività.

Alcune filosofie depositano nella mente dubbi carsici che emergono di tanto in tanto. Per Oberosler, il più fastidioso di questi era un interrogativo che lo aveva perseguitato per tutta la vita. Fin da quando all’università si era imbattuto nella teoria del “terzo escluso” di Aristotele. Un micidiale ingranaggio logico che suonava così: o si dice la verità, o si mente; non esiste una terza possibilità. Da qui l’interrogativo:


Bisogna sempre dire la verità?


− Secondo Kant, sì. Questo ci ordina l’imperativo categorico. Ti piacerebbe che qualcuno ti mentisse?

− No.

− E allora non mentire neanche tu.

− Ovvio, sono d’accordo con Kant.


Nel rispondere così a Oberosler, Franz avvertì la stessa sensazione di chi per la prima volta affronta il mare dove non si tocca.


Ovvio, ma non per Benjamin Constant, che osserva: se tutti dicessero sempre la verità, qualsiasi società crollerebbe. Poniamo che qualcuno voglia assassinare un tuo amico: gli daresti l’indirizzo?


− Ovviamente no.

− Ovviamente, ma non per Kant che ribatte: se incominciamo a fare delle eccezioni, rischiamo di giustificarne altre fino a rendere del tutto inutile il principio di dire la verità. La menzogna toglie ogni valore alle parole.


− Giusto professore.

− Certo, ma proprio questo è il problema.

− Che problema? Alice ha il dovere di dirmi la verità.


− Ti rispondo con un episodio dell’agosto del 1791. A Kant scrive una sua appassionata lettrice, la signorina Maria von Herbert, chiedendogli un consiglio: deve o non deve confessare i suoi trascorsi amorosi all’uomo di cui è innamorata?


Kant non ha dubbi: una solida relazione si fonda sulla sincerità. Deve raccontare tutto, e quell’uomo apprezzerà senz’altro la scelta. D’altronde, se ne era innamorata, quell’uomo non poteva che essere come lei, e cioè “una persona altrettanto attenta e rispettosa della virtù”. Fiduciosa, la signorina Maria von Herbert seguì il consiglio di Kant. Risultato: il corteggiatore si dileguò. Stando alla mentalità dell’epoca, quale futuro ci poteva essere con una ragazza “irrimediabilmente compromessa”?


Non conosciamo il seguito della storia. Sappiamo solo che nel 1803 Maria von Herbert si suicidò gettandosi da un ponte nelle gelide acque del fiume Drava.


− Assurdo. Una vicenda che fa riflettere, ma che c’entra con il mio caso? Alice se n’è andata senza un motivo. La signorina Von Herbert, invece, un motivo ce l’aveva. E secondo me era la depressione, non certo l’aver dato retta a Kant.


− Aspetta Franz. Ascolta anche quello che ha da dirti Hegel.

− Okay.

− Nella Fenomenologia dello Spirito, per spiegare il rapporto conflittuale tra pubblico e privato, Hegel ricorre a una celebre tragedia di Sofocle, l’Antigone.

− Non la conosco.

− Nello scontro per la successione a Edipo, re di Tebe, Polinice muore durante un duello. Creonte, il nuovo re, vieta con una legge di dargli sepoltura, così com’è consuetudine fare con i traditori. E Polinice si era comportato da traditore chiedendo aiuto alla città di Argo, tradizionale nemica di Tebe.


Alla legge di Creonte si ribella Antigone, sorella di Polinice. Sorpresa a gettare qualche pugno di terra sul cadavere del fratello, viene condotta alla presenza del re.


Antigone si difende dicendo di aver violato una legge figlia del tempo, per seguirne un’altra, eterna, quella che sentiva dentro di sé, là dove abita la verità.


Adirato per la risposta, Creonte la fa rinchiudere in una caverna per il resto dei suoi giorni.


− Mi sono perso, professore. Il ragionamento di Kant è lineare: la sincerità non ammette eccezioni. Quello di Hegel mi sembra invece alquanto contorto, perché fa dell’eccezione la regola.


− Allora ricapitoliamo. Alice è sparita lasciandoti un messaggio. È così?

− Sì, diceva che aveva bisogno di stare sola. E questo è un suo diritto, ci mancherebbe. Il problema è che nel messaggio non c’è altro: nessuna spiegazione, solo la preghiera di non cercarla.


− E sei arrabbiato.

− Ma come si fa a non esserlo? Non poter abbracciare senza una ragione una persona che si ama è la forma di tortura più dolorosa che l’umanità conosca. Non è questo il modo di comportarsi. E poi mi fa male constatare ancora una volta che i tempi dell’amore sono sempre sbagliati. Come può essere pieno giorno per me e notte fonda per lei?


− Ma tra voi non avete mai parlato di…

Oberosler s’interruppe. Franz si era perso nella nebbia del suo moralismo emotivo, stordito dal ricordo di Nadia ed Eleni che andava a unirsi a quello di Alice.


− Non abbiamo mai parlato di cosa, professore?

− Di diritti e doveri, voglio dire.

− No, mai, come tutti. Non ce n’era bisogno.

− Dunque Alice ha violato una consuetudine, in pratica una legge che tutti considerano ovvia.


− Certo professore, questo è il punto. La legge della sincerità che è alla base di tutti i rapporti, come dice Kant, e che dovrebbe essere ancora più ovvia in un rapporto d’amore: non trova? Io non sono un nazista e nemmeno lo spasimante ottuso della signorina Von Herbert, tanto per essere chiari; ho diritto alla sincerità di Alice e lei ha il dovere di dirmi la verità. Qualunque essa sia. Poi può fare quello che vuole.


− E se invece Alice avesse infranto la legge della sincerità per rispettarne un’altra?

− Quale?

− Quella intima di cui parla Antigone.

− Continuo a non capire.

− Dentro di sé, nella sua coscienza, Alice deve aver sentito una voce che le diceva di fare quello che ha fatto. Perché questa era la scelta migliore per lei e per te.


− Mi sta dicendo che c’è una legge superiore a quella della sincerità?

− Franz, che cosa significa essere sinceri?

− Dire le cose come stanno.

− E quando andrebbero dette queste cose? Subito o nel momento più opportuno, quello in cui l’altra persona può capirle meglio? Non c’è definizione più imprecisa di sincerità.

− E allora?

− Tu ami Alice?

− Certo.


− E allora non dovresti condannarla come ha fatto Creonte con Antigone. L’innamoramento è una scintilla casuale; l’amore invece è un incendio volontario. Amare è vivere al quadrato. Nel tuo caso significa aver fiducia al quadrato.


− Non ci riesco, sono disorientato. Mi sento come un sasso di fiume che la corrente ha spostato in un altro luogo e si chiede: come sono giunto qui?

− Non ti ho ancora raccontato com’è andata a finire la storia di Antigone.

− C’è un seguito?

− Sì, perché poi Creonte capisce di aver sbagliato e ordina di liberarla.

− Meglio tardi che mai.

− Peccato che nel frattempo si fosse suicidata.

− Professore… Creonte amava Antigone?


− No, di Antigone era innamorato suo figlio, Emone. Hegel, però, approfitta di questa storia per riflettere anche sul contrasto tra la sensibilità maschile e quella femminile dell’epoca: Creonte incarna i valori sociali; Antigone quelli famigliari.


− E che fine fa Emone?

− Quando scopre che Antigone è morta si trafigge con una spada davanti al padre.

− Una punizione tremenda. E poi, che succede?

− Più niente. Creonte invoca la morte e la tragedia si conclude.

− Amare è vivere al quadrato, bene professore, mi piace tutto questo ottimismo: ma allora perché Alice sta puntando allo zero? Insomma, a che gioco sta giocando?


− Al gioco della fiducia.

− Si diverte però solo lei.

− Franz, continui a non capire la sua arte.

− Che c’entra ora l’arte? Professore, non stiamo parlando di un dipinto.

− C’entra, eccome. Una tela o un pezzo di marmo possono essere un’opera d’arte e una vita no? In ogni caso, ironizza pure quanto ti pare sull’ottimismo, ma non dimenticare che è un farmaco salvavita: seda l’ansia, quell’ansia che ti sta offuscando la mente.


− E allora, qual è conclusione di questo bel parlare?

− Kant condanna Alice. Per lui tu hai tutto il diritto di chiederle il perché del suo comportamento. Ne sei il compagno, e lei ha il dovere morale di darti una risposta sincera.

− Ben detto!

− Hegel invece difende la scelta di Alice, in quanto dettata da un impulso intimo, e come tale superiore a qualsiasi consuetudine.


− Insomma, professore: se Kant ed Hegel si fossero messi a discutere di morale sarebbero passati alle mani.

− Non ne sarei così certo. La storia reale di Maria von Herbert e quella ideale di Antigone finiscono allo stesso modo: con un suicidio. Può piacere di più la risposta di Kant o quella di Hegel, non cambia molto. Il suicidio sancisce il fallimento di entrambe le analisi.


− Per quale ragione?

− Perché la morale è strabica: con un occhio mira al bene dell’individuo; con l’altro a quello della collettività. Per questo vede tutto sfuocato.

− E allora che devo fare?

− Ascolta Franz: ci sono momenti nella vita in cui non possiamo fare a meno di porci delle domande, ma dobbiamo resistere dal cercare una risposta.


− E la verità?

− Il viale che conduce alla verità è un lungo percorso. E non c’è nulla di male se qualche volta ci sediamo su di una panchina, in attesa che anche lei faccia qualche passo verso di noi.

Franz guardò Oberosler con quell’intensità sospettosa che riservava al conto del ristorante.


− In conclusione penso due cose. La prima è che l’uomo è l’unico animale che si veste, che si vergogna della sua nudità. L’unico animale che si vergogna di se stesso.


− Mi sta dicendo che Alice si vergogna? E di cosa? Non è la tipa, glielo posso assicurare. Sarebbe capace di salire nuda su un carro di carnevale.


− Sarà come dici tu, ma in questo caso Alice si è nascosta, dunque c’entra la vergogna. Tutto qui.


− E la seconda cosa, professore?

− Te l’ho detta in tutti i modi, ma vedo che non l’hai colta. Posso andare giù di mannaia?

− Sì, certamente.

− O ami Alice, e le dai fiducia; o non la ami, e la condanni. Non esiste una terza possibilità.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO