capitolo 35

Nietzsche, Freud

Senza più il cielo della metafisica, non rimane che cercare la felicità sulla terra amando il proprio destino.

Chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo, sosteneva John Stuart Mill, uno che a dieci anni leggeva l’Iliade in greco e l’Eneide in latino, per dire quanto fosse sveglio il tipo.


Tutta colpa del dubbio, che ha la forza dell’edera: se si infiltra nelle crepe dell’anima fa crollare qualsiasi castello interiore, incantato o meno che sia.


Da quando viveva a Milano, Alice aveva trovato un maggiore equilibrio, la serenità insomma. Un tarlo però la tormentava: non aveva mai sperimentato quella sorta di impazzimento del corpo e della mente chiamata euforia. E se invece l’euforia fosse il trionfo della vita?


Certo, quando pensava al bambino che scalciava dentro di lei, un uragano di felicità le inondava l’anima. Si trattava però di una sensazione di benessere che non sfociava mai nell’euforia: sapere che sarebbe cresciuto senza mamma era un macigno sul cuore talmente pesante da non permetterle mai di lasciarsi andare.


Ora basta però! Vivendo da sola, le energie prima spese a fingere di star bene poteva indirizzarle a divertirsi. Era venuto il momento di coniugare il verbo della giovinezza: rischiare. Solo così avrebbe potuto sperimentare una felicità non imprigionata dalle sbarre della ragione.


Se non ora, quando? L’interrogativo la tormentava. Per farla breve, ciò che voleva era sperimentare almeno una volta nella vita quella sensazione lì, l’euforia di una foglia secca che d’autunno si stacca dall’albero e non sa dove andrà a cadere.


Milano è la città d’Italia che offre più occasioni per chi vuole uscire di testa. Era dunque nel posto giusto per provarci. Alice si fermò un attimo a riflettere: ma i pazzi sono felici?


Subito il pensiero corse a Nietzsche, il filosofo pazzo per eccellenza. Accese l’iPad e si connesse al sito dello stage. Oberosler l’aveva preceduta. Nella lezione, registrata qualche settimana prima, c’era la risposta alla sua domanda.


Un attimo. Alice raggiunse il letto e si sistemò con un paio di cuscini dietro la schiena per stare più comoda. Nietzsche meritava la massima concentrazione.


La pazzia, il demone di un cliché.


− Ogniqualvolta si parla di Nietzsche, dobbiamo prima scontrarci con il dilemma elaborato dai suoi critici per denigrarlo. È stata la sua filosofia a portarlo alla pazzia? O è dalla pazzia che è scaturita la sua filosofia?


Pregiudizi pericolosi ma illuminanti. Come in tutti i cliché anche in questo c’è un fondo di verità. A ben vedere, la filosofia di Nietzsche è pervasa da una lucida follia, che lo porta a scagliarsi contro tutte le convinzioni filosofiche e religiose con la furia di uno “sterminatore”: termine che doveva piacergli a tal punto da ritenere di discendere da una nobile famiglia polacca – cosa di cui non vi è alcun riscontro storico − di nome Nietzscki, che vuol dire “sterminatore”. E sterminatore di tutti gli “idoli della mente” Nietzsche lo fu davvero.


L’iPhone di Alice prese a squillare finché non si stancò. Da quando aveva cambiato numero, era diventato come un gioco che tieni per ricordo. Possedeva sempre la vecchia SIM dove c’erano i numeri di tutti quelli che conosceva. Ma non la utilizzava.


Nietzsche era uno che non aveva paura delle parole e dei pensieri; meglio non leggerlo prima di addormentarsi. Produce adrenalina.


La sua è una filosofia bipolare, come la malattia che lo tormentava. Significa che paradiso e inferno si alternano. Tutto è sottosopra. Questo è Nietzsche: uno che ama la filosofia e la rimprovera; crede nella filosofia e la deride.

Lo scontro tra Apollo e Dioniso.

− La prima e più importante opera di Nietzsche ha un titolo che può trarre in inganno: La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Ovvero: grecità e pessimismo. Qualcuno potrebbe scambiarla per un’opera specialistica indirizzata ad artisti, gente di teatro, musicologi, addirittura psicologi, per quell’accenno al pessimismo. E allora proviamo a dargli noi un titolo più esplicito: Quando la verità divenne falsità. Alle radici dell’inganno su cui si fonda la civiltà occidentale.


Secondo Nietzsche, nell’antica Grecia, 2500 anni fa, avvenne uno scontro tra due percezioni della realtà. Da un lato quella rappresentata da Apollo, il dio del giorno, della misura e della ragione; dall’altro quella rappresentata da Dioniso, il dio della notte, del caos e dell’irrazionalità. Si trattava di due percezioni della realtà entrambe vere?


No, perché mentre la luce del giorno mostrava un mondo falso, tutto ordine e armonia, il buio della notte con le feste dionisiache nascondeva quello vero, fatto di riti orgiastici durante i quali i partecipanti, ebbri di vino, si abbandonavano a ogni sfrenatezza sessuale. Accadeva pure che un uomo, in un primo tempo, e successivamente un capro, venissero sgozzati e divorati.


Quando i Greci scoprirono che la vita null’altro è se non ebbrezza, sesso e violenza rimasero traumatizzati. Allora corsero ai ripari inventando un’altra verità, quella tramandataci dall’arte classica con le sue armoniose forme architettoniche e le sue statue sorridenti degli dèi e degli eroi.


Sebbene il contrasto tra apollineo e dionisiaco fosse insanabile, con la nascita della tragedia greca i due aspetti comparvero accoppiati, tanto da produrre nello spettatore un effetto di eccitazione.


Prendiamo l’Edipo re. Una vicenda emblematica. Edipo, venuto a conoscenza di aver ucciso il padre e sposato la madre, si cava gli occhi: non vuole più vedere perché la verità è fonte di insopportabile sofferenza. Da qui il drammatico interrogativo a cui, secondo Nietzsche, prima o poi ognuno di noi deve rispondere:


Quanta verità sono in grado di sopportare?


Molta, pensò Alice, se i molestatori venissero appesi ai pali della luce. Il campanello aveva preso a strillare in modo isterico. Messo a tacere l’iPad, Alice andò alla porta. E apparve Esther, così, dal nulla, come se sbucasse da una scorciatoia temporale.


− Mamma, che ci fai qui?

− Tu piuttosto, che ci fai qui? Quanto a lungo pensavi avrei resistito a non vederti? Che fai, non mi inviti a entrare?

− Entra, entra.

− Carino questo posto.

− Come mi hai trovata?

− L’ospedale San Raffaele ha il tuo indirizzo e io quello del San Raffaele.

− Ma non esiste una cosa che si chiama privacy?

− Non per tua madre.

− Eri tu al telefono, prima?

− Certo. Volevo annunciarti il mio arrivo.

− Non ci posso credere.


− Guardando la tua cartella clinica, non ho capito se sei fuggita perché le cure non stanno funzionando o perché sei incinta.

− Oltre a darti il numero di telefono e l’indirizzo, ti hanno pure fatto vedere la mia cartella clinica?

− Sono tua madre, come te lo devo dire. E allora, sentiamo: questo bimbo non ha un padre?

− Certo.


− E non pensi che il padre debba essere informato? Mai sentito parlare di patria potestà?

− Mamma, non puoi piombare in casa mia e farmi l’interrogatorio.

− Cosa stavi facendo?

− Ascoltavo una lezione su Nietzsche, con lui il tempo vola, non ci si annoia.

− E allora continua ad ascoltarla. Io intanto mi sistemo da qualche parte. Ho portato un po’ di roba. Immagino che il tuo frigo sia vuoto.

− Tu non ti sistemi proprio per niente.


− Dai, finisci di fare quello che stavi facendo, intanto preparo qualcosa. È quasi l’una, l’ora di pranzo per le persone normali.

Alice si portò le mani alla testa; l’uragano Esther si era materializzato. No, meglio chiamarlo “mamma mia”, come l’esclamazione ossessiva degli Abba, gli dèi dell’adolescenza di sua madre.


− Secondo Nietzsche, nell’antica Grecia anche la filosofia fece la sua parte per rendere più sopportabile la verità. Protagonista di questa operazione fu Socrate. Fu lui a inventare l’anima. Ricordate? Per Socrate l’anima è la sede della ragione e della moralità, che si esprime nella capacità di intendere e volere. Ma se l’uomo dà retta all’anima, trascura il corpo. Questo è il momento della svolta: da Socrate in poi il corpo, con i suoi impulsi sessuali e violenti, ha un feroce padrone, la virtù, che gli impedisce di essere se stesso. Anche la maieutica di Socrate, l’arte d’interrogare l’interlocutore facendo emergere la verità, che cos’era se non il modo con cui Socrate faceva passare il suo messaggio: è bene solo ciò che è razionale?


E l’ironia? La prova di quanto Socrate fosse consapevole dell’inganno che il suo procedimento nascondeva: il bene infatti non esiste, è solo un concetto della mente.


In conclusione, secondo Nietzsche Socrate era un uomo che non amava la vita: per questo “volle morire”.

La verità prima di Socrate? Un’emozione.

− Prima di Socrate, la tradizione greca associava la verità a stati alterati della coscienza. Ne era un esempio il santuario di Delfi dove una sacerdotessa, la Pizia, entrando in trance balbettava frasi sconnesse, incomprensibili e ambigue. Ai sacerdoti spettava poi il compito di interpretarle trascrivendole in versi, poiché la poesia era ritenuta il linguaggio degli dèi.


Riti analoghi si svolgevano anche a Eleusi, dove i partecipanti ai riti, probabilmente per l’assunzione di sostanze allucinogene, avevano una potente visione che non consisteva “nell’apprendere qualcosa, ma nel provare delle emozioni”, racconta Aristotele.


Con Socrate, invece, la verità diventa razionale. Da allora, l’uomo è uno straniero sulla Terra.


− Un giorno – racconta Nietzsche − il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno senza prenderlo. Quando infine lo raggiunse, il re Mida gli domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, con stridule risa afferma:


Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile:
non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire al più presto.


− Secondo Nietzsche, Dio altro non è che la verità razionale diventata divina con il cristianesimo. Nel momento in cui però l’uomo scopre che è lui ad aver creato Dio, e non il contrario, Dio muore. E con Dio muore “la menzogna più lunga della storia”.


Con la morte di Dio crolla anche la metafisica, il credere cioè che oltre al mondo sensibile esista anche un mondo sovrasensibile, popolato da invenzioni della mente come la bellezza, la giustizia o il bene; e che questo mondo che ci sovrasta sia più importante di quello reale che ci circonda.


Senza più il cielo della metafisica, non rimane che cercare la felicità sulla Terra, amando il proprio destino. In che cosa può consistere la felicità di un’aquila se non nell’essere un’aquila? E quella di un agnello se non nell’essere un agnello? E anche tu, uomo, “divieni ciò che sei”, predica Zarathustra, il profeta in cui Nietzsche si immedesima. Divieni cioè un superuomo.


− Posso disturbarti?

− E me lo chiedi, mamma? L’hai già fatto.

− Ho cucinato dei ravioli del plin che ho portato da Torino. So che a Milano non si trovano facilmente.

− Va beh, dai, mangiamo. Hai portato anche il ragù?

− Ma che ragù, si fanno in brodo.

− E che brodo sia.


Il monolocale di Alice aveva una cucina che sembrava vergognarsi di esistere, tanto era schiacciata in un angolo. Sorda a tanto disagio esistenziale, una cappa con l’aria da astronave se ne stava lì, immobile, in attesa di uno slot libero per atterrare sui fornelli.


In mezzo alla stanza, un grosso tavolo osservava il resto dell’arredamento con la tracotanza di chi posteggia nei parcheggi riservati ai disabili.


A parte il divano letto, di quelli che i mariti fedifraghi conoscono bene, non c’erano spazi dove sistemare il computer e le altre cianfrusaglie. L’operazione richiese qualche minuto.


− Allora Alice, che fine farà questo bambino? Hai un piano? E se le cose dovessero mettersi male?

− Non lo so; quante domande! Dimmi tu, piuttosto: come sta Franz?

− È disperato, come vuoi che stia. Non capisce. Dice che tra voi andava tutto bene.


− Vero.

− E allora perché sei sparita?

− Perché volevo stare da sola. Mamma, ho poco tempo da vivere e non voglio sprecarlo.

− Stare con il padre di tuo figlio e ogni tanto vedere tua madre è tempo sprecato?

− Il problema è che mi avreste fatto una testa così.

− Parli del bambino?

− Certo.

− Ti sembra una scelta sensata?

− No, per questo sono fuggita.

− E non pensi a Franz?

− Più di quanto lui possa immaginare.

− Mi ha raccontato che per te aveva lasciato un’altra ragazza, Eleni.

− Non stavano insieme.


− Stavano però per farlo. E poi ricordati che i sentimenti sono come i fiori, si muovono costantemente alla ricerca di luce e calore. E tu sei un sole spento.

− Un’altra frase rubata dai libri del supermercato?

− Che c’entra. L’importante è che sia vera. Com’è vero che la solitudine uccide te e le persone che ti vogliono bene. Pensaci.

− Ascolta mamma, possiamo parlarne dopo? Oberosler stava spiegando una cosa interessante di Nietzsche.

− Cosa?

− Il concetto di superuomo.

− Posso ascoltare anch’io? Ti disturbo?

− Sì, ma fa lo stesso.

Il superuomo? Un fanciullo egoista.

− Il superuomo non è qualcuno che ha delle qualità particolari, diverse da quelle possedute da tutti gli altri mortali, ma uno stadio superiore dell’umanità. Quando questo stadio verrà raggiunto, l’uomo attuale sembrerà come una scimmia, “un ghigno o una dolorosa vergogna”.


Il superuomo è un fanciullo, in quanto vive la vita per quello che è: con gioia, libertà e spensieratezza, ubbidendo a una sola legge, la sua volontà. Il suo è un egoismo “sano e puro che sgorga da un’anima possente”, in quanto non è condizionata dalla morale. Perché proprio del superuomo è l’andare al di là del bene e del male, al di là cioè della “gabbia” in cui ci tiene prigionieri la morale.


Non bisogna dunque “nascondere la testa nella sabbia delle cose celesti, ma portarla fieramente, testa terrestre, che crea il senso della terra”, predica Zarathustra. E aggiunge: “Siate fedeli alla terra e non crediate a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene. Essi sono manipolatori di veleni”.

Il tempo è lineare o circolare?

− Nietzsche passò l’estate del 1881 in Svizzera, nella valle dell’Engadina, dove si trova il bellissimo lago di Silvaplana. è agosto, e Nietzsche passeggia lungo le sue rive. A un certo punto si siede su una pietra per riposarsi. Lì ha la visione del “più abissale” dei suoi pensieri: l’eterno ritorno. Intuisce cioè che il tempo non è lineare, ma circolare; non si muove verso un fine, come pensava Agostino, ma senza fine. Dunque quello che accade non accade una sola volta, ma un infinito numero di volte. Una prospettiva tanto affascinante quanto spaventosa.


− In realtà, l’idea della circolarità del tempo non era del tutto nuova (già i Greci ne parlavano, così come è presente nella cultura di molte civiltà), ma Nietzsche ne dà un’interpretazione esistenziale.


Pensateci: dire che la vita non ha un fine significa dire che non ha senso. Se non c’è alcun premio per le nostre azioni, perché dovremmo impegnarci a vivere moralmente?


Per millenni abbiamo creduto agli dèi, mentre gli dèi eravamo noi. Come loro viviamo nell’eternità del tempo. E a loro non verrebbe di certo in mente di sacrificare il presente per un futuro migliore.


Esther ragionava come chi è abituato a fare la spesa il sabato per tutta la settimana. Amava cioè avere una visione d’insieme. Ogni cosa doveva rapportarsi al tutto, mentre il carrello della filosofia di Nietzsche si stava riempiendo senza criterio. Nessun filo logico univa i vari argomenti. Una spesa fatta così non serve a nulla. Ti ritrovi con tante cose, ma al momento buono ti manca quello di cui hai bisogno.


Le filosofie parlano dei filosofi. Quella di Nietzsche raccontava di un uomo il cui buon senso aveva cambiato senso. Uno che usava il linguaggio scultoreo della chiarezza e quello abbagliante del paradosso. Si può stare cento anni a leggere e rileggere Nietzsche senza conoscerlo del tutto. Si scopriranno sempre angoli inattesi.

L’unico amore, Lou Salomé.

− Quando la conobbe nell’aprile del 1882, Lou Salomé era una bella ragazza di vent’anni, intelligente e colta. Nietzsche ne rimase subito folgorato, tanto che le prime parole che le rivolse furono: “Da quale stella siete caduta affinché ci potessimo incontrare qui?”.


Gliel’aveva fatta conoscere l’amico Paul Rée. Di diciassette anni più giovane di Nietzsche, Lou era uno spirito libero che non amava vincoli formali. Di conseguenza respinse la proposta di matrimonio che sia Paul sia Nietzsche le fecero. Propose però loro una convivenza fondata sull’amicizia e sulla consonanza degli ideali. Un ménage à trois filosofico, per intenderci. Durante i loro viaggi per l’Europa, solo una volta Lou e Nietzsche rimasero da soli, nel corso di una gita nella cittadina di Orta, al termine della quale il filosofo tornò nuovamente alla carica proponendole di sposarlo, ma venne ancora respinto.


Nietzsche allora si allontanò dai due, che continueranno a convivere per altri cinque anni, entrando in una profonda depressione, tanto da scrivere: “Se non riesco a inventare l’espediente alchemico per trasformare anche questo fango in oro, sono perduto”.


Un fallimento, pensò Esther. Ecco il risultato del vagare di Nietzsche da un reparto all’altro del supermercato dei problemi umani senza costrutto.


− Qualcosa non va, mamma?

− Lascia stare. Andiamo avanti.


Nulla è più malsano della compassione cristiana.


− Come Rousseau, Nietzsche non sopportava il cristianesimo, e come Rousseau stimava però Cristo: “è esistito un solo cristiano − scrive Nietzsche − ed è morto in croce”; e ancora: “Cristo negava tutto ciò che oggi viene definito cristiano”.

Nulla è più malsano − osserva Nietzsche − della compassione cristiana”. E con disprezzo aggiunge: “Il Dio cristiano è la divinità degli infermi”, “un Dio degenerato fino a contraddire la vita, invece di esserne la trasfigurazione e l’eterno sì. In Dio è dichiarata l’inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere.
Dio, la formula di ogni calunnia dell’aldiquà, di ogni menzogna dell’aldilà.
La volontà di potenza? Uno slancio creativo.


− Alle virtù del cristianesimo Nietzsche contrappone le virtù della terra, come la fierezza, la gioia, l’amicizia, l’amore, la salute; tutte virtù che scaturiscono da quella terrestre energia vitale che Nietzsche chiama volontà di potenza.


“Che cosa ti dice la tua coscienza? Divieni ciò che sei”. Perché ciò che fa di te un uomo è il tuo essere vanitoso, egoista, desideroso di godimento.


Spirito veramente libero è soltanto colui che è se stesso, non colui che si fa condizionare da verità inventate da qualcun altro, come Cristo.


Ma per raggiungere questo risultato occorre volerlo con tutti se stessi, occorre quella forza che Nietzsche chiama “volontà di potenza”, un impulso che ci spinge a essere quello che veramente siamo: quell’impulso presente nell’edera che si arrampica, nel ragno che tesse la tela e nell’uomo che scrive un libro.


In buona sostanza, la volontà di potenza consiste nell’affermare se stessi, e non va quindi confusa con la volontà di dominare sugli altri.

I biglietti della follia.

− Nietzsche giunse a Torino nella primavera del 1887 e si innamorò della città. Vi ritornò nel 1888. Di pomeriggio si recava in via Po al caffè Fiorio, dove scrisse la prima parte di Ecce Homo.


Il 3 gennaio 1889 ebbe la prima crisi di follia in pubblico: un pomeriggio, mentre si trovava in piazza Carlo Alberto, vide fustigare dal cocchiere il cavallo di una carrozza. Istintivamente abbracciò l’animale e pianse, poi si buttò a terra urlando in preda agli spasmi.


Nei giorni seguenti prese a scrivere quelli che vengono chiamati i “biglietti della follia”, lettere che indirizzò ad amici, conoscenti e anche regnanti europei, firmandosi come “Dioniso” oppure “Il crocifisso”.


La più drammatica di queste lettere la inviò a un collega di Basilea, Jacob Burckhardt, celebre autore di Civiltà del Rinascimento, dal contenuto chiaramente delirante: “Caro signor professore, alla fine sarei stato molto più volentieri professore basilese che Dio, ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo da omettere, per causa sua, la creazione del mondo”.


Burckhardt non perde tempo. Informa il collega, Franz Overbeck, che il suo amico Nietzsche è impazzito. Overbeck si reca a Torino, dove trova Nietzsche che suona il piano. Si abbracciano e piangono.


Poi lo carica sul treno e lo porta prima a Basilea e poi a Jena, in manicomio. Da allora Nietzsche vivrà in uno stato di decadenza psichica e fisica fino alla morte, avvenuta nel 1900, circa dieci anni dopo.


Ma di che cosa soffriva Nietzsche? Stando ai medici che lo ebbero in cura, era affetto da sifilide, malattia che conduce alla pazzia. Alcuni biografi ritengono che Nietzsche l’avesse contratta durante una gita goliardica a Colonia nel 1864, pare nell’unica sua visita a un bordello.


Non tutti però sono d’accordo con questa diagnosi: i sintomi descritti dai medici di Berna e Jena sono compatibili anche con altre malattie, come un tumore cerebrale, una demenza frontotemporale o qualche rara malattia ereditaria.


Esther mormorò qualcosa.

− Che dici mamma?

− Che Nietzsche è impazzito perché ha amato troppo la verità, ed è stato punito.

− Questo è quello che pensi?

− Sì, qualcosa del genere.


Esther non aggiunse altro, ma se avesse avuto più cultura filosofica, avrebbe chiamato in causa Atteone, mito greco utilizzato da Giordano Bruno come metafora di chi cerca la verità.


Atteone, valentissimo cacciatore, mentre insegue un cervo vede Diana nuda riflessa in uno specchio d’acqua. Adirata, la dea lo trasforma in un cervo. Poi aizza contro di lui i suoi stessi cani, che lo inseguono e lo sbranano.


Stessa sorte si può dire sia capitata a Nietzsche: da cacciatore divenne il cacciato e punito con la pazzia.


La scoperta dell’inconscio:
Schopenhauer, Nietzsche, Freud.


− Nella sua Autobiografia, Freud racconta di aver letto Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer solo dopo che la sua teoria si era già ampiamente sviluppata. Rimase quindi assai meravigliato delle coincidenze tra il suo pensiero e quello di Schopenhauer.


Nell’Introduzione alla psicoanalisi del 1932, Freud è ancora più esplicito: “Forse scrollerete le spalle: questa non è scienza della natura, è filosofia, è la filosofia di Schopenhauer. E perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver indovinato ciò che una spassionata e faticosa ricerca di dettagli conferma? E d’altronde, tutto è già stato detto una volta.”


Per quanto riguarda invece Nietzsche, Freud scrive: “Per molto tempo ho evitato di leggere Nietzsche, altro filosofo i cui presentimenti e le cui intuizioni coincidono sovente, in modo sorprendente, con i laboriosi risultati della psicoanalisi”.


Le intuizioni filosofiche di Schopenhauer e Nietzsche le ritroviamo dunque espresse, per ammissione dello stesso Freud, in una nuova disciplina, la psicoanalisi, l’analisi della psiche, come i Greci chiamavano l’anima.


Freud scoprì che oltre alla parte cosciente della psiche, l’Io razionale, ve n’erano altre due inconsce: l’Es e il Super-Io. Il suo è un pensiero verticale, di quelli che fanno venire le vertigini.


Possiamo immaginare l’Es come un “calderone di eccitamenti ribollenti” in cui non vi è né bene, né male, né regole morali, né leggi logiche. Insomma, sembra di sentire Nietzsche parlare di Dioniso o Schopenhauer della “volontà”.


Il Super-Io è invece la “coscienza morale” di un individuo: si tratta di tutte quelle regole instillate nell’individuo dai genitori e dagli educatori nei primi anni di vita; un insieme di valori che lo accompagneranno e lo condizioneranno in quelli successivi, non solo consciamente ma anche inconsciamente.


Di conseguenza l’Io, inteso come la parte razionale della coscienza, è servo di tre padroni: l’Es, che lo spinge a soddisfare le pulsioni irrazionali; il mondo esterno, che lo richiama alla dura realtà e alle regole di convivenza; infine il Super-Io, che lo punisce in quanto svolge la funzione di giudice. Nulla di più facile quindi che l’Io fallisca la prova. Allora l’individuo viene assalito dall’angoscia, quel sentimento di ansia e apprensione presente in tutte le malattie psichiche.


Ma come si accede all’inconscio? Secondo Freud attraverso le parole, nel senso che le parole, liberamente associate, consentono di far emergere a livello cosciente i traumi del passato. Per farla breve, “le parole guariscono”, sono una medicina, come già sosteneva Epicuro, secondo cui quell’insieme di parole chiamato filosofia ci libera dalle paure che ci impediscono di vivere una vita piacevole.


Esther era stupita. Freud le aveva dato la password per entrare nel sistema filosofico di Nietzsche: l’inconscio. Di questo parlava la sua filosofia, dell’inconscio dell’umanità da cui è scaturita la cultura occidentale.


− Insomma, se lo si prende dal verso giusto, Nietzsche appare un filosofo creativo, i suoi pensieri generano altri pensieri. Da lui impari che la filosofia non è un sapere specifico, ma un costante esercizio critico.


Una delle cose più piacevoli della vita è stupirsi di se stessi. E se c’è uno capace di suscitare questa sensazione è Nietzsche. Siamo tutti filosofi, con Nietzsche ne prendiamo coscienza.


La filosofia di Nietzsche è dunque liberatoria?


− Certamente. Ci sono filosofie che sembrano dei balsami: spalmati sull’ego hanno un effetto blando ma immediato. Altre filosofie funzionano invece come dei farmaci: ci vuole un po’ di pazienza, l’effetto positivo lo si avverte nel lungo periodo. Infine ci sono delle filosofie che operano senza anestesia. Quella di Nietzsche è una di queste: il bisturi delle sue provocazioni affonda fino all’osso nella carne delle nostre convinzioni, svelandone l’intima natura. Scopriamo così che viviamo secondo valori che ci hanno tramandato, solo perché ce li hanno tramandati.


Nel momento tuttavia in cui la nostra anima abbraccia quella di Nietzsche, ecco che Zarathustra ci appare per quello che è: un profeta senza seguaci. Il controllo delle pulsioni di vita e di morte, come insegna Freud, è il fondamento della civiltà, l’inevitabile prezzo che dobbiamo pagare per non tornare a essere dei bestioni che si inseguono con una clava.


Diciamolo dunque senza peli sulla lingua: non possiamo divenire ciò che siamo, per la semplice ragione che nel profondo di noi alberga quel “calderone di eccitamenti ribollenti”, l’Es di Freud, che non conosce né il bene, né il male, né le leggi della morale o della logica.


Vi immaginate che cosa succederebbe se tutta l’umanità desse libero sfogo alla propria volontà di potenza, al proprio egoismo fanciullesco, a quell’euforia che null’altro è se non la totale perdita di controllo di se stessi?


Per farla breve, quello che penso da vecchio professore qual sono è la stessa conclusione a cui sono giunti gli antichi stoici:


La felicità non è di questo mondo, ma se sei intelligente puoi vivere bene.


− Una verità semplice, come piacerebbe a Ockham, poco eccitante, avete ragione, persino banale, sono d’accordo, ma non vedo alternative. Una cosa comunque è certa: non siamo nati per asciugare gli scogli. Abbiamo una vita sola, viviamola per quello che è e per quello che siamo. Questo mi piace di Nietzsche.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO