capitolo 3

Solipsismo e possibilismo

E se il mondo fosse la proiezione della nostra confusione mentale?

Franz uscì di casa in modalità “ragazza dai capelli color fuoco e basta”; direzione centro. Giovedì, finalmente. Giorno libero, anche di vaneggiare. Chissà, magari ripensando al loro incontro, quell’angelo-femmina caduto dal cielo si sentiva come un benzinaio senza benzina, un panettiere senza pane o un macellaio senza carne. E lui era la benzina, il pane o la carne. Poteva essere, perché no?


Diciamola tutta: dopo il bacio, la ragazza dai capelli color fuoco si era infilata nei suoi sogni, ma non era scappata, era solo corsa a prendere un treno che stava partendo. Succede. Anche a lui era accaduto di non poter salutare come si deve. A chi non capita? Stiamo parlando di un bar della stazione: teniamolo presente. No, doveva porre un freno al suo vaneggiare ossessivo.


Camminare produce pensieri, dicevamo. Allora cammina Franz, cammina, cammina, perché tra i pensieri ci sono le soluzioni. Non smettere mai di cercare quello che ti può rendere felice. La vita premia i testardi, quelli che si riposano solo alla meta.


Attraversando piazza Carlo Felice, la sua attenzione venne improvvisamente catturata dalla vetrina di un’agenzia di viaggi in cui al centro campeggiava la scritta:


Il mondo non esiste. È una tua invenzione.
Scoprilo, e scoprirai te stesso.


Tutt’intorno al testo, una serie di immagini di località giudicate imperdibili erano accostate con sadico gusto: si andava da una spiaggia caraibica popolata da ragazze vestite di sole che aspettavano te per essere felici, a una discarica a cielo aperto di Nairobi popolata da pantegane grandi come gatti. Chi aveva allestito quella vetrina doveva ritenere una genialata approcciarsi all’immaginario collettivo con il garbo di Jack lo Squartatore.


Franz non si lasciò distrarre dalla scena e si concentrò sulla scritta. Certo, il riferimento filosofico era chiaro. Si trattava di solipsismo. I fiori della filosofia dedicavano all’argomento un paio di pagine, che gli erano servite da sonnifero qualche sera prima.


Secondo il solipsismo siamo “soli” al mondo; tutto quello che ci circonda altro non è che una nostra invenzione. Franz sgranò gli occhi. Il mondo sembrava proprio la proiezione della sua confusione mentale. Gran bel guaio il solipsismo: al mondo c’era solo lui che parlava con se stesso di se stesso.


Proseguendo per via Roma, in un angolo vide un barbone disteso a terra con accanto un possente cane dagli occhi miti che faceva la guardia a un cartone con su scritto:


Non ce la faccio più, fin qui ho fatto tutto io, ora tocca a voi.


Con una smorfia di disgusto, tutti tiravano dritto accelerando il passo. Il tanfo di vino e urina di cui erano impregnati i vestiti del barbone era insopportabile. Facendo appello al coraggio delle grandi occasioni, Franz si fermò a osservare la scena. E se quel barbone, di certo amico del sociopatico che aveva allestito la vetrina dell’agenzia di viaggi, avesse scritto il vero? E se davvero il mondo fosse la proiezione del suo caos mentale? Perché non prendere in considerazione questa ipotesi? Eppure ai più fa solo sorridere. Se ne parli, la gente ti guarda con la commiserazione che si riserva ai diversamente intelligenti.


Franz prese ad agitarsi, doveva intervenire, dire la sua, fare qualcosa. Immaginandosi avvocato difensore del solipsismo in un’aula di tribunale, nella sua testa rimbombò quest’arringa:


C’è qualcuno tra voi signori della corte che trova un senso nel nascere, vivere, gioire un po’ (se ti va bene), soffrire come bestie (questo è certo) e poi morire senza che nessuno ti spieghi (se non invitandoti a credere ciecamente in quello che dice) perché sei finito su questo pianeta, un frammento di roccia che rotola da qualche parte in uno sterminato universo di cui non sappiamo praticamente nulla?


L’umanità è come quella famiglia numerosa costretta a vivere in un monolocale (la Terra), circondato da miliardi e miliardi di appartamenti (le stelle e i pianeti) che fanno parte di miliardi e miliardi di quartieri con palazzi giganteschi (le galassie), tutti vuoti, senza vita. Da non credere: tutti vuoti, senza vita. Solo il calcolo delle probabilità ci dice che, forse, ma dico forse, qualche altro monolocale è abitato, o lo è stato, o lo sarà.


Dunque, la teoria solipsista non è più strampalata di questo strampalato universo. Ma se ha un senso, ci rimane ancora un dubbio: quanto bisogna essere fuori di testa per inventare un universo così?


Chi infatti costruirebbe tutte le case del mondo (il conto è per difetto) per poi rendere abitabili solo pochi metri quadri?


Come se non bastasse, fra cinque miliardi di anni il Sole si spegnerà e la temperatura sulla Terra scenderà fino a 160 gradi sottozero. Ma già fra tre miliardi di anni le cose incominceranno ad andare male. Invecchiando, il Sole sprigionerà così tanta energia da far bollire gli oceani. Terminata anche questa bella esperienza, il nostro monolocale sarà una bara ghiacciata che vaga nel nulla.


Che l’universo possa essere la proiezione del caos mentale di questo barbone alcolizzato è un’ipotesi che non va scartata. Per niente.


Via Roma con i suoi portici di marmo lucido attira quella parte di torinesi che si ritiene immortale. Per chi come Franz non aveva un soldo, era rilassante passeggiare tra le sue vetrine. Tanto non avrebbe comprato nulla. Ma per chi può comprare ciò che vuole dev’essere una vera tortura. Tra una borsa che costa come un’auto o un gioiello che vale quanto una casa, non sai proprio che cosa scegliere. Non è facile la vita dei ricchi. Un po’ di solidarietà, dai.


Con questi pensieri, Franz svoltò in via Principe Amedeo. Fatti poi alcuni passi, si trovò in piazza Carignano. Una ragazza cantava in una lingua sconosciuta. Franz sentì il cuore battergli nel collo. La guardò meglio: aveva i capelli neri. Non era l’angelo-femmina che il suo vaneggiare ossessivo stava cercando. Si avvicinò e incrociò il suo sguardo.


Intorno alla ragazza si era formato un capannello di gente il cui ricambio era continuo. Più in là c’era una panchina libera. Si sedette. Accomodò gli occhi all’infinito e immaginò che quella ragazza fosse lei, l’angelo-femmina caduto dal cielo, la ragazza dai capelli color fuoco, la sua ragazza. Peccato. C’era qualcosa nell’universo che faceva sì che gli andasse tutto storto. Mai che accadesse quello che desiderava, e tantomeno quando lo desiderava.


Non capendo le parole, Franz si lasciò sedurre dalla melodia. Così, inceppatasi la mente, l’ascolto si trasformò in una sorta di ipnosi e cadde in trance. Succede anche ai bambini con la ninna nanna. Rincuorati dalla voce della mamma e dal dondolìo della culla, più che addormentarsi, vanno in trance. Davvero. Si tratta di un fenomeno naturale che può verificarsi nei contesti più diversi. È così che due ore di un concerto diventano due minuti.


L’ipnosi durò finché la ragazza non smise di cantare. Solo allora Franz rialzò la testa. Due occhi neri che luccicavano come perle appena lustrate lo stavano fissando. Il viso, irregolarmente simpatico, era incorniciato da capelli ricci anch’essi di un nero luminoso.


− Allora, ti è piaciuto il mio concerto?

− Sicuro.

− Posso essere indiscreta?

− Prova.

− A cosa pensavi?

− Niente, a tante cose.

− Ho capito. Ascolta. Da quando sei arrivato, sono passate circa due ore. Ti sei divertito?

− Molto, sei brava.

− E non credi che queste due ore abbiano un costo?

− Che vuoi dire?

− Che mi devi una birra.

− Davvero?

− Certo. Ho una sete terribile. Qui dietro c’è un pub, ci andiamo?

− Okay − balbettò Franz, pensando ai dieci euro che aveva in tasca. Potevano bastare per un paio di birre, ma guai a prendere qualcos’altro.


In quel suo primo pomeriggio libero da quando lavorava al bar, tutto si aspettava meno che un’artista di strada lo invitasse a bere una birra. Probabilmente anche questo faceva parte del sogno solipsista del barbone alcolizzato.


Il locale era un vero pub inglese, anzi scozzese, con tanto di gonnellino sfoggiato con ironico orgoglio dai camerieri. I due si accomodarono su un divanetto dietro a un tavolino di legno massiccio. L’atmosfera sapeva di casa di campagna con il pavimento che scricchiola. Alle pareti, al posto dei quadri, c’erano schermi televisivi che trasmettevano a getto continuo video Mtv.


− Come ti chiami?

− Eleni, e tu?

− Franz. Che cosa cantavi?

− Canzoni greche.


La conversazione andò avanti per un po’ senza succo, come accade tra persone che non si conoscono. Esaurite tutte le possibili banalità, Eleni si fece seria.


− Allora, che cosa mi racconti? La tua storia, intendo.


A Franz sfuggì un sorriso. Non si aspettava una svolta così brutale nella loro conversazione.


− Io non ho nulla da raccontare.

− Come sarebbe a dire?

− Nelle storie ci sono avvenimenti, intrecci complessi, colpi di scena; io invece sono nato, non ci ho capito niente ed eccomi qui.


Gli occhi di Eleni s’intrufolarono nel suo animo in modo così sfacciato da metterlo a disagio.


− Che c’è?

− No, niente.


Franz si divincolò con fatica da quello sguardo. Poi si ricordò di una considerazione che apparteneva al repertorio di suo padre. Se qualcuno ti pone una domanda, probabilmente è quella che vorrebbe sentirsi fare.


− E tu? Ce l’hai una storia?


Gli occhi neri di Eleni tornarono a brillare. Centro! E raccontò di essere figlia di due sordomuti greci che a forza di esercitarsi erano diventati cantanti lirici, mamma soprano e papà tenore. Capitati per caso in Italia, avevano formato una loro compagnia teatrale. Il pezzo forte era La vedova allegra, che cantavano in greco o in italiano tutte le volte che potevano. Quindi era cresciuta a pane e musica. Ora i suoi stavano partendo per gli Stati Uniti, dove avrebbero fatto il giro delle comunità greche e italiane nostalgiche dei bei tempi andati, mentre lei ne avrebbe approfittato per fare un provino a Hollywood, dove c’era un produttore impaziente di fare un film sull’epopea della sua famiglia...


− Boom − sbottò Franz, accendendo finalmente il cervello. − Non stai esagerando un po’?

−E allora? Vuoi che ti racconti la mia vera storia, così cadiamo in letargo tutti e due?

− È tanto noiosa?


− Fai tu. Mio padre è venuto a Torino per studiare medicina. Per tirar su qualche soldo, faceva il cameriere in un ristorante greco; mia madre era la figlia del padrone del locale. Quando sono nata io, mio padre ha smesso di studiare. Ora lavora per una casa farmaceutica.


− Beh, sai che c’è. Mi piace questa storia, di certo più di quell’altra. Immaginare una bambina costretta ad assistere in continuazione a La vedova allegra, quello fa piangere. Vieni spesso qui a cantare?


− Dipende. Quando mi gira.

− Perché lo fai?

− Mi piace entrare nei sogni della gente.

− E come sai che ci entri?

− Lo vedo dagli sguardi persi nel nulla, come nel tuo caso.

− Perché canti in greco? Hai un italiano limpido, senza accenti.

− Così, una scelta d’istinto. Probabilmente il mio inconscio è greco.

− E quando non canti che fai, Eleni?


− Studio medicina, continuo il percorso di mio padre. Se non ci riuscirò io ci proverà mio figlio. Prima o poi qualcuno della famiglia diventerà medico e porrà fine a questa ossessione.


− Sei una tipa scientifica, non l’avrei mai detto.

− E tu?

− Lavoro in un bar.

− Quale? Magari ti vengo a trovare.

− Il bar della stazione di Porta Nuova, quello vicino alla vecchia biglietteria.

− Non ti va di studiare?

− Sono ancora iscritto ad astronomia, ma c’è troppa matematica.

− E ora che intendi fare?

− Trastullarmi con la filosofia, mi intriga. Ma niente di serio.

− Da tanto lavori come barista?

− No, in realtà sto cercando una ragazza dai capelli color fuoco, molto rossi voglio dire.


− E la cerchi lavorando in un bar?

− Sì.

− Dai, racconta.

− Ho incontrato questa ragazza proprio lì, dove lavoro ora. Ci siamo sorrisi e baciati.

− Così, all’improvviso?

− Sì, è stato un attimo. Un flash. Poi mi sono distratto parlando con il barista e lei è sparita.

− Davvero?


− Certo. Da allora la penso in continuazione. Tra un po’ la mia testa esploderà. L’unica speranza di ritrovarla è che torni in quel bar. Per questo lavoro lì.

− Allora sei fortunato, sai che cosa fare nella vita.

− E tu non lo sai?

− Lo so, lo so, non ti preoccupare. Per esempio, so che ora devo andare. Questa sera ceno con un mio amico cubano.

− Un amico cubano?

− Sì, che non vedo da un po’.

− E…


− Facciamo così, niente numero di telefono. Se tu vuoi vedermi mi vieni a cercare in piazza Carignano dove canto; se invece voglio vederti io vengo a trovarti al bar. Che ne dici Franz?

− Affare fatto.

− Ora però scappo, sono in ritardo. Grazie per la birra!

− Okay, ciao!


Eleni era una possibilista, nel senso che si comportava come quell’uccellino posato su un fragile ramo di cui parla Victor Hugo. L’uccellino sente che il ramo può cedere da un momento all’altro, ma continua a cantare perché sa di avere le ali.


Una roulette russa, lo stile di vita possibilista: consente però di mettere da parte più ricordi che rimpianti. Saper cogliere l’aspetto intrigante delle circostanze a costo di lasciarci le penne. È questo il solo modo per salvarsi dalla condanna del giudice più feroce che ci sia: tu stesso, quando sarai seduto su una panchina di una casa di riposo con gli occhi persi nella nebbia del passato.


In amore il possibilismo di Eleni si traduceva nel dare a tutti coloro che le piacevano, anche solo un po’, una chance. A ben pensarci, una strategia per nulla avventata: l’amore che cresce nel tempo è come un fiume che sgorga da una piccola sorgente per poi ingrossarsi sempre più lungo il tragitto. Ha quindi più possibilità di durare nel tempo dell’amore che divampa da un colpo di fulmine, un incendio per sua natura instabile, anche se non gode di buona fama presso i romantici.


Fino ad allora, tuttavia, Eleni non era stata molto fortunata. Le dichiarazioni d’amore eterno dei ragazzi che aveva incontrato si erano sempre dimostrate solo libidine che tracimava. Null’altro. E senza quell’altro la relazione era insipida. Mancava di sale. Così lei poneva fine alla storia con classe e fiducia nel futuro. Chi non dimentica il primo amore non conoscerà mai l’ultimo, per dire come ragionava.


Franz la incuriosiva. Tutto qui. Un possibile amico, o chissà. Certo, la storia della ragazza incontrata al bar costituiva un ostacolo. Il cuore di Franz era in overdose per lei. In ogni caso, nella geografia dei suoi amori mancava un tipo così e quel ragazzo meritava una possibilità.


Dopo aver salutato Eleni, Franz tornò in modalità “ragazza dai capelli color fuoco”, ma senza più quel soffocante “e basta”. Ora aveva un’alternativa a cui pensare. Un sollievo per il suo immaginario sentimentale che dava a Eleni il benvenuto a bordo.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO