capitolo 36

Bergson

Chi vive il tempo della scienza è uno schiavo, una povera vittima dell’orologio e del calendario.

Fateci caso. L’umanità si divide tra quelli che hanno tempo e quelli che non ce l’hanno. E il tempo non c’entra nulla; dipende dallo stile di vita.


Quelli che hanno tempo vivono il tempo di Dio, “l’eterno presente”, come lo definisce Agostino; quelli che non lo hanno vivono “il tempo della morte”, per dirla con Heidegger, nel senso che vivono in una continua tensione verso qualcos’altro, e il qualcos’altro di tutti i qualcos’altro è la morte.


Che lo sappiano o no, quelli che hanno tempo la pensano come Henri-Louis Bergson, secondo cui c’è il tempo della scienza e quello della coscienza: due modi opposti di definirlo.


Il tempo della scienza è quello dell’orologio e del calendario, quello dei secondi, dei minuti, delle ore che diventano giorni, settimane, anni, secoli eccetera. Un tempo che si ripete ciclicamente in modo sempre uguale. Le otto del mattino sono sempre le otto del mattino, che sia inverno o estate, che uno abbia mal di denti o no, mille anni fa come oggi.


Il tempo della scienza è immobile, come se il movimento di un treno venisse descritto con le foto delle stazioni in cui si ferma.


Ma se il tempo non ha a che fare con i numeri, che cos’è?


Un fluire di stati d’animo.


Così lo percepiamo nella coscienza. Quanto impiega il suicida che si getta dall’ultimo piano di un grattacielo a sfracellarsi al suolo? Pochi secondi per la scienza; una vita intera per la coscienza, quella che rivive mentre l’aria lo accarezza accompagnandolo verso la morte.


Che le cose stiano così ce lo rivela anche il linguaggio. Non diciamo forse che quei tre minuti ci sono sembrati un’eternità? O che dieci anni sono passati in un attimo?


In pratica, mentre il tempo della scienza è simile a una collana di perle tutte distanziate tra loro in modo uguale, quello della coscienza assomiglia a un gomitolo tutto attorcigliato.


Un ultimo esempio. Che cos’è una melodia? Tante note che si susseguono. In quale modo le percepiamo? Come un’unica emozione. Quanto dura questa emozione? Non lo sappiamo.


Nessuna emozione è mai uguale a un’altra.


Vivere il tempo della scienza o quello della coscienza non è la stessa cosa. Solo chi vive il tempo della coscienza è un uomo libero, mentre chi vive il tempo della scienza è uno schiavo, una povera vittima dell’orologio e del calendario.


Il nonno di Franz nulla sapeva di Bergson. Era però un uomo libero, non solo adesso che era vecchio, ma da sempre. Lo potevi incontrare a tutte le ore e in tutte le situazioni. Non aveva mai fretta. Si fermava e ti ascoltava come se l’ascoltarti fosse lo scopo della sua vita. Aveva tempo.


Di recente, Franz aveva manifestato al nonno il desiderio di incontrarlo. L’argomento era complicato, e non poteva andare fino a Mongardino.


Che un vecchio residente a Villa Pinuccia trovasse qualcuno che lo accompagnasse a Torino era già difficile, che poi lo riportasse indietro sapeva di barzelletta. Ma quell’uomo amava il salto a ostacoli, e ce l’aveva fatta.


Siamo abituati a costruire il futuro a partire dal disagio che viviamo nel presente. Pochi indizi ci aprono nuovi orizzonti, se il disagio non diventa un siero paralizzante. E lo stallo con Alice ne aveva tutta l’aria. Questo temeva Franz.


Non è facile rovistare nel Super-Io degli altri, ma è l’unico modo per capirci qualcosa.


Il nonno si sentiva un attore di un vecchio film, Lo spaccone, con Paul Newman. Non perché si ritenesse la fotocopia di Eddie Felson, il talentuoso giocatore frenato solo dal suo pessimo carattere, ma perché ammirava Minnesota Fats, il rivale.


Dopo una notte passata a giocare a biliardo, a bere whisky e a perdere, Minnesota Fats chiede una pausa. Sfottendolo, Eddie Felson gliela concede.


Al suo rientro, Minnesota Fats si presenta sbarbato, profumato, rilassato come un bambino che ha dormito tutta la notte tra mamma e papà. E vince.


Così era il nonno. Se avesse fatto l’allenatore sarebbe stato di quelli che urlano in continuazione:


Non arrenderti mai.
Rischi di farlo un attimo prima della vittoria.


Quando Franz arrivò in piazza Statuto, il luogo dell’appuntamento, trovò il nonno intento a osservare i piccioni con quegli occhi pieni di sogni che hanno i bambini quando li rincorrono.


Ogni tanto si alzava aggrappandosi alla spalliera della panchina, per poi compiere un movimento dei piedi che ricordava un giro di valzer, alla ricerca di qualcosa che solo lui vedeva nei palazzi della piazza. Il gioco di prestigio di un attimo. Poi i sogni si spegnevano nel suo sguardo e tornava a sedersi sulla panchina.


A guardarlo con attenzione, appariva meno arrugginito di qualche mese prima, quando Franz l’aveva incontrato a Mongardino, meno incerto sulle gambe nel trascinare il peso dei suoi anni. Un miglioramento che però non c’entrava con l’estratto di alga Klamath che aveva preso a ingerire per compiacere il vicino di letto. Talvolta la vecchiaia si stanca dei suoi soprusi, e molla un po’ la presa. Tutto qui.


In ogni caso, Torino era per lui fonte di eterna giovinezza, nel senso che riportava le lancette del suo umore agli anni dell’università, quando frequentava il Politecnico. Con fatica. Perché il nonno apparteneva a quella categoria di persone a cui risulta impossibile fare qualcosa che viene loro imposto. E una legge universalmente nota recita che, qualsiasi percorso universitario si scelga, le cose imposte sono sempre superiori a quelle che si vorrebbero trovare. Ma c’era riuscito.


L’innesco aveva anche un nome: Giovenale, il padre di Franz, l’inaspettato regalo dei versi del grande poeta latino. Per lui aveva limato gli spigoli del carattere, fino a diventare una di quelle persone che quando ci sono tu stai meglio.


− Ciao nonno, come va? − Il nonno si alzò con incerta agilità per abbracciare Franz.

− Bene, è un po’ che non vengo in questa piazza.

− E che impressione ti fa?

− Lasciamo stare. Dimmi di te, piuttosto. Come sta Alice? Mi avevi detto del tumore, tutto bene, vero?

− Alice è sparita.


Il nonno arrossì trattenendo il fiato. Poi riprese a respirare. Ma non aveva più quell’aria di chi sa di essere felice.


− Amico mio, non esiste una medicina magica per curare queste cose. Devi reagire. Quando si hanno problemi di salute capita che uno voglia starsene per conto suo.


− Che vuoi dire?

− Che Alice sarà andata a curarsi da qualche parte.

− Senza dirmi nulla?

− Proprio nulla?

− Ha lasciato un biglietto con su scritto: “Non cercarmi, grazie”. Lo stesso messaggio che ha inviato a sua madre.

− E cosa provi?

− Il suo silenzio mi fa sentire sbagliato, inadeguato. Tu che sei un tipo pratico, che faresti?

− Lascerei perdere. Si può trasformare un acquario in una zuppa di pesce, ma non una zuppa di pesce in un acquario.

− Cosa vuoi dire?

− Non fare nulla.

− Non ci riesco. Per me è unica… un’opera d’arte che cammina.

− Addirittura?

− Addirittura.

− Allora la cosa è davvero grave.


L’ansia ci spinge ad agire, mentre talvolta occorre avere il coraggio di non fare nulla.


Franz avrebbe voluto commentare la frase, ma il modo di parlare del nonno lo sconsigliava.


− Ricevuto, nonno. Ti va se facciamo due passi?

− Lascia stare, sono stanco, i ricordi stancano.

− Ma dai, che dici? Ti vedo in forma.


− Ascolta, ti voglio dire un’ultima cosa e poi me ne torno al paesello. Hai mai pensato alla fatica che fa il tempo a districarsi tra il tutto e il niente? È la stessa fatica che facciamo noi a vivere in società. Nella solitudine invece il tempo rallenta fino a fermarsi. Ecco spiegata la scelta di Alice: le gira la testa. Ferma la giostra e falla scendere. Regalale il tempo che chiede.


Il nonno di Franz nulla sapeva di Bergson, ma ne conosceva la password. E poi non era di quelli che tengono sotto una campana di vetro i loro sentimenti. L’amore è una farfalla colorata, diceva, attratta da tutti i colori. Anche le farfalle fanno le loro scelte, e lui aveva scelto la nonna, a cui era rimasto fedele per tutta la vita. Ma non con l’immaginazione.


Con la vecchiaia, quelle fantasie erano diventate dei bei ricordi che di tanto in tanto rallegravano i suoi pensieri. Sapeva che cosa passava nella testa di Franz. Il fuoco dell’immaginazione era alimentato da Alice, e per nulla al mondo l’avrebbe spento. E come avrebbe potuto?


L’immaginazione possiede le chiavi della verità che ci piace.


Un tentativo però andava fatto per distoglierlo da quella ossessione.

− Vedi Franz, a volte il tempo ci obbliga a riflettere sui nostri punti ciechi.

− Per esempio?

− Per esempio, il tempo potrebbe farti riscoprire quell’altra.

− Chi?

− Quell’altra… me ne hai parlato quando sei venuto a trovarmi a Mongardino.

− Lascia stare…

− E ha anche un nome questa ragazza?

− Si chiama Eleni.


− Pensaci. Non fare come la talpa che scava sempre nella stessa direzione. Prendi piuttosto esempio dalla volpe, che segue molte piste. La giovinezza è il momento delle scelte, e per scegliere bisogna guardarsi intorno. Verrà il momento in cui dovrai scavare sempre nella stessa direzione, per il bene tuo e dei tuoi figli, ma non è questo.


− Nonno, che vuoi che ti dica? Non tutti gli incontri si trasformano in storie, talvolta i sentimenti rimangono intrappolati nella mente. A te non è mai capitato?


− Quello che so è che l’amore regala l’illusione dell’eternità romantica. Con gli occhi accomodati all’infinito, l’innamorato non va di fretta. Ha tempo. L’immaginazione gli tiene compagnia. Attenzione però, perché immaginare significa guardarsi allo specchio. Da qui l’amara considerazione di Demostene:


Niente è più facile che ingannare se stessi.
L’uomo crede vero tutto ciò che desidera.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO