capitolo 39

Il sospetto

La coscienza è una “falsa coscienza” perché è abituata a dire il falso.

Non è vero che abbiamo poco tempo da vivere; la verità è che ne sprechiamo tanto, ci ricorda Seneca.


Chi non perdeva tempo era la madre di Alice. Dopo qualche giorno dalla sua prima visita a Milano era tornata una seconda volta. Poi una terza, una quarta, una quinta eccetera, finché si era dichiarata stremata. E come tutte le persone stremate chiedeva aiuto; ora doveva essere Alice a fare qualcosa per lei. In pratica, tornare a Torino.


Senza scivolare nella polemica, Alice aveva acconsentito: non un cenno a Franz, l’unica condizione. La sua vita era andata storta; qualcuno che a questo punto le desse una mano ci voleva. Non per lei, ma per il bambino. Ormai era solo pancia e pensiero.


I giorni si ammazzavano di noia a vicenda. Di tanto in tanto, Alice si rifugiava tra le braccia della filosofia, ma sempre meno. Il tumore è un amante geloso.


Una scappatella riuscita fu quando la sua attenzione venne agganciata da un dossier del Cigno Nero. Il titolo di copertina era un invito a diffidare del sottotitolo, I maestri del sospetto, divagazioni sulla filosofia di Paul Ricoeur.


Trattandosi di un giallo, l’imbeccata era buona. Occorreva partire da chi aveva sporto la denuncia, Paul Ricoeur. Qualcosa non quadrava.


Primo indizio. Un orfano. Nato nel 1913 e morto nel 2005, Paul Ricoeur era rimasto orfano della madre quando aveva sette mesi, e poco dopo del padre, un insegnante d’inglese, morto in battaglia nella Prima guerra mondiale. Raggiunta l’età per capirci qualcosa, gli venne il sospetto che suo padre avesse combattuto una guerra che non aveva senso. Era così. La prova l’ebbe con la lettura dei trattati di pace. Un pasticcio che si risolse solo con la Seconda guerra mondiale.


Secondo indizio. Un protestante. Dai nonni Ricoeur era stato educato al sospetto che la realtà che vediamo non fosse tutta la realtà, e che quella che non vediamo non coincidesse con il pensiero dominante in Francia, quello cattolico. Convinzione che percorre tutta la sua opera.


Terzo indizio. La prigionia. La Seconda guerra mondiale interruppe la sua carriera universitaria. Ricoeur finì prigioniero dei tedeschi in Pomerania. Quattro anni. Nonostante il terribile contesto, ne approfittò per studiare la filosofia tedesca cimentandosi anche come traduttore. E non c’è modo migliore di capire qualcosa che tradurla. Ne uscirà più colto ma con il sospetto che ci sia un gran lavoro filosofico da fare nella direzione indicata dai tedeschi: l’ermeneutica, l’arte dell’interpretazione.


Quarto indizio. Nessun rancore. Ricoeur non ce l’aveva né con il cattolicesimo né con la filosofia tedesca. Il sospetto fu la strada che percorse per capire, fino a sospettare pure della filosofia. La sua grandezza maggiore sta proprio in questo: l’aver capito che la filosofia non doveva ripiegarsi su se stessa, ma trarre nuova linfa dalle scienze sociali e dalla psicoanalisi.


Anche ciò che non è filosofia è filosofia.


Quinto indizio. L’evidenza. Il sospetto altro non è che dubbio. E se si parla di dubbio, allora si parla di Cartesio e del suo celebre ragionamento: se dubito esisto, non c’è alcun dubbio. Da dove proviene questa verità? Dalla mia coscienza; sono io che la scopro. Chi me la conferma? L’evidenza. Se così non fosse, Dio ci avrebbe creati per prenderci in giro. Questo il ragionamento di Cartesio. Secondo Ricoeur, a questa visione che da Cartesio in poi diventa dominante nella storia del pensiero occidentale, non si allineano alcuni filosofi, che si chiedono:


E se fosse proprio la coscienza a uccidere la verità con il pugnale dell’evidenza?


La coscienza è dunque una “falsa coscienza”, perché è abituata a dire il falso. Per questo occorre rompere gli schemi esistenti e cercare un nuovo sapere.


Marx, Nietzsche e Freud:
ecco “i maestri del sospetto”.


Per Marx la verità è menzogna in quanto le idee − tutte le idee, morali, artistiche o filosofiche − sono espressione degli interessi economici della classe dominante, la quale ci fa credere che siano oggettive.


La verità non è evidente, la realtà va interpretata.


Per Nietzsche la verità è menzogna in quanto la coscienza ci mostra un mondo falso, tutto ordine e armonia (l’apollineo), mentre nasconde il buio della notte con i suoi impulsi sessuali e violenti (il dionisiaco). Occorre dunque andare al di là del bene e del male, perché il bene e il male altro non sono che invenzioni della coscienza.


La verità non è evidente, la realtà va interpretata.


Per Freud la verità è menzogna perché non siamo quelli che sembriamo. Ce lo dicono i lapsus, quelle manifestazioni dell’inconscio tradizionalmente attribuite al caso, come le distrazioni, le battute, i giochi di parole. E ce lo dicono i sogni, desideri intrappolati nell’inconscio.


La verità non è evidente, la realtà va interpretata.


In comune, infine, questi maestri hanno lo stesso atteggiamento di sospetto nei confronti di Dio: per Marx “la religione è l’oppio dei popoli”; Nietzsche ne annuncia la morte e Freud insegna che la religione genera sensi di colpa.


Originale definizione, quella dei “maestri del sospetto”. Un attimo, però, prima di voltare pagina. Non manca qualcuno? Possibile che questi tre spuntino così, dal nulla?


Alla ricerca di una risposta, Alice prese a interrogare l’iPad. Va’ a sapere. Da qualche parte Ricoeur ne doveva pure aver parlato. Chissà dove. In ogni caso, se cerchiamo il padre dei “maestri del sospetto”, eccolo trovato: Schopenhauer.


Che tipo, Ricoeur. Con lui sarebbe stato bello passare un week-end. Doveva essere una persona gentile, così se lo immaginava. E non si sbagliava. Scrive il filosofo:


Sì, vorrei che un giorno si dicesse di me che ero un tipo molto gaio, e non solo un austero professore.


La sua biografia sembrava scritta da uno che alzasse il gomito. Due terribili tragedie l’avevano umiliato: la morte dei genitori, all’inizio della vita, e la morte di un figlio suicida, alla fine della vita. In mezzo una cascata di opere tradotte in diverse lingue.


Quando incontri uno così, taci, ti metti comodo e ascolti, perché ha da spiegarti qualcosa a cui da solo non arrivi, come la differenza tra il dolore e la sofferenza.


Il dolore è imprigionato nel corpo; la sofferenza invece è una smorfia del viso. Chi prova dolore tace; chi soffre urla:


Perché esiste ciò che non dovrebbe esistere?


I filosofi non parlano di ciò che sanno, ma cercano le spiegazioni di cui hanno bisogno. Nelle sue opere, Ricoeur cerca la risposta a questa domanda. E la trova nella narrazione, perché quel movimento dell’universo chiamato tempo si umanizza solo se diventa racconto.


Se vogliamo dunque capire qualcosa della sofferenza, dobbiamo seguire il filo narrativo che attraversa la nostra storia. E allora notiamo che la sofferenza si manifesta nel momento in cui questo filo narrativo si spezza. Ne consegue, nota Ricoeur, che tutta la storia della sofferenza grida vendetta e domanda di essere raccontata”.


Solo quando riusciamo a riannodare in qualche modo il filo narrativo, allora la sofferenza cessa di essere quell’urlo disperato che si perde nel nulla.


Oltre a Schopenhauer, pure lo stesso Ricoeur andrebbe annoverato tra i maestri del sospetto. Anche lui rompe con gli schemi esistenti e ricerca un nuovo sapere. Lo fa però a modo suo, rivolgendo cioè l’attenzione alla simbologia presente nel linguaggio della poesia, del mito e del sacro, alla ricerca di un vibrare eterno che non si presenta nell’immediatezza alla coscienza.


Ecco a che cosa portavano gli indizi raccolti strada facendo.


Ricoeur è un filosofo complicato. Più che un francese figlio di Cartesio, sembra un tedesco figlio di Kant che litiga con Hegel. Il titolo però della sua ultima opera, che verrà pubblicata postuma, riassume lo sguardo alla Ockham che aveva sul mondo.


Sono vivo finché non sono morto.


Essere vivi significa per Ricoeur accettare la morte come un atto di vita, quello che dà senso al racconto. Ricoeur era così: gentile anche con la morte.


Cullata da questo pensiero, Alice fu proiettata dal sogno in una di quelle silenziose nevicate che di tanto in tanto abbracciano Torino. Era passato qualche anno, e si trovava con suo figlio a Porta Palazzo, il più grande mercato all’aperto d’Europa, un luogo di confine tra traffici leciti e illeciti che avrebbe messo a dura prova i maestri del sospetto.


A un tratto il bambino viene risucchiato dalla gente. Tragedia. Disperazione. Ed eccolo improvvisamente riapparire con quell’andatura da saltimbanco. Che festa per gli occhi vedere le mani del bambino perdersi in quella di Franz e nella sua.


Ecco la fotografia della felicità.


I tre stanno per abbandonare il mercato, quando si trasformano in aquiloni. Niente più neve chiassosa, l’estate impazza e i raggi del sole rimbalzano felici di testa in testa. Il paesaggio si fa nitido come un disegno a carboncino.


Rapiti dal tempo, nel cielo purissimo d’autunno ora danzano sul Po, trasformatosi per l’occasione in una spilla lucente che trapassa come un gioiello Torino.


Dove sarebbero atterrati? Nessuno lo sa. A nessuno interessa, ogni posto è un posto. Ciò che conta è continuare a volare, volare, volare e volare ancora.


Non è vero che abbiamo poco tempo da vivere; la verità è che non lo sappiamo raccontare.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO