capitolo 41

Wittgenstein

Una rosa non ha denti: davvero?
E perché un cane non può simulare il dolore?
È troppo onesto?

Con un po’ di fantasia, l’ospedale Sant’Anna si affaccia sul parco del Valentino, il cuore romantico di Torino. Franz lo conosceva bene, non tanto come luogo di seduzione, aveva il retrogusto della banalità, ma perché da bambino era lì che con suo padre cercava di ammazzare la noia dei pomeriggi di festa.


Costeggiato il Po fino al Borgo medievale, Franz si ricordò che poco più in là il viale circumnavigava una sorta di piazzetta dove c’era la “loro” panchina, il centro del mondo nel suo immaginario infantile; quella su cui, lui e suo padre, erano soliti sedersi.


Dopo averla cercata con la stessa determinazione che aveva speso nel distinguere “trascendente” e “trascendentale” in Kant, dovette arrendersi. La panchina non c’era più, l’avevano tolta per far spazio a un chiosco di gelati. La sensazione che fosse il risultato di una macchinazione delle multinazionali durò poco, il tempo necessario agli anticorpi filosofici di attivarsi. Considerò la scelta da un altro punto di vista, e la trovò ragionevole.


Leccare qualche volta un sedativo fresco e cremoso rende la vita più sopportabile.


Con l’aria da ispettore della guida Michelin, Franz comprò un gelato al pistacchio e si accertò che i semi provenissero da Bronte. Perché di pistacchio è pieno il mondo, ma solo quello di Bronte stordisce e dà la carica come i Girasoli di Van Gogh. Il paragone era di suo padre, ma ci stava tutto.


La considerazione fece saltare il tappo dei ricordi, che presero a zampillare copiosi da qualche anfratto della mente. Così il turbinio di emozioni provate con Alice, con Eleni e infine con l’arrivo di Marta seppero di pistacchio di Bronte. Doveva esserci una spiegazione.


Il paradiso è dentro di noi e ha il gusto del gelato preferito nell’infanzia.


Basta passeggiare tra i viali di questo paradiso interiore per trovare sollievo alle angherie della vita. Con un’avvertenza: i suoi viali s’intersecano all’infinito. Emozioni che rimandano ad altre emozioni fino a spegnersi nella pace, quella sensazione di piacere interiore di cui nessun’altra è più grande. Verità a cui Buddha giunse dopo sette settimane di meditazione, per dire della forza illuminante di un gelato al gusto preferito nell’infanzia.


Ora l’illuminato Franz era pronto ad assumersi le sue responsabilità. Non sarebbe stato un ragazzo-padre, un ragazzo che si sforza di fare il padre, ma un padre-ragazzo, un padre che rimane ragazzo perché ha dentro di sé il paradiso.


Dalla tasca tirò fuori il vecchio Samsung. Ne approfittò una goccia di gelato per scivolare sui calzoni. Nulla di nuovo. La sbadataggine è una malattia da cui non si guarisce.


Messaggio di Eleni:

− Tutto okay?

− Sì.

− Sei con il professore?

− No, domani ti spiego.

− Ascolta Franz: stasera vado a cena dai miei.

− Salutameli. A domani.

− Hai fretta?

− Un po’.

− A domani, amore mio.


Il termine “amore” riaprì la ferita che riempiva di sangue la sua coscienza. Doveva chiarirsi le idee. Chi amava? Tutte e due, veniva da dire, ma non nello stesso modo, questo era il punto. Abbassò lo sguardo in cerca di concentrazione e la macchia di gelato sui calzoni gli suggerì che anche l’amore è un mix di gusti.


L’amore per Alice aveva il gusto del sole che bacia la terra, quella forza travolgente che aveva spinto Eloisa a dire ad Abelardo: “Meglio prostituta con te che imperatrice del mondo”. E il pensiero corre allo “slancio vitale” di Bergson, una sorta di fuoco d’artificio che vivifica la materia con un’esplosione di colori.

La poesia dello straordinario.

L’amore per Eleni aveva invece il gusto della luna che regola le maree. Una forza tranquilla. Qualcosa del genere doveva aver provato Hegel per dire: “Quando si ha un lavoro e una donna, si ha tutto in questo mondo”. E il pensiero corre alle lenzuola che sanno di lavanda e al crepitio della legna che arde nel camino.

La poesia dell’ordinario.

Lo straordinario rende attraente l’ordinario, e viceversa. Non esiste l’uno senza l’altro. I due gusti si erano mescolati, e l’amalgama sapeva di gelato al pistacchio di Bronte. Non poteva più farne a meno.


Siamo abituati a pensare che ogni giorno generi un altro giorno. Ma è solo un’abitudine, insegna Hume. Prima o poi non capiterà. Insomma, quel giorno da Dio non era ancora terminato, e il giorno dopo era solo un’ipotesi. Se il sole si fosse rifiutato di sorgere, tutto sarebbe andato a posto.


In caso contrario, avrebbe dovuto rassegnarsi:


L’amore è un gigantesco gioco di shanghai:
è impossibile sfilare un bastoncino dal mucchio senza urtarne un altro.

In lotta con i propri pensieri, Franz attraversò il ponte Umberto I, superò le Molinette e raggiunse il Sant’Anna. Dribblata la macchinetta del caffè e infilate le scale, si diresse verso la camera di Alice, ma non fu fortunato. Milena lo bloccò sulla porta.


− Aspetta, Alice sta riposando.

− Okay, rimango nel corridoio, mi dica lei quando posso entrare.

− Milena? − La flebile voce di Alice interruppe la loro conversazione. − Lascialo entrare, è il papà di Marta.

− Questo lo so… come vuoi tesoro, ma non ti stancare troppo: più tardi passerà il primario e ti voglio in perfetta forma.

− Ciao Alice, come va?

− Mah… non riesco a riprendermi, eppure ho tanta voglia di vivere, di parlare, di giocare con la bambina.

− Ce la farai, vedrai.

− Speriamo. Ora dimmi di Wittgenstein. In due parole, di cosa parlava il primario stamattina? È da quando sei uscito che me lo chiedo.

− Davvero?

− Certo. Che vuol dire “una rosa non ha denti”?

− Ci provo ma non è facile. Te la senti? Il discorso è un po’ lungo.

− Dai racconta. Fai finta di essere Oberosler.

− Okay, ci provo. Ludwig Wittgenstein nasce a Vienna nel 1889 da una ricca famiglia di industriali. Studia ingegneria, poi va in guerra, quando torna fa il maestro elementare.


− Il maestro?

− Sì, per qualche anno, poi viene scoperto da Bertrand Russell, che gli propone una cattedra di filosofia a Cambridge. Lui accetta, ma non per molto: non sopporta la vita accademica. Per riflettere ama isolarsi, per esempio andando a vivere da solo in un fiordo norvegese.

− Un grande.

− Eccome. La storia del pensiero filosofico del Novecento sarebbe diversa senza di lui.

− E volle fare il maestro elementare?

− Certo, dopo aver rinunciato a una ricca eredità.

− Sarà stato un maestro straordinario.

− Senz’altro, sapeva affascinare ma era troppo rigido. Reagiva alla mancanza d’impegno dei suoi alunni tirando le orecchie e dando schiaffi.

− Davvero?

− Sì, pretendeva troppo. In ogni caso, ripensandoci negli anni successivi se ne pentì.

− Come lo sappiamo?

− A un certo punto della sua vita decise di “confessarsi”, un po’ come fece Agostino. Le sue Confessioni sono però costituite da un elenco di casi in cui a suo modo di vedere non si era comportato bene. Quello di cui Wittgenstein si vergognava maggiormente era di aver perso la pazienza con i suoi alunni. Per liberarsi di questo peso, andò persino a scusarsi con loro ormai diventati adulti.


− Dovevano farlo soffrire molto quei ricordi… dimmi ora del suo pensiero. Sentirti parlare di queste cose mi fa stare bene. E poi ha ragione Oberosler, una giornata senza filosofia è una giornata persa.

− Wittgenstein rivoluzionò il pensiero filosofico in due occasioni: la prima con il Tractatus logico-philosophicus, la sola opera pubblicata in vita; la seconda con le Ricerche filosofiche, opera a cui si dedicò per più di vent’anni, ma che venne pubblicata solo dopo la sua morte. Nel Tractatus Wittgenstein afferma che il mondo è costituito dai fatti e non dalle cose.


− In pratica, che cosa significa?

− Che percepiamo le cose sempre in un contesto in cui accade qualcosa, e non come oggetti a sé stanti.

− E di tutto il resto che ne facciamo?

− Nulla, è solo fuffa. “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”: questa è la password del Tractatus.

− Lo stesso concetto del rasoio di Ockham.

− Certo. Come per Ockham, anche per Wittgenstein la filosofia è malata.

− Malata?

− Sì, perché ha perso di vista i suoi limiti e si interroga su questioni che non hanno relazione con i fatti, di cose di cui non si dovrebbe parlare.

− Se non ricordo male, lo stesso Kant diceva qualcosa del genere: la filosofia, nel momento in cui si occupa di metafisica, sbaglia. Come può infatti dire qualcosa di sensato su questioni che vanno al di là del tempo e dello spazio?

− Certo, anche se tra Kant e Wittgenstein c’è una notevole differenza. Per Kant vediamo il mondo come attraverso una lente rossa (gli “a priori” di spazio e tempo), mentre per Wittgenstein lo vediamo per quello che è, sebbene solo in parte.


− E quale parte?

− Quella contenuta nel linguaggio usato correttamente. Voglio dire che il linguaggio è un recinto con delle regole, se non le rispettiamo diciamo solo fesserie. Per esempio, la madre chiede alla figlia: “Passami questa cosa”; mentre il filosofo si chiede: “Cos’è la cosa in sé?”. Ma dire “passami questa cosa” ha un senso, mentre interrogarsi sulla “cosa in sé” non ne ha alcuno. Non si può e non si deve oltrepassare il recinto del linguaggio. Contiene tutta la verità che possiamo conoscere.


− E la rosa? Ci giri intorno, ma non arrivi al punto.

− “Una rosa non ha denti” è una frase che troviamo nelle Ricerche filosofiche. Si tratta di un’affermazione solo apparentemente assurda. Pensaci: “La mucca mastica il foraggio, poi con gli escrementi concima la rosa; dunque la rosa ha denti nella bocca di un animale”. Insomma, quello che voleva dire Wittgenstein è che all’interno del recinto del linguaggio c’è un labirinto, e come succede in tutti i labirinti alla fine non ci si raccapezza più. Si può dire che una rosa non ha denti o che ha denti: sono due possibili strade dello stesso labirinto. Entrambe sensate, entrambe assurde. Un problema non da poco, considerato il fatto che il linguaggio è il solo strumento conoscitivo che abbiamo.


− E dei problemi esistenziali, non ne parla Wittgenstein?

− Come no? Anche in questo caso, però, dobbiamo rispettare le regole del linguaggio. È illogico per esempio interrogarsi sul senso della vita per la semplice ragione che il senso della vita non può che trovarsi al di fuori della vita. È come se un tavolo si chiedesse: che ci faccio al mondo? Come può pensare di trovare la risposta? Per conoscerla dovrebbe rivolgere la domanda al falegname che l’ha costruito, ti pare?


− Certo.

− Il ragionamento di Wittgenstein ricorda un po’ quello di Giambattista Vico, per il quale solo Dio, che ci ha creati, sa perché esistiamo.

− Wittgenstein era credente?

− “Di ciò di cui non si può parlare occorre tacere”, e a questa regola non faceva eccezione neanche Dio.

− E allora, come dobbiamo vivere se nessuno ci può dare una risposta sul senso della vita?


− Accettando la vita per quella che è, in tutto e per tutto. Questa è la ricetta di Wittgenstein. La felicità ne è la conseguenza: se infatti ci sentiamo in armonia con il mondo, allora lo vediamo a colori. Quando una persona è innamorata non diciamo forse che vede tutto rosa?


− E Wittgenstein riusciva a vedere il mondo a colori?

− Non lo so, so solo che ci provava, come dimostra l’ultima frase da lui pronunciata prima di morire:


Dite a tutti che ho vissuto una vita felice!


− Quanti anni aveva?

− Sessantadue.

− E di che cosa è morto?

− Di un tumore alla prostata.

− Se ne lamentava?


− Da quel che sappiamo, no. In fondo, morire di tumore è una possibilità della vita, non ci sarebbe cioè il tumore se non ci fosse la vita. Di più non ci dice il linguaggio, e di più non credo abbia detto Wittgenstein.

− Dopo tanta rabbia, ora la penso anch’io così. La vita, anche se breve, è sempre una fortuna incredibile. Aggiungerei soltanto che per non sprecarla ci vuole un obiettivo. Ora nel buio dell’universo brilla una stella in più, Marta: obiettivo raggiunto!


− E che stella!

− Ora però vai, tra poco passerà il primario. Non puoi rimanere qui.

− Okay, ci vediamo stasera. Potrò rientrare?

− Non lo so.

− Non ti preoccupare, in qualche modo farò.

− Aspetta − Alice prese un foglio, lo infilò in una busta, la chiuse e vi scrisse sopra:


Per Marta quando sarà grande.


− Promettimi di dare questa lettera a Marta nel momento in cui sarà in grado di comprenderla.

− Che cosa intendi per “grande”, diciotto anni?

− Non lo so, dipende. La maturità consiste nell’accettare le cose che non si capiscono. Ognuno ha i suoi tempi.

− E se in certe situazioni non sapessi che pesci pigliare, posso leggere questa lettera?


− Sì, ho cercato di riordinare le parole che ho nel cuore. Potrebbe esserti di aiuto. Anzi, se è il caso condividila, le emozioni vanno sempre condivise, altrimenti si scoppia. Insomma, fai come credi: ti chiedo soltanto di non farla leggere a Marta fino a quando non si sarà fatta una ragione della mia morte. Il test che deve superare è molto impegnativo. Pensa che la parola “mammifero” deriva da “mamma”.


− Ti stupirò, ma questo lo sapevo.

− Non prendermi in giro. Voglio dire che noi siamo quelli che hanno la mamma per definizione. È contro natura che muoia.

− Ora ne sono certo, vuoi farmi piangere.

− Niente affatto, dico queste cose solo per precauzione. Non mi va che il destino la spunti sempre. Ora però devi cenare. Dai, esci, cerca qualche posto carino.


− Davvero?

− Certo.

− Non vuoi proprio che rimanga?

− No, vai.

− Okay.

− Franz?

− Sì?

− Come immagini l’aldilà?

− Non lo immagino, mi lascerò sorprendere.

− Giusto, bella risposta… Franz?

− Sì?

− Ti amo… tanto.

− Anch’io, amore mio.

− Abbracciami.

− Guarda che tanto non piango.

− Bravo… ora però vai. Aspetta… un’ultima cosa.

− Sì?

− Puoi dire alla mia amica infermiera che ho bisogno di parlarle? Devo chiederle un favore.

− Certo, ma se intendi parlarle di me, dille solo cose carine, quella mi ammazza.

− Okay.

− A più tardi.


Ci sono pensieri che scivolano dentro di noi come acqua fresca; altri che diventano parte di noi. Era quest’ultimo il caso di “vedere il mondo a colori”, che andò a incastrarsi in qualche cellula cerebrale di Franz. Ma c’era anche un’altra frase che lo intrigava: “Perché un cane non può simulare il dolore? È troppo onesto?”.


Che tipo, Wittgenstein. In ogni caso, affrontare la vita con un paio di bombole d’ossigeno filosofico sulle spalle è tutta un’altra cosa. Bisogna ammetterlo. Alice ne era la dimostrazione; alla fine la filosofia le aveva fatto fare pace con il mondo, tumore compreso, e il perché era evidente:


La filosofia non ti spiega il senso della vita, ma ti aiuta a dare un senso alla vita.


La serata non prometteva nulla di buono, ubriaca com’era di vento della val di Susa. Franz prese la metro e raggiunse il centro. Optò per un ristorante curdo-turco, il Kirkuk Kaffé in via Carlo Alberto: il fatto che i curdi e i turchi fossero, almeno nel cibo, inseparabili amici, lo intrigava.


L’arredamento era piacevole. Ci si poteva sedere per terra su cuscini, se si voleva. Ma è troppo triste mangiare da soli in un ristorante, etnico per giunta, dove il bello consiste nel commentare i sapori di terre lontane.


Più in là c’era un bar, questo andava bene. Un toast al volo, caffè e via. Il telefono squillò. Era Esther, Alice si era aggravata. Di corsa Franz si diresse verso la metro. Chiusa. I dipendenti dei mezzi pubblici avevano indetto uno sciopero senza preavviso per protestare contro le condizioni di lavoro. Troppa criminalità, e poca protezione da parte della polizia. Giusto, ma proprio quella sera? Non c’era “prima” la criminalità, e non ci sarebbe stata “dopo”? Fateci caso, quando le cose vanno male si scatena nell’universo una sorta di forza di gravità che le spinge ad andare peggio.


Intanto i taxi sfrecciavano senza fermarsi, incuranti dello sbracciarsi di Franz. Non rimaneva che tornare all’ospedale a piedi, un passo dietro l’altro si arriva dappertutto. Basta non fermarsi.


In quella circostanza, poi, per liberarsi dalla morsa gelida che gli stringeva il cuore, Franz avrebbe raggiunto di corsa la cima del Monviso, i cui lineamenti affilati ricordavano il rasoio di Ockham.


Quando finalmente la rivide, Alice non soffriva più, né fisicamente né psicologicamente. La carnagione bianchissima, il volto perfetto e il respiro sottile trasmettevano una sensazione di pace.


Un viavai di persone si alternava nel salutarla, ma lei non sentiva le loro parole. Nella sua mente si susseguivano immagini, ricordi, pensieri. Ora vedeva le cose della vita con distacco, come se fosse a teatro, comodamente seduta su di una poltrona.


Anche la paura per la morte era scomparsa. Ora era un’opportunità. Avrebbe conosciuto la verità, la quadratura del tutto. Il respiro si fece più regolare.


L’uomo è quell’animale che non può fare a meno di sperare nell’esistenza di Dio. Non c’era niente da fare: Dio, ancora Dio, sempre Dio… la respirazione di Alice tornò ansiogena. Se Dio davvero esistesse andrebbe accusato di stalking.


Silenzio.

Ancora silenzio.


Okay, basta, diamogliela vinta… ma solo per un attimo… allora sarebbe andata in paradiso, sicuro, in cielo o da quelle parti lì, di quello interiore al pistacchio per Franz e per lei alla fragola ne aveva abbastanza, ora voleva provare quello al gusto di eternità, e se lo immaginò come un immenso parco giochi, dove le attrazioni erano costituite dalla realizzazione delle promesse che accompagnano le beatitudini evangeliche. Mentre cercava di raccapezzarsi, ecco comparire Dio:


− Tranquilla Alice. In paradiso non ci sono solo credenti, intere zone sono abitate da atei e agnostici. L’unico merito riconosciuto è la coerenza. E tu non hai mai fatto una cosa pensandone un’altra. Complimenti sinceri.


Mi corre tuttavia l’obbligo di dirti che potevi fare meglio. “La verità ama la semplicità”, ricordi? Sono d’accordo con il mio amico Ockham. Pensaci, il Vangelo dice la stessa cosa: “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli”; significa che solo i semplici vedranno il mondo a colori, per usare le parole di un altro mio amico, Wittgenstein. Lo sai? Ultimamente amo discutere con lui di quanta verità possa contenere il linguaggio.


Tieni poi presente che le persone sono come le piante, crescono verso la luce; ma la rabbia che hai provato nei miei confronti ti ha fatto guardare da un’altra parte, e così tutto ti è apparso in bianco e nero, e il nero ero io. Invece ero lì al tuo fianco, sofferente con te sofferente. L’immagine di un Dio impassibile è solo filosofica, non cristiana.


Il tumore? La vita è come un arazzo di cui si vede solo il rovescio. Per questo sembra tutto assurdo. Basta però girarlo, e ciò che sembrava un pasticcio si trasforma in uno splendido disegno. Tutto acquista senso. Si tratta però di una logica non umana ma divina, quella che conoscerai qui.


Dunque staremo per sempre insieme, anche se abiterai nella parte più arretrata del paradiso, laddove gli ottovolanti della verità sono meno alti, per intenderci. Ma solo per un po’; poi conoscerai la verità nella sua interezza. Te lo meriti, il tuo cuore è puro.


Così, immaginando un Dio mezzo filosofo e mezzo giostraio, amico di Ockham e intento a discutere con Wittgenstein, quella visione innocente delle cose che la speranza sa dare tornò nuovamente ad alimentare la sua anima.


E mentre si riaccendeva il fuoco della fede che covava sotto la cenere, Alice passò dal dormiveglia dell’agonia al sonno della morte. Fu come un tuffo nella gioia assoluta, quella gioia al gusto di eternità che solo Dio sa dare.


Nessuno l’avrebbe mai saputo. Nulla di grave. Ci sono sentimenti nella vita che ti vengono a cercare per non lasciarti più: la fede è uno di questi. E neanche Marta, pur crescendo in un contesto famigliare intriso di risoluto ateismo, sarebbe sfuggita a questa regola.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO