capitolo 43

Husserl

Per scoprire l’essenza delle cose occorre fare silenzio; l’ansia della comunicazione distorce la realtà.

Tra le tante leggi partorite dal fluire banale dell’esistenza, troviamo anche quella riguardante i funerali: si va per compiacere i vivi, più che per onorare i morti.


Ben lo sapevano i concittadini di Kierkegaard, che a frotte si recarono al suo funerale per manifestare vicinanza alla Chiesa luterana di Danimarca, accusata dal defunto di non essere cristiana. Nientemeno.


E furono accontentati: il pastore, un tipo rubicondo e spiccio nei modi che officiava il rito funebre, sporcò l’immagine pubblica del filosofo con allusioni più o meno velate alla sua scarsa saggezza. Un esaltato, capirono i fedeli, sorvolando sulle cautele linguistiche del pastore.


L’onore della Chiesa luterana di Danimarca pareva ristabilito, quando la cerimonia venne interrotta da Henrik Lund, il nipote di Kierkegaard, che scagliò contro il pastore queste parole tratte dall’Apocalisse:


Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo.
Magari tu fossi freddo o caldo!
Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.


Va’ a sapere perché, quel giorno Oberosler si svegliò con la spiacevole sensazione di essere il pastore rubicondo e spiccio nei modi a cui erano rivolte quelle parole.


Un’altra legge partorita dal fluire banale dell’esistenza recita che una sensazione spiacevole tira l’altra. Come le ciliegie. Si forma così una catena che va troncata il prima possibile fuggendo sulle ali della fantasia. Ed è quello che accadde.


Con un colpo di reni psicologico, Oberosler indirizzò la sua attenzione a quei palloncini colorati che si suole far alzare in cielo come ultimo saluto ai bambini. Peccato, niente palloncini per Alice; il prezzo da pagare all’età adulta. Eppure quei colori che svanivano fra le nuvole erano tutto quello che c’era da dire al suo funerale.


Mentre si stava preparando, in un angolo del suo cervello s’intrufolò un dubbio. E se non fosse andato? Assurdo, la filosofia non poteva mancare al funerale di Alice. Magari con gli occhiali neri per non farsi notare, ma tutti gli amanti partecipano ai funerali di chi ha visto in loro il fuoco acceso dopo una camminata nella neve. Senza eccezioni. E lui, nell’immaginario di coloro che sarebbero stati presenti, era la filosofia fatta persona; non tutta la filosofia, naturalmente, ma quella che Alice amava di più.


Poteva però scegliere se andare al funerale in auto, con qualche mezzo pubblico o a piedi. Scelse di andare a piedi; il cimitero non era poi così lontano.


Intanto dal cielo cadeva una pioggia commossa che chiedeva scusa prima di raggiungere il suolo. E Oberosler adorava il brusio della pioggia; gli ricordava quello delle idee nella mente.


A volte pensava che se fosse vera la storia che abbiamo un’anima sola, ma viviamo molte vite, allora in quella precedente aveva vissuto in una torre di vedetta settecentesca, appollaiata sulla sommità di una scogliera. E da quell’altezza aveva fatto proprio l’invito di Jim Morrison, lo sciamano della sua gioventù.


Sii come il mare che infrangendosi sulle rocce trova sempre la forza di riprovarci.


Ogni aggettivo ha un suo contrario. Metteteli in relazione e li ritroverete tutti nell’acqua. L’acqua sa essere noiosa come un iceberg e fantasiosa come un arcobaleno; agitata come uno tsunami e tranquilla come un laghetto di montagna; fonte di vita come la pioggia e portatrice di morte come la grandine.


Poiché la vita è uno spettacolo che richiede abilità trasformistiche, dall’acqua c’è solo da imparare. Queste le parole che Oberosler usava quando con orgoglio visionario parlava dei vari personaggi che ci tocca recitare per essere noi stessi.


Dopo aver ruminato per un po’ l’argomento, la sua mente andò alla caccia di nuovi stimoli. L’addio dei filosofi. Funerali e retoriche intorno alla morte: ecco un titolo interessante per un nuovo libro, non di successo, ovvio, perché la gente non sopporta queste cose.


La puoi mettere come vuoi: che la morte sia necessaria in quanto l’eternità è nemica della vita; che se fossimo eterni non ci sarebbe l’amore, perché l’amore è un fiore che sboccia nel tempo; che senza la morte non ricercheremmo la verità perché non ne avremmo bisogno. Sta di fatto che tutti darebbero la vita per non morire, diceva Jim Morrison. Sempre lui, punito dagli dèi a ventisette anni per aver cercato di sottrare loro il fuoco della verità.


In ogni caso, Oberosler non era solito farsi condizionare dalle pulsioni commerciali della psicologia. Prima o poi quel libro l’avrebbe scritto. Il filo che tesse la tela della morte è quello della vita. E di paradossi si nutre la filosofia. La cosa insomma lo intrigava.


Bergson morì a Parigi il 4 gennaio 1941 a causa di una polmonite, dopo aver sofferto a lungo il freddo perché le stufe non potevano essere accese per mancanza di carbone.


Nonostante la grande notorietà raggiunta, solo una trentina di persone lo accompagnarono al cimitero. Agli occhi dei nazisti che occupavano la Francia, Bergson era pur sempre un filosofo ebreo, e mostrarsi troppo legati a lui non era consigliabile.


Ad aggravare la situazione ci pensò gennaio, il mese meno indicato in cui morire. Nota è infatti la regola secondo cui un uomo può vivere una vita eccezionale, ma il numero delle persone che partecipano al suo funerale dipende dal clima.


Doppiamente sfortunato fu dunque Bergson, ma non quanto Freud. Grande fumatore di sigari (circa 20 al giorno), Freud morì a 83 anni dopo terribili sofferenze per un tumore alla bocca (32 interventi chirurgici al palato).


Non morì tuttavia a causa del tumore, ma di eutanasia, con la complicità del suo medico curante, che gli aveva somministrato una dose mortale di morfina. A piegarlo, più che la sofferenza, era stata la solitudine.


Fu quando si accorse che la sua cagnetta Jofi, a cui tanto era affezionato, non entrava più nella sua stanza a causa del fetore emanato dai tessuti in putrefazione, che l’impulso di morte ebbe in lui il sopravvento.


Max Schur, il suo medico, così racconta l’estremo dialogo con cui Freud gli chiese di mantenere la promessa che gli aveva fatto, aiutarlo cioè a morire quando glielo avesse chiesto:


− Caro Schur, lei si ricorda certo del nostro primo colloquio. Allora mi promise che non mi sarebbe venuto meno quando fosse stato il momento. Ormai è solo tormento e non ha più senso.

Gli feci cenno che non avevo dimenticato la promessa. Freud mi guardò sollevato, mi trattenne la mano per un istante e disse:
− La ringrazio − poi, dopo un momento di esitazione aggiunse:
− Lo dica a mia figlia Anna.

Tutto questo fu detto senza traccia di commozione o di autocommiserazione e con piena coscienza della realtà. Come Freud aveva chiesto, informai Anna di quanto mi aveva detto. Allorché ricadde negli spasimi dell’agonia, gli iniettai due centigrammi di morfina. Ne fu immediatamente sollevato e cadde in un sonno tranquillo.

L’espressione di dolore e di sofferenza era scomparsa. Ripetei l’iniezione dopo circa dodici ore. Freud era chiaramente prossimo alla fine delle sue risorse: cadde in coma e non si svegliò più.


Che strano. Socrate e Freud di fronte alla morte. Stessa determinazione. Entrambi scelsero di morire. Socrate poteva fuggire o accettare qualche compromesso; Freud poteva lasciare che la malattia facesse il suo decorso. Stessa freddezza. Eppure avevano una visione dell’uomo opposta.


Per Socrate la psiche si identifica con la ragione. La mancanza di emozioni nel momento in cui Socrate affronta la morte ne è la rappresentazione teatrale. Per Freud, invece, oltre alla parte razionale della psiche ne esiste un’altra, l’inconscio, dove si agitano pulsioni irrazionali capaci di condizionare pesantemente il nostro comportamento. Eppure, di fronte alla morte, Freud non manifesta alcuna emozione. Rimane impassibile, come Socrate. Perché? L’avrebbero scoperto i lettori de L’addio dei filosofi. Funerali e retoriche intorno alla morte. Al momento Oberosler non ne aveva la più pallida idea.


Ma se il caso di Freud era il più sconvolgente tra quelli passati in rassegna dal libro, il più deplorevole aveva come protagonista Heidegger, che non si recò al funerale del suo maestro Husserl con la scusa di un malanno. In realtà, siamo nel 1938, in piena era nazista, Heidegger non vi andò per la semplice ragione che Husserl, come Bergson, era un ebreo. Eppure doveva tutto a lui.


A Oberosler, Husserl stava simpatico, sebbene per lungo tempo avesse trovato la sua filosofia una giungla di parole in stato confusionale. Una sensazione negativa che si era protratta fino a quando non aveva inserito nel display della sua mente la password giusta: silenzio. Da quel momento, la gioia della comprensione aveva illuminato la giungla.


Solo se si fa silenzio si coglie la stanchezza della scienza, una crisi profonda dovuta al fatto che da Galileo in poi ha preso a osservare i fenomeni descrivendoli matematicamente, senza occuparsi di noi che osserviamo i fenomeni, delle nostre emozioni, di come siamo. Insomma, la scienza ha venduto l’anima al diavolo della quantità, dimenticando che esiste anche la qualità dei fenomeni. Così procede di scoperta in scoperta senza mai interrogarsi sul loro significato.


Solo se si fa silenzio si comprende che Husserl non si sbagliava di molto: due guerre mondiali, la scienza come strumento di morte, i campi di concentramento e le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki ne sono la triste conferma.


Solo se si fa silenzio si comprende che la scienza deve tornare a ricongiungersi con la filosofia, e la filosofia deve tornare a dare un senso alla scienza, come facevano gli antichi Greci.


Basta dunque con tutto questo baccano scientifico e mettiamoci in ascolto delle cose così da coglierne l’essenza. L’ansia della comunicazione distorce la realtà: questo il senso della fenomenologia di Husserl, la filosofia del silenzio. Grande Husserl!


In compagnia di questi pensieri, Oberosler giunse al cimitero centrale di Torino. La passeggiata era durata più del previsto. Stava per avvicinarsi alla madre di Alice per abbracciarla, quando giunse il carro funebre.


Franz era accanto a suo padre. Non c’era la bambina. Meglio così. Non fa bene respirare tristezza, a nessuna età, figurarsi quando si è così piccoli.


Intanto il feretro era stato scaricato dal carro funebre all’ingresso del cimitero. Non era stata prevista nessuna cerimonia religiosa. Ma Alice non l’aveva neanche espressamente negata.


Don Vincenzo si avvicinò e benedisse la bara. Poi aggiunse:

− Conoscevo Alice, ero il suo parroco. Ogni tanto veniva a parlarmi, discutevamo di fede. Alice ha amato la vita talmente tanto da donarla a Marta, anche se sapeva che sarebbe morta presto. E la vita non è solo un dono di Dio, ma è Dio stesso. Dire Dio e dire vita significa dire la stessa cosa. Sono sinonimi. Dunque per Dio Alice non è morta. L’Essere non muore. Non lo sto a spiegare a voi che studiate filosofia. E poi ricordatevi che la geometria non è una favola. Le nostre esistenze s’incontrano in un punto all’infinito. Quindi smettetela di fare queste facce tristi. Da quel punto, Alice ci guarda e sorride.


Dopo un attimo di silenzio, quattro uomini vestiti di nero e di uguale altezza si caricarono il feretro sulle spalle. Tutti li seguirono fino al tempietto delle cremazioni. Al centro vi era un altare dove venne posta la bara.


Intanto le note della Regina della notte, tratte dal Flauto magico di Mozart, cercavano di lenire il dolore dei presenti. Lo prevedeva il cerimoniale. Uno standard. Veniva messa questa musica tutte le volte che il defunto era una ragazza giovane, salvo diverso parere dei parenti, e in questo caso nessuno aveva fiatato.


Mentre tutti si sedevano, Franz raggiunse lentamente la piccola pedana per l’orazione funebre. Un’incombenza di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ma non c’erano alternative. La madre di Alice non se la sentiva. Con gli occhi stanchi di piangere infossati nelle orbite, le labbra tremanti e le guance grigie, era preda di un dolore insopportabile. Per capirlo, basta ricordare un concetto caro a Tennessee Williams, che nel suo caso suonava così:


Chiamiamo orfana una bambina che perde la madre; vedova chi perde il marito, ma non abbiamo un termine per una madre che perde una figlia.
Non sappiamo neanche che cosa sia quel dolore, perché è così devastante che il linguaggio rifiuta di farsene carico.


Mentre le note evocative della Regina della notte sfumavano, Franz prese la parola.


− A volte la vita sa essere davvero crudele. Prima di morire, Alice mi ha lasciato una lettera per Marta, raccomandandomi di dargliela solo quando sarebbe stata grande. Ha però aggiunto che se mi fossi trovato in difficoltà avrei potuta leggerla e condividerla con chi avessi ritenuto più opportuno. Non so immaginare un momento per me più difficile di questo. Il dolore è talmente forte che i sentimenti si attorcigliano e non sono in grado di fare alcun discorso che abbia un senso compiuto. Per cui vi leggo la lettera. Così a parlare sarà Alice.


“Cara Marta,

ora sei grande. Dio solo sa quanto avrei voluto aiutarti a crescere, abbracciarti nei momenti di difficoltà e gioire con te per i tuoi successi. Ma è andata così. Vivere significa scegliere, come dice Kierkegaard. Ti serve dunque una bussola, un sistema di riferimento.


La religione è un collaudato sistema di riferimento. Ma bisogna crederci, e io ho perso la fede. Dalla filosofia però ho imparato un metodo, quello dell’onestà intellettuale. Se una cosa ti appare bianca non dire che è nera. Chiama le cose con il loro nome, anche se la vita talvolta sa essere molto crudele con chi osa guardarla negli occhi. Solo così troverai il bandolo della matassa per costruire il tuo sistema di valori.


Quando poi sarai sufficientemente sicura di quello che pensi, allora guardati attorno. Innamorati di chi vuoi, ma scegli come compagno di vita solo quello che è giunto alle tue stesse conclusioni. Una lezione che ho imparato da Aristotele. Sono i valori comuni che rendono profondo e stabile un legame.


Va’ dunque dove ti portano il cuore e la ragione. Poiché se è vero, come dice Pascal, che il cuore conosce ragioni che la ragione non conosce, è altrettanto vero che la ragione vede laddove il cuore non vede. I sentimenti sono come il Sole senza il quale non ci sarebbe vita sulla Terra, ma come il Sole accecano. Cuore e ragione: non disgiungere mai questi due aspetti.


Quando infine sarai madre, capirai quanto grande può essere l’amore. Ed è quello che provo per te. Se avessi la lampada di Aladino, esprimerei un solo desiderio, quello di poterti abbracciare ancora una volta in una notte stellata e sussurrarti all’orecchio questi versi di Platone che sento ormai miei:


Tu guardi le stelle, stella mia, e io vorrei essere il cielo per risponderti con uno sguardo infinito.


Ciao, mamma.”

La dolcezza della scena evocata da Platone punse il cuore dei presenti, ma fu solo quel “ciao” perso tra le stelle che lo fece sanguinare. Le lacrime presero a confondersi con la pioggia, quando irruppe la furia dei Carmina Burana. Un’idea di Esther. Non voleva che il funerale di sua figlia finisse in una melassa appiccicosa.


Sappiamo da quando siamo nati che prima o poi moriremo. Ma il modo e il quando fanno la differenza. Per questo aveva voluto che il funerale si concludesse con la musica che Alice amava ascoltare quando aveva il cuore gonfio di rabbia. Mentre il suo corpo veniva inghiottito dal forno crematorio, non poteva certo scegliere una musica sciropposa. La morte è morte.


La furia dei Carmina Burana funzionò da defibrillatore: una scarica elettrica che richiamò i presenti alla realtà. Tutti si ricordarono improvvisamente che la morte era una faccenda che riguardava anche loro, prima o poi. Meglio poi.


Terminata la musica, la folla prese a scemare dalla porta del tempietto. Qualcuno si diresse verso l’auto, altri formarono dei capannelli. Oberosler si avvicinò a Franz. I due si guardarono negli occhi come a scrutare il reciproco stato d’animo.


− Franz, ascolta − disse Oberosler quasi sussurrando. − Quando puoi, vieni a trovarmi. Gli orari li conosci. Devo parlarti.

− Okay, certo − rispose Franz abbracciandolo.

Intanto Esther stava telefonando a Eleni per avere notizie di Marta.

− Tutto okay? Allora adesso veniamo – poi, rivolgendosi a Giove, aggiunse:

− Dobbiamo andare, Marta ci aspetta.


Il funerale era finito e la pioggia si era fatta insistente. Oberosler senza indugiare si avviò verso casa, mentre la sua mente riprendeva a macinare pensieri.


Che la vita sia assurda lo dimostra la morte, checché ne dica don Vincenzo. Un prete davvero in gamba, però. Alice sapeva scegliere le sue amicizie. Sarebbe stato interessante frequentarlo.


Don Vincenzo era ancora abbastanza giovane, magari avrebbe benedetto anche lui il giorno del suo funerale e detto parole consolatorie. No, meglio tacere. A scanso di equivoci, visto che di polvere nella clessidra della sua vita ne era rimasta poca, l’avrebbe scritto nel suo testamento: qualche riga, non di più, tutto quello che aveva capito quel giorno.


Il funerale va celebrato in una giornata piovosa.
Nessuna orazione funebre, in nessun momento della cerimonia.
Si prega di lasciare ogni commento solo al rumore dell’acqua che cade.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO