capitolo 46

Derrida

La verità esiste.
Noi però non riusciremo mai ad afferrarla completamente, perché l’Essere è in noi, ma noi non siamo l’Essere.

Dunque per don Vincenzo, pensava Oberosler, mentre in compagnia di un sole stanco raggiungeva le Officine Grandi Riparazioni, Alice aveva smesso di respirare ma non di esistere nella prospettiva di Dio.


Tesi dirompente, quella di negare l’evidenza della morte, se non fosse antica quanto la religione. Don Vincenzo l’aveva però spiegata a modo suo, e in qualche modo l’aveva resa nuova, destreggiandosi tra ermeneutica e decostruzionismo.


Oberosler ebbe un sussulto; doveva parlarne con i suoi studenti. Lo avevano già capito i maestri di pietre scheggiate nel paleolitico inferiore: non c’è modo migliore per capire qualcosa che spiegarla. E i vecchi vanno sempre ascoltati.


Alle nove e qualcosa Franz si affacciò alla porta del suo ufficio. Nessuna maschera piangente stile tragedia greca irrigidiva il suo volto. Bravo, pensò Oberosler, si fa così. Il modo migliore per non cadere in bicicletta quando tira il vento è continuare a pedalare.


La vita è come un libro di storia fatto di tanti capitoli, ognuno dei quali corrisponde a un’epoca. Le epoche possono occupare poche o tante pagine. Dipende dall’autore, dipende da te, dipende da come usi il rasoio di Ockham.


Questo per dire che puoi scegliere di scrivere capitoli lunghi o corti. Ma tutti terminano soltanto se sei capace di mettere un punto e di voltare pagina. Con semplicità. Titolo nuovo, epoca nuova, vita nuova, pagina bianca.


Se invece ti spaventa la semplicità, se non sai perdonarti gli errori del passato, allora scrivi un libro senza indice di cui è impossibile capire qualcosa. E vivi male, come i medievali persi nel delirio delle loro complicazioni.


Da quando aveva preso a respirare filosoficamente, Franz era cambiato. Ora sapeva farsi una ragione di tutto quello che gli capitava. Questo è il regalo che la filosofia fa a chi l’ama, concluse tra sé e sé Oberosler mentre accoglieva Franz.


− Speravo proprio di vederti. E la bambina?

− In questo momento gioca con Eleni, poi passeranno i nonni a darle una mano. Ieri sono stato tutto il giorno con lei. Ci alterniamo, insomma.

− Bene, ti volevo parlare di una questione. Non so per quanto tempo ancora Marco rimarrà con noi. È in gamba e ambizioso. Sta facendo vari concorsi e prima o poi qualcuno lo vincerà. Pensavo a te come sostituto.

− Ma se non sono neanche laureato.


− Certo, lo so. Questo stage è il seme di una nuova università, ora lo posso dire, e per insegnare all’università non occorre una laurea. Occorre vincere un concorso, e la laurea in genere fa parte del curriculum. Ma non sempre è così. Nel passato abbiamo avuto anche illustri esempi: Nietzsche venne chiamato a insegnare all’università di Berna all’età di 23 anni, e non era ancora laureato. In ogni caso, volevo solo indicarti un possibile obiettivo. Ho visto nei tuoi occhi brillare qualcosa della mia giovinezza. Tutto qui.


− Grazie professore − rispose Franz trattenendo con fatica la contentezza.

− Il primo mattone di una carriera universitaria è la tesi di laurea − proseguì Oberosler. − L’argomento va scelto il più presto possibile. Tu hai qualche idea?


− No, ci devo pensare, mi piacerebbe però affrontare un argomento che abbia in qualche modo a che fare con Alice. Solo questo ho in mente.

− Perfetto! Bisogna sempre radicare quello che studiamo nel vissuto. Altrimenti è un sapere astratto, e finiamo per annoiarci. Non so se Alice ti ha mai raccontato della richiesta che mi ha fatto la prima volta in cui ci siamo incontrati.


− Sì, le disse che sua madre era malata terminale di cancro.

− Certo, e poi mi chiese di consigliarle un libro da regalarle, qualcosa che potesse esserle di conforto.

− Ora ricordo, ma mi disse pure che non le aveva risposto. Alice non aveva poi insistito perché la richiesta era collegata a una bugia. Cosa che la imbarazzava.

− Per la stessa ragione anch’io non ne ho più parlato.

− Certo − annuì Franz.


− In ogni caso, avevo trovato interessante la domanda di Alice, e ho molto riflettuto sulla questione chiedendomi quale opera filosofica avrebbe potuto essere di conforto a una malata terminale di cancro. Poi ho concluso che più che un’opera avrei dovuto consigliarle un metodo, quello della decostruzione.


− Non so nulla al riguardo − mormorò Franz, visibilmente preoccupato nel mostrare un nuovo lato della sua infinita ignoranza.


− Non fa niente, anzi meglio, − lo consolò Oberosler − anche perché questo sarà l’argomento della tua tesi. D’accordo?

− Ma certo.

− Ascolta, ora c’è la lezione: vieni anche tu?

− Ovvio. Grazie, professore.


Franz non aveva mai pensato di essere un predestinato, uno di quelli con il futuro scritto in fronte. Non capita tutti i giorni che qualcuno creda in te, prima che tu creda in te stesso. A lui stava capitando. Non si sarebbe lasciato scappare l’occasione.


Entrato in aula, Oberosler si guardò attorno. La lezione poteva incominciare.


− Il termine ermeneutica − attaccò − deriva da Ermes, un personaggio della mitologia greca, figlio di un dio e di una donna mortale. In pratica, Ermes era un semidio, né dio né uomo. Il suo compito consisteva nel trasmettere agli uomini i messaggi degli dèi in modo a loro comprensibile, cioè interpretandoli.


Che le storie vadano interpretate lo si comprese già nel V secolo a.C. Con la nascita delle scienze, i Greci si trovarono in una situazione davvero imbarazzante. Che fare dei vecchi miti? Si trattava di racconti pieni di contraddizioni, e talvolta pure immorali. L’unica soluzione era dare a queste storie delle interpretazioni diverse da quelle del passato, adeguandole cioè ai nuovi tempi.


Qualcosa del genere accadde anche a partire dal Rinascimento, quando si scoprì che da un punto di vista scientifico non aveva senso prendere alla lettera il racconto della Bibbia. Come si poteva infatti credere che il mondo fosse stato creato in soli sette giorni, e precisamente nel 4004 a.C.? O che il Sole girasse attorno alla Terra?


Anche in questo caso due erano le soluzioni: o si buttava a mare la Bibbia, o la si giudicava con occhi diversi. Così è nata l’ermeneutica: l’arte dell’interpretazione, l’arte cioè del raccontare in modo diverso la stessa storia.


Non solo. In questa prospettiva, la storia stessa null’altro è che un racconto inventato. Perché con le medesime fonti si possono creare innumerevoli altri racconti. Due persone che si salutano abbracciandosi possono essere descritte come parti anatomiche che si incontrano, due che si dichiarano infinito amore o due che si lasciano, magari per sempre. Per loro natura gli uomini sono grandi narratori di storie. Nessuno vive senza collocarsi all’interno di una storia. Tutti raccontano storie, e tutti si raccontano storie.


Noi siamo la storia che ci raccontiamo.


− Ci sono poi storie che riguardano lo stesso argomento. Ma non sono identiche, in quanto vengono interpretate in modo diverso.


Con Whitehead, si può per esempio dire che tutta la storia della filosofia null’altro sia che una serie di note ai margini su Platone; o ritenere la filosofia di Platone una sintesi della filosofia presocratica. Punti di vista, entrambi legittimi.


Nel Novecento questo argomento è stato a lungo dibattuto da un movimento filosofico noto come decostruzionismo, di cui il francese Jacques Derrida, un filosofo solo apparentemente oscuro e funambolico, è il massimo esponente.


La differenza tra ermeneutica e decostruzionismo è presto detta: mentre l’ermeneutica è l’arte di interpretare i racconti in vari modi, il decostruzionismo va alla radice dei racconti e ne scardina i presupposti.


Fu Heidegger per primo a compiere questa operazione capovolgendo il tradizionale approccio dell’ermeneutica. Per Heidegger, infatti, il mondo stesso è racconto, altrimenti sarebbe solo un groviglio di percezioni senza né capo né coda.


E come si racconta il mondo? Attraverso il linguaggio. Per questo Heidegger giunge a sostenere che il linguaggio è il modo con cui l’uomo s’inabissa nell’Essere. Stessa conclusione a cui perviene Wittgenstein: nel linguaggio è racchiusa tutta la verità che possiamo conoscere.


Ma se noi creiamo continuamente il mondo con il linguaggio, allora il linguaggio può prendersi gioco di noi. Una barzelletta raccontata da Derrida chiarisce bene questo concetto:


Un bel giorno di primavera, alcuni animali si mettono in cammino alla ricerca di una radura dove fare un picnic. Dopo molto girovagare, finalmente la trovano.

Stanno per incominciare a mangiare, quando scoprono che manca l’apriscatole.

Vado a prenderlo io” dice la tartaruga. “A una condizione, però: non mangiate nulla prima del mio ritorno. Promesso?”

Certo, certo” rispondono in coro tutti gli animali.
Mi devo fidare?”
Sì, sì.”

L’attesa si fa lunga, le ore passano e la fame cresce.
E se incominciassimo a mangiare qualche cosa?” dice il cane.

No, abbiamo promesso che non avremmo mangiato nulla prima dell’arrivo della tartaruga” gli risponde il gatto.

A malincuore tutti si rassegnano. Passano altre ore e scende la sera.

Voi fate quello che volete” sbotta l’agnello, “io comincio a mangiare.”

Hai ragione, mangiamo qualche oliva come aperitivo, che sarà mai” concordano gli altri animali.

Stanno per toccare la prima oliva, quando dal fondo della radura si sente la tartaruga urlare: Fermatevi: se mangiate anche una sola oliva io non vado più a prendere l’apriscatole!”

− Questa è la nostra situazione. Come nel picnic degli animali, ci chiediamo: che facciamo, mangiamo o non mangiamo? È giusto fare così, o dovremmo comportarci diversamente?


Ingannati da questi interrogativi, non prendiamo in considerazione il fatto che la tartaruga intenda verificare il mantenimento della promessa. Eppure è chiaro che non si fida degli altri animali. Il linguaggio si è preso gioco di noi.


Il decostruzionismo arriva dunque al cuore del problema. Ed è per questo che lo stage si conclude con Derrida. La verità esiste. Noi però non riusciremo mai ad afferrarla completamente, perché l’Essere è in noi, ma noi non siamo l’Essere.


E poi il linguaggio, lo strumento che ci pone in relazione con l’Essere, è per sua natura non solo limitato, ma anche fonte di equivoci. Ciò che può fare la filosofia è insegnarci a vedere le cose da più punti di vista, mai da uno solo. Tutto qui.


Oberosler sollevò lo sguardo dal saggio di Derrida che stava rigirando tra le mani − La carta postale. Da Socrate a Freud e al di là.


− Come dice Walt Whitman in una splendida poesia, la verità è una coperta troppo corta. Se la tiri verso le spalle ti rimangono fuori i piedi, se copri i piedi rimangono scoperte le spalle. Questo è il problema.


Uno studente si alzò per andarsi a sedere vicino a un suo amico. Oberosler lo osservò con occhi vuoti, preso com’era dal suo ragionamento.


− Facciamo un esempio. Applichiamo il metodo decostruzionista a un dialogo di Platone dedicato alla saggezza, il Carmide. Come in quasi tutte le opere di Platone, Socrate ne è il protagonista.


− Socrate, appena tornato dal fronte dove ha combattuto contro i Persiani, in una palestra incontra Carmide, un giovane filosofo allievo di Crizia. Colpito dalla sua bellezza, Socrate lo avvicina e gli chiede in che cosa consista la saggezza. Sulle prime Carmide non sa cosa rispondere, ma dopo qualche esitazione formula questa definizione: la saggezza consiste “in una certa calma”, nel senso che il saggio fa tutte le cose con calma senza lasciarsi travolgere dagli eventi.


La risposta non convince Socrate, che ricorda a Carmide come la saggezza sia una forma di bellezza, e tra le cose belle ve ne sono di tranquille, ma anche di veloci, come vincere una gara di corsa, per fare un esempio. Di conseguenza la saggezza non può essere “una certa calma”.


Carmide allora fa un secondo tentativo e definisce la saggezza come “pudore”, nel senso che il saggio prova vergogna per certe azioni. Al che Socrate ribatte citando Omero, secondo cui se un uomo si trova in stato di necessità deve agire senza lasciarsi frenare dal pudore.


In risposta, Carmide fa un terzo tentativo, e afferma che la saggezza consiste nel farsi gli “affari propri”, come diremmo noi oggi. Quindi, ribatte Socrate, un giudice non può essere saggio perché il suo compito consiste nell’occuparsi degli affari altrui, non di quelli propri.


Allora in soccorso di Carmide interviene il suo maestro, Crizia, che citando la famosa esortazione posta sul frontone del tempio di Delfi, afferma: la saggezza consiste nel conoscere se stessi. Ma anche questa definizione non convince Socrate, in quanto la saggezza è sempre utile mentre la conoscenza di sé non sempre lo è.


Il dialogo va avanti ancora per un po’, fino a che appare chiaro che la ricerca sul significato della saggezza non è progredita di molto. Allora Socrate invita Carmide ad andare a studiare da lui, così da approfondire meglio l’argomento. Carmide, su sollecitazione di Crizia, “accetta entusiasta”.


A questo punto, Oberosler tacque, così da lasciare qualche attimo di riflessione agli studenti.


− Allora Franz, che cosa pensi di questo dialogo di Platone? Intanto, secondo te di che cosa parla?

− Il soggetto del dialogo è evidente: la saggezza. A volte i dialoghi di Platone sono un po’ stucchevoli; questo invece mi è piaciuto, l’ho trovato interessante. In particolare ho apprezzato le varie risposte di Carmide, e anche il tentativo di Crizia mi ha fatto riflettere.


− Bene, dunque hai capito in che cosa consiste per Platone la saggezza?

− No, il dialogo si conclude con un fallimento.

− Ma non trovi un po’ strano che Platone abbia voluto scrivere un dialogo sulla saggezza pur non sapendola definire?

− Non lo so, tanti non lo farebbero, ma era nello stile di Platone e soprattutto in quello di Socrate affidarsi al dialogo. La verità è sempre ricerca della verità.


− Certo, certo, ma fate attenzione. Io ho seguito l’interpretazione tradizionale, mettendo in evidenza il tema della saggezza, senza dilungarmi sull’ambientazione. Proviamo invece a decostruire questa interpretazione, scardinandone il presupposto. E se il dialogo invece della saggezza parlasse di qualcos’altro? Socrate è appena tornato dal fronte. È stanco e ha voglia di divertirsi. Entra nella palestra di Taurea e rimane colpito dall’abbacinante bellezza di Carmide, tanto da confessare: “L’ho visto e ho perso la testa”. Alla lettera.


Dunque, per conquistare Carmide, Socrate mette in atto un astuto stratagemma: lo coinvolge in un dibattito filosofico, proponendo come argomento la saggezza. Carmide cade nel tranello e cerca di far sfoggio della sua preparazione filosofica. Ma Socrate, con grande abilità, ne mostra tutti i limiti.


Ingelosito, interviene il suo maestro, Crizia, ma anche lui fallisce. Il racconto si conclude con Carmide che, incoraggiato da Crizia, accetta entusiasta l’invito di Socrate a far parte della sua scuola.


Socrate ha raggiunto il suo scopo, addirittura con l’aiuto di Crizia, fino ad allora l’amante di Carmide: avrà modo di stare quanto vorrà con il ragazzo di cui si è invaghito. Altro che fallimento. Il dialogo racconta la storia di un successo!


E c’è anche una morale: se invece di soffermarsi sulle parole di Socrate si riflette sul suo modo di fare, si scopre che ha ben in mente che cosa sia la saggezza. Lo capiamo da come si comporta: per Socrate la saggezza consiste nella capacità di affrontare i problemi da tanti punti di vista diversi, e con un’abilità tale da non destare sospetti.


− Vero − mormorò Franz.

− Bene ragazzi − riprese Oberosler. − Abbiamo quasi concluso. Ci rimane ancora una lezione. Ma non la terrò io, la terrà Franz.


Poi, voltandosi verso di lui, aggiunse: − Ce la fai in un mese a prepararti? Il titolo della lezione potrebbe coincidere con quello della tua tesi:


Alice, costruzione e decostruzione di una storia.


− Ci proverò, professore.

− Non credo che ti servirà molto materiale.

− No, devo solo pensarci un po’ e soprattutto mettere ben a fuoco il pensiero di Derrida.

− Certo, dunque alla prossima.


Franz passò un mese tranquillo. C’era Marta, bastava guardarla per essere felici. L’unica complicazione era data dal suo sorriso, che ricordava quello della madre.


A casa, Franz venne accolto dal buonumore di Eleni, che stava facendo fare il bagnetto alla bambina. L’acqua era uscita dalla vasca, tanto che le ochette galleggiavano allegramente sul pavimento.


Dopo aver dato il suo contributo, prima nel trasformare il bagno in una piscina, poi nel ristabilire l’ordine precedente, Franz andò in camera da letto.


Ora Marta dormiva; bene, aveva bisogno di silenzio. Doveva riflettere sulla differenza tra relativismo e decostruzionismo. Ma certo − concluse tra sé e sé −, il decostruzionismo null’altro è se non una variante del relativismo, con una differenza, però: per il relativismo esistono tante verità quante sono le persone, mentre per il decostruzionismo esistono tante verità quante sono le storie.


Si distese sul letto e la sua mente incominciò a vagare fino a perdersi in un labirinto di specchi, ognuno dei quali rifletteva la sua immagine. Stava vagando alla ricerca di una via d’uscita, quando ebbe come un’illuminazione: quel labirinto era il castello incantato di cui parlava il decostruzionismo. Un castello da cui non si poteva uscire.


Siamo in trappola per la semplice ragione che vediamo la nostra immagine riprodotta in tanti specchi. Qual è quella reale? Noi siamo la nostra storia, certamente, ma quale? Nessuna storia ci rappresenta veramente.


I tre verbi che frequenta il decostruzionismo sono: capire, dubitare, raccontare. Le certezze le lascia agli imbecilli.


Quando arrivò il giorno della lezione, Franz aveva le idee chiare.


− Per quanto riguarda la costruzione della storia di Alice, − esordì − quella che ci ha spinto a piangere al funerale, c’è poco da dire: è la storia di una ragazza sfortunata morta a ventun’anni per un tumore al cervello, dopo aver dato alla luce una bimba che crescerà senza madre. Per quanto riguarda invece la decostruzione della storia di Alice, c’è molto da dire. Intanto era una ragazza carina, per me molto carina, merce assai preziosa nella nostra società. Era talmente carina che ha potuto scegliere il partner che voleva, me modestamente.


Risata generale.


− Ho incontrato Alice in un bar. Non la conoscevo, ma come spinto da una forza irresistibile l’ho baciata. A quante di voi, parlo alle ragazze, è capitato di essere baciate da un affascinante sconosciuto?


Altra risata.


− Poi Alice era intelligente. A lei piaceva più di ogni altra cosa la filosofia. E la filosofia le ha forgiato il carattere fino a darle il coraggio di vivere oltre la morte, mettendo al mondo Marta. Perché questo ha di bello la filosofia: insegna a giocare con le carte che hai.


La storia di Alice è dunque quella di una ragazza fortunata. Non riteniamo per esempio fortunata quella persona che trova una perla? Eppure la perla nasce quando un granello di sabbia entra dentro il corpo di un’ostrica, e la ferisce. Allora l’ostrica, per difendersi, ricopre la ferita con una sostanza particolare, fino a formare una luminosa perla.


Il tumore è quel granello di sabbia, Marta la risposta, ovvero la perla, la cicatrice esistenziale, la ferita rimarginata.


Dal fondo dell’aula si sentì uno strillo. Era Marta in braccio a Eleni. Tutti si girarono verso di loro e incominciarono ad applaudire. Un mondo gioioso incorniciava la scena.


− Come vedete, − aggiunse Franz interrompendo l’applauso − la costruzione più comune della storia di Alice, quella del fallimento, termina con la sua morte e la bambina che piange in solitudine. La storia decostruita di Alice, quella del successo, termina invece con Marta che sorride, accudita da Eleni che aspetta un bambino.


Boato.


− Questo era il sogno di Alice; che Marta crescesse con un fratellino. Detto, fatto.


Applausi.


− Quale delle due storie è la più vera?

− Sono entrambe vere, − intervenne prontamente Oberosler − la differenza consiste nel fatto che la prima ha come protagonista Alice, la seconda Marta. Possiamo anche aggiungere che la sfortuna di Alice, un tumore incurabile, coincide esattamente con la fortuna di Marta, l’essere nata.


La fortuna e la sfortuna dipendono da come si racconta una storia: questo ci insegna il decostruzionismo.


− Mentre Franz parlava, mi scorrevano nella mente le immagini di Alice, tutte le volte che l’ho incontrata o vista seduta qui in quest’aula. Poi nella mia mente ha preso il sopravvento l’immagine di Marta, con quello sguardo carico di ottimismo e speranza che hanno i bambini. E ho pensato che aveva proprio ragione Kierkegaard, parlo dell’aforisma catalogato con il codice 17.498.836. Ve lo ricordate, vero?


Risata generale.

− Kierkegaard dice:


La vita può essere capita solo guardandosi indietro, ma va vissuta in avanti.


Silenzio.

Ancora silenzio.


− E con questo abbiamo davvero terminato − si premurò di precisare Oberosler, incerto tra l’interpretare quel vuoto come un momento di riflessione o come l’attesa di altri commenti. E per essere più chiaro aggiunse:


− Buone vacanze!

In un clima di festa, tutti si avviarono all’uscita. Stando al meteo psicotico di Torino, doveva fare bel tempo, invece pioveva. Nessuno aveva portato l’ombrello. Meglio così. Perché, come diceva lord Bowen − uno che non compare nei libri di storia della filosofia ma che aveva capito tutto − “piove sul giusto e piove anche sull’ingiusto; ma sul giusto di più, perché l’ingiusto gli ruba l’ombrello”.


Il fascino della filosofia è tutto lì: in quell’improvviso lampo della mente che illumina un’altra verità.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO