Prologo

A tutti coloro che, mossi da uno spirito irrequieto, ricercano sempre un’altra verità

2013. Ho sessant’anni piombati a tradimento mentre al supermercato simulo una caccia al tesoro con i miei figli. Eloisa, di due anni, è seduta sul seggiolino del carrello. Occhio alle bottiglie. Lorenzo, invece, corre tra gli scaffali: ha quattro anni. Occhio a non perderlo.


I miei amici hanno figli tra i trenta e i quarant’anni. Donne e uomini con cui discutono di tutto. Anche dell’amore liquido di Bauman, se è giornata di litigi, mentre il filosofo di riferimento dei miei figli è Peppa Pig.


Quando mio padre aveva sessant’anni diceva che non sarebbe mai andato in pensione. Faceva l’artigiano con l’entusiasmo di un alchimista che trasmuta il piombo in oro. A settant’anni in pensione ce l’ha mandato il suo amico cardiologo: troppa emotività, due infarti potevano bastare.


− Caro mio, se continui a lavorare – gli aveva detto – rivolgiti a una ditta di onoranze funebri. Se chiamate in anticipo fanno degli sconti.

Ho dunque ancora dieci anni di buono e un cruccio: non potrò remare sulla zattera dei miei figli quando attraverseranno le rapide della vita. Nel momento in cui avranno vent’anni, io viaggerò verso gli ottanta. Non parliamo di quando raggiungeranno i trenta. Allora avrò difficoltà a connettermi con il mondo, altro che remare.


Mio padre è morto a ottantasei anni, dopo un periodo di orgogliosa confusione mentale. Un incubo però lo molestava. Sognava di essere inseguito da una banda di balordi. Cercando di scappare, finiva immancabilmente con l’infilarsi in un vicolo, di quelli che terminano con un muro sulla cui cima è teso del filo spinato. Robaccia da telefilm americani rimasta intrappolata nella sua mente. A quel punto, invece di arrendersi, abbracciava il muro, lo accarezzava, gli chiedeva perdono; poi tentava di scavalcarlo. Ai balordi non pareva vero di assistere a un tentativo tanto assurdo, e per ringraziarlo gli sparavano alla schiena.


Una volta, però, fece una cosa diversa.

Era stata la sua maestra delle elementari a dirgli:


− Vuoi scrivere? Allora lascia fare alla scrittura. Butta giù tutto quello che ti passa per la testa senza preoccuparti di nulla, prima fase. Alla sistemazione ci penserai dopo, seconda fase. Ricordati che solo quando avrai terminato di scrivere saprai quello che volevi scrivere.


Forte di questa convinzione mio padre buttò giù mille pagine, tutte scritte a caratteri cubitali in uno sforzo estremo di chiarezza. La seconda fase non arrivò mai: avrebbe richiesto quella lucidità che se avesse avuto non gli avrebbe neanche fatto iniziare quel lavoro. La scrittura ama prendersi gioco degli sprovveduti.


Dopo il funerale, quando venne il momento di mettere ordine nelle sue cose, mio fratello, in un raptus di amore filiale, gettò nel cassonetto dell’immondizia specializzato in carta e cartoni quel tentativo di scavalcare il muro della morte.


− Sono pagine eruttate dall’inconscio; quando stava bene, lui non le avrebbe mai scritte − mormorò mentre cercava dentro di sé un appiglio per arginare il pianto.


Una decisione condivisa anche da me: era stato un uomo saggio e gentile come attestava il suo cognome, perché correre il rischio di alterarne il ricordo?


Ora però quelle pagine mi mancano. E negli anni a venire mi mancheranno in maniera esponenziale. Due sono le età in cui le parole dei genitori ci fanno più compagnia: l’infanzia e la vecchiaia. Ma la morte trasforma le persone in silenzio. Nella mia testa rimbombano i ricordi, è vero. Però quelli rappresentano il mio punto di vista; il suo se n’è andato con lui. E quel messaggio eruttato dall’inconscio è finito nel cassonetto della spazzatura specializzato in carta e cartoni.


No, a me questo non capiterà. Io ho ancora dieci anni di buono. Sono il signore del tempo che mi resta, non devo sprecarlo. E allora apro un file che chiamo I pensieri di papà, dove annoto le mie considerazioni, così come vengono. Gli darò una sistemata in una seconda fase.


Più che dalla maestra di mio padre, l’idea mi viene da Pascal, genio contromano della filosofia francese, il cui capolavoro s’intitola Pensieri: appunti che sarebbero dovuti confluire in un’opera che non arrivò mai alla seconda fase, Apologia del cristianesimo.


2015. Dei dieci anni buoni ne sono passati due. Dopo aver lasciato l’insegnamento e scritto con Luigi Ronga un mare di libri di storia (Amazon ne tiene il conto), è suonata l’ora della filosofia, il mio primo amore.


È un lavoro scientifico, e come tale non consente divagazioni personali. Certo, ogni scelta è opinabile, e di scelte bisogna farne in continuazione, ma occorre sempre giustificarle con il pensiero di illustri studiosi di fama internazionale, meglio se dal nome impronunciabile. Queste sono le regole d’ingaggio. Chi non le rispetta, può dedicare la sua opera al correttore di bozze. Sarebbe l’unico a leggerla.


A ogni modo, è un lavoro che mi prende l’anima. Più le teorie filosofiche sono astruse, più mi piace ricondurle all’intuizione da cui scaturiscono. Ma non sono il primo a pensarla così. Nel XIV secolo, Guglielmo di Ockham ne aveva fatto il nerbo della sua riflessione: la verità è una luce oscurata da una selva di concetti inutili, sosteneva.


Per scoprirla, occorre eliminare con un colpo di rasoio tutte quelle allucinazioni intellettuali che sono prive di contatto con la realtà. Da qui la metafora del “rasoio di Ockham” per dire che la verità ama la semplicità.


2018. Basta, ho sessantacinque anni, e solo più cinque di buono. Non posso più aspettare il domani, perché il domani è dei morti. Coraggio dunque, è venuto il momento di dire la mia. Leggo e rileggo I pensieri di papà, che nel frattempo ho accumulato; un elenco formato lenzuolo di note fuori dal rigo, utili ai miei figli solo come materiale per una ricerca psichiatrica sui disturbi creativi come spia della demenza senile.


Pascal aveva un progetto, l’esaltazione del cristianesimo, e i suoi pensieri sono inscritti in quella logica. Io, invece, mosso come sono da un’esigenza esistenziale, ho bisogno di una vicenda immaginaria che mi consenta di andare a dama.


Insomma, ci sono arrivato anch’io: solo se inseriti in un contesto, i pensieri hanno un senso. E poi ho una voglia matta di descrivere il paesaggio filosofico così come lo vedo, modulando le lezioni secondo la mia indole. Qualunque cosa dicano gli studiosi di fama internazionale dal nome impronunciabile.


Il romanzo è lo strumento giusto per questa impresa, perché trasfigura il mio sguardo facendolo diventare visione del mondo. E poi non prevede regole d’ingaggio, e se le prevede non mi interessano. Già dato. Così ho incominciato a scrivere Il rasoio di Ockham con un obiettivo: rispondere alle aspettative del titolo. Un corpo a corpo tra vita e storia della filosofia.


2021. Ho finito. Mi rimangono due anni di buono. La maestra delle elementari di mio padre parlava di due fasi della scrittura, dimenticando che si scrive per gli altri. La fase più importante è la terza, quella che consiste nel fare in modo che il mio lavoro non finisca nel cassonetto dell’immondizia specializzato in carta e cartoni.


Sfoglio il primo impaginato. Ho incastrato l’algoritmo del mio modo di stare al mondo in 715.499 battute, spazi inclusi. Mi concentro su quegli “spazi”, meglio sarebbe dire “silenzi”. Ho detto tante cose, altre taciute. Perché? Non lo so.


Il testamento spirituale in forma di romanzo è un genere letterario che ricorda la maionese fatta con la forchetta. Difficilmente riesce. L’emotività la fa impazzire.


Il colpo di pistola che fa partire la mia storia è un episodio di “basoressia” (pare si dica così l’improvviso impulso a baciare qualcuno; fenomeno in cui mi sono imbattuto casualmente nel momento in cui davo la caccia a un incipit).


A cascata sono seguiti altri fatti che mi hanno permesso di dipanare il groviglio dei miei pensieri. E quando mi andava sono salito in cattedra, come ai bei tempi, indossando i panni che più mi stanno comodi, quelli del professore di filosofia.


Ora i miei figli hanno dodici e dieci anni. è ancora troppo presto per parlare loro della differenza tra ontologia e metafisica secondo Heidegger. Meglio mettere un po’ di fieno in cascina.


La scrittura è come l’acqua, dilaga dove vuole.


In questo aveva ragione la maestra di mio padre.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO