capitolo 5

Straparlando

La voglia di ragionare su ogni cosa, patologia che affligge chi bazzica la filosofia, talvolta diventa un prurito insopportabile.

Il rapporto di coppia è un puzzle da un milione di pezzi. Se non hai mai provato a farne uno di queste dimensioni, allora non sai di che cosa stiamo parlando.


Il problema è tutto racchiuso in questa domanda: sei proprio sicuro che in quel mare di pezzi ne esista solo uno in grado di combaciare perfettamente con un altro? Questo si chiedeva Franz verso le cinque del mattino, l’ora in cui i sogni scivolano nei ragionamenti.


Nella matematica degli innamorati, uno più uno fa infinito. Tutto il resto non esiste. E lui sentiva che Eleni esisteva, l’avvertiva come una sorta di interferenza che chiedeva con insistenza di essere decifrata. Che cosa stava succedendo?


La voglia di ragionare su ogni cosa, patologia che affligge chi bazzica la filosofia, talvolta diventa un prurito insopportabile. Allora bisogna passare all’azione, suggeriva Hegel, il filosofo dei filosofi tedeschi. E il caso voleva che fosse giovedì. Giorno libero. Libero di incontrare Eleni. L’avrebbe cercata nel pomeriggio. In mattinata, lettura di qualche pagina dei Fiori della filosofia. Senza esagerare. È bello leggere, ma anche volare con i propri pensieri affidandosi al caso.

La felicità è il profumo dell’anima.

Il titolo su cui cadde la sua attenzione gli apparve di primo acchito una sorta di enigma, un gioco di parole di quelli di cui si nutrono gli intellettuali, e nulla più. Per farla breve, l’antologia si dilungava nel citare filosofi − come Aristotele, Platone, Cartesio, Hegel, Kant − tutti concordi nell’attribuire all’olfatto un ruolo marginale. Non che manchi di una sua funzione conoscitiva, sostenevano, ma sicuramente tra i cinque sensi è quello meno importante.


Addirittura Kant riteneva che gli odori avessero un carattere autoritario. Siamo infatti costretti a “goderne”, che lo vogliamo o no. Insomma, gli odori riducono la nostra libertà: questa la tesi.


Franz sgranò gli occhi, l’umile curatore dell’antologia dissentiva da quella valutazione, cosa che faceva di rado se di mezzo c’era qualche big. Gli odori sono invece i più grandi alleati della nostra memoria, rivendicava con forza nelle note. E giù citando Proust.


Ma allora perché quel titolo? Che cosa c’entravano la felicità e l’anima con il profumo? Poi a Franz venne in mente che la felicità era qualcosa di indefinibile come il profumo. Provate a descrivere un profumo a chi non sente gli odori. Impossibile. Un po’ come provare a descrivere i colori a chi non vede.


Superato questo primo scoglio, Franz si concentrò sul fatto che il profumo e l’anima fossero delle essenze: naturale la prima, spirituale la seconda. L’analogia ci stava tutta. Dire che “la felicità è il profumo dell’anima” aveva dunque un senso. Ma che fosse quello che aveva individuato lui, Franz non ci avrebbe scommesso neanche un centesimo di suo padre. Le metafore alludono, non descrivono.


Dopo aver pranzato, si distese sul letto e si appisolò, cosa per lui assai insolita di pomeriggio. Quando si svegliò erano le diciassette. A quell’ora probabilmente Eleni cantava già da un pezzo. Non c’era tempo da perdere.


Giunto in piazza Carignano, l’impressione che fosse uno di quei giorni da cancellare dal calendario venne confermata: Eleni non c’era. Troppa voglia di vederla; il destino se n’era accorto e l’aveva punito.


Non rimaneva che fare una passeggiata in centro, adocchiare qualcosa da comprare e tornare a casa. Attraversata la piazza, svoltò in via Cesare Battisti, dove la sua attenzione venne attratta da un manifesto che si stava staccando dalla porta dell’Unione Culturale. Più che una pubblicità sembrava un annuncio mortuario, con quel listone nero che incorniciava la scritta:


IL FILOSOFO SI RICONOSCE DALLA FACCIA


Scesa una rampa di scale, Franz s’imbatté in Emilio Soleri, l’ideatore della mostra, filosoficamente un pasticcione, più che un pasticcere delle idee, come amava definirsi con banale ironia. Lo si capiva dal suo accostare a casaccio citazioni di filosofi che se si fossero incontrati si sarebbero presi a testate, tanto la pensavano diversamente. E così tutto quel sapere assomigliava a un dessert con troppa panna alla fine di una cena pesante.


Al confine tra filosofia e delirio, Soleri si era imbattuto nella teoria di Cesare Lombroso, medico veronese vissuto a Torino tra Ottocento e Novecento. Secondo Lombroso, i criminali avevano tratti somatici comuni, e così aveva passato la vita a misurare crani, facce e piedi di delinquenti.


In genere − scrive Lombroso:

i ladri hanno notevole mobilità della faccia e delle mani, occhio piccolo, errabondo, mobilissimo, sovente obliquo; folto e ravvicinato il sopracciglio; il naso torto o camuso, scarsa la barba, non sempre folta la capigliatura, fronte quasi sempre piccola e sfuggente.

Gli omicidi abituali, invece, hanno lo sguardo vitreo, freddo, immobile, qualche volta sanguigno e iniettato; il naso spesso aquilino, sempre voluminoso; robuste le mandibole, lunghi gli orecchi, larghi gli zigomi, crespi, abbondanti i capelli e oscuri; assai di frequente scarsa la barba, denti canini molto sviluppati, labbra sottili; frequenti le contrazioni unilaterali del volto, con cui mostrano i denti canini quasi a sogghigno o minaccia.


Nei primi anni del Novecento, Lombroso conobbe uno straordinario successo. Ma dopo la morte, i suoi capolavori divennero cibo per tarli. La tesi, infatti, che i criminali avessero tratti somatici comuni, non solo venne giudicata scientificamente infondata, ma anche pericolosa: una forma di razzismo, insomma, che al posto delle caratteristiche fisiche dei popoli prendeva di mira quelle degli individui.


Per nulla turbato dalla fine ingloriosa di Lombroso, l’arguto Soleri aveva provato ad accostare le immagini dei filosofi più celebri così da individuarne i tratti somatici comuni. E la mostra ripercorreva le tappe di quel lungo e, a suo dire, fruttuoso lavoro.


Purtroppo però, a parte l’aria pensosa, alcuni filosofi avevano la fronte bassa, altri spaziosa; di nasi ce n’erano di tutti i tipi, per non parlare delle bocche. Che a occhio la mostra dimostrasse il contrario di quanto asserivano le inquietanti didascalie, se ne doveva essere accorto lo stesso Soleri. Così, alla fine della rassegna delle immagini dei filosofi, non trovando una conclusione che apparisse accettabile, aveva inserito uno specchio accompagnato dall’unica didascalia con una goccia di senso:


Il filosofo si riconosce dalla faccia.
Qui la puoi anche vedere: è la tua.


Finché ci saranno persone così, pensò Franz mentre usciva dall’Unione Culturale, Torino rimarrà un posto in cui merita vivere. Stava per dirigersi verso il Po, quando venne catturato dalla voce di Eleni, che proveniva dalla vicina piazza Carignano.


Solita scena, la gente faceva capannello attorno a lei. Infastidito, Franz prese a passeggiare avanti e indietro in attesa della fine dell’esibizione.


− E allora, che ci fai qui Franz?

− Passavo.

− Ma dai.

− Sì, c’è una curiosa mostra qui dietro – Il filosofo si riconosce dalla faccia – e sono venuto a vederla.

− Perché, che faccia ha un filosofo?

− Quella di tutti.

− E allora, che senso ha la mostra?

− Appunto.

− Appunto cosa?

− La mostra dimostra che non c’era bisogno della mostra.

− E tu attraversi mezza città per capire questo?

− Succede, è il mio giorno libero e non avevo di meglio da fare.

− Sei in giro da stamattina?

− No, prima mi sono occupato di profumi; filosoficamente, intendo.

− Davvero?

− Sì, “la felicità è il profumo dell’anima”.

− Wow, è tua questa frase?

− Ma va, è di Romain Rolland, e non sono neanche sicuro di averla capita bene.

− Allora Franz ti faccio conoscere un locale carino.

− Altra birra, altro pub?

− No, una cosa particolare.

− Okay, vada per questa cosa particolare.


Il locale carino era il Grazie Dio, una macchia di verde dalle parti del duomo. La particolarità consisteva nel fatto che si trattava di un bar, un negozio di fiori e una profumeria. Tutto insieme.


Dall’esterno non si poteva immaginare quanto fosse azzeccato quell’intreccio. Ma bastava oltrepassare la soglia per capirlo: il locale sprigionava fragranze profumate, la vista godeva di un tripudio di colori, mentre il pensiero s’infrangeva nella frase che dava senso al locale:


Spero un giorno di incontrare Dio per ringraziarlo dei fiori.


− Che ti sembra Franz?

− Non pensavo che a Torino ci fosse un locale del genere. Come l’hai scoperto?

− Così, passeggiando, per caso.

− Ci vieni spesso?

− Tutte le volte che ho bisogno di un profumo per risolvere una situazione.

− Ma dai.

− Non ci credi? Vieni con me. No, aspetta, prima ordiniamo qualcosa. Che vuoi?

− Un prosecco.

− Perfetto, anch’io.


Si accomodarono in una saletta arredata con un albero che emanava luminose stringhe colorate. La serata trascorse così, tra fiori, profumi e prosecco, che venne loro portato con stuzzichini a base di frutta esotica. Le bollicine resero l’atmosfera frizzante. Semaforo verde, via libera al gioco del puzzle.


Per raggiungere la parte del locale dedicata ai profumi, si doveva percorrere un breve corridoio. Proprio all’inizio di quel passaggio, sulla destra c’era uno scaffale in cui in bell’ordine erano esposti vari flaconi. Di fianco, una tavoletta nera ne indicava il contenuto:


POZIONI DELL’ANIMA


Si trattava di una serie di profumi di Anna Paghera da declinare a seconda delle circostanze. Si andava dal Rosso di Cipro, pozione seduttiva, al Blu d’Arabia, pozione onirica, fino al Verde di Kent, pozione evocativa. Ma c’erano pure il Bianco di Ninive, pozione rivelatrice, il Giallo di Tebe, pozione meditativa, e l’Arancio di Tangeri, pozione energizzante, giusto per amore di completezza.


Franz guardò Eleni negli occhi, sorrise, tolse dallo scaffale un flacone e si avviò alla cassa.


− Aspetta, che fai Franz?

− Acquisto un profumo.

− Quale?

− Rosso di Cipro, pozione seduttiva. Ovvio.

− Davvero?

− Mi faccio la doccia con questo.

− Attento Franz, è un profumo per la casa.

− Meglio.

− E chi vuoi sedurre?

− Non so, anche una cantante greca se mi gira.

− O la ragazza dai capelli color fuoco?


La frase fece a Franz l’effetto di uno schizzo di fango sugli occhi.


− Eleni, ti va se non ne parliamo?

− Come vuoi, ma voglio essere chiara con te: non mi va di mettermi con uno che pensa a un’altra.

− E allora?

− Risolvi i tuoi casini, e poi ne parliamo.

− Okay.

− Arrabbiato?

− No, affatto. Hai ragione. Non riesco a togliermi di mente quella ragazza, anche se ormai assomiglia sempre di più a un fantasma. Ma è solo questione di tempo. O la ritrovo o vado da qualche stregone.


− Si chiamano psicoanalisti.

− D’accordo Eleni. Ora però abbracciami. Anche gli amici si abbracciano, o no?

− Dipende dall’intensità.

− Intensità media, che ne dici?

− Okay, valutazione corretta.


Nel corso della vita, dopo che hai atteso un po’ di volte la pioggia per non piangere da solo, arriva il momento in cui urli con quanto fiato hai in gola:


Basta, non mi fregherà più nessuno.


Per Eleni, quel momento era arrivato al termine dell’ennesima relazione con un artista, genere che prediligeva. Scelta sciagurata, perché un artista è una sorta di disadattato che ha in mente soltanto la sua arte. Il resto, amore compreso, viene percepito come un fastidioso fardello. E Franz aveva il temperamento dell’artista: il suo modo di affrontare la vita da sonnambulo lo attestava.


A ogni buon conto, artista o non artista, Eleni sapeva per esperienza che il possibilismo ama stupire come un profumo capace di catturare la primavera per poi liberarla in pieno inverno. Ma il miracolo non riesce se nei pressi c’è un fantasma dai capelli color fuoco.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO