capitolo 7

Oltre l'apparenza

Bisogna osare l’impossibile perché l’impossibile accada.
Solo chi osa vola.

Puoi fare due errori nella vita: crederti più di quello che sei, o crederti meno di quello che sei. Oberosler propendeva per il secondo, abituato com’era a maneggiare dubbi e ragione. Ormai l’autunno della sua carriera universitaria volgeva al termine; il vento gelido dell’inverno era alle porte.


Per questo aveva accettato con entusiasmo la sfida propostagli dalle Officine Grandi Riparazioni: spremere la storia della filosofia così da ricavarne un vino di facile beva. Un’occasione unica per dire quello che gli frullava per la testa senza doverne rendere conto ai dotti colleghi dell’università di Trento. Ora però, che era venuto il momento di presentare sua maestà l’Essere, provava un senso di vertigine.


I tanti anni passati a spiegare la filosofia, inerpicandosi su cime concettuali al cui confronto quelle delle sue amate Dolomiti erano un pallido esempio, una cosa gli avevano insegnato:


Nella vita è più facile essere felici che semplici.


Come aveva potuto sopravvalutare così le sue capacità di sintesi? Per farsi coraggio chiuse gli occhi e immaginò di dover raccontare una favola:

− C’era una volta…

Le chiacchiere cessarono.


− C’era una volta e c’è ancora adesso l’Essere, il Sacro Graal della filosofia. La ricerca dell’Essere ebbe inizio da una domanda abbastanza banale, se si pensa che in fondo era la stessa a cui cercavano di rispondere i miti con il racconto dell’origine del mondo: esiste un archè, qualcosa cioè che sia il principio di tutte le cose, sostanza di tutte le cose e fine di tutte le cose? Ma se la domanda era banale, le risposte non lo furono affatto. Secondo Talete l’archè coincideva con l’acqua; per Anassimandro invece si trattava di una materia indefinita, che chiamò àpeiron; Anassimene infine ritenne che tutto fosse riconducibile all’aria.


Come potete notare, le risposte di Talete e Anassimene facevano riferimento a elementi conosciuti, l’acqua e l’aria; mentre Anassimandro parla di àpeiron, qualcosa di misterioso, anche se si trattava di un elemento materiale.


Il primo, invece, che diede una risposta astratta al quesito dell’archè fu Pitagora, o meglio la scuola pitagorica da lui fondata. Siamo nel IV secolo a.C. Per i pitagorici l’archè coincide con il numero e i numeri sono in relazione con le cose.


L’uno, per esempio, coincide con il punto. Unendo poi un punto con un altro punto abbiamo la linea; con tre la superficie; con quattro il solido e via di seguito fino a determinare tutte le cose esistenti.


Secondo i pitagorici la filosofia permette all’uomo di comprendere la realtà che lo circonda in quanto l’universo è razionale, dunque misurabile.

Tutto è numero.

− Eppure, nessuno ha mai visto i numeri. In natura, uno più uno fa due con una certa approssimazione, nel senso che non esistono due cose perfettamente identiche: nessuna mela è mai uguale a un’altra mela, così come nessun uomo è mai uguale a un altro uomo. Non stupisce dunque che il termine “filosofia” compaia per la prima volta in uno scritto di Pitagora. I pitagorici erano certo dei matematici, ma si sentivano profondamente filosofi in quanto erano mossi da preoccupazioni filosofiche.


Siamo in un periodo, quello in cui fiorì la scuola pitagorica, che corrisponde all’infanzia della filosofia, un’infanzia fortunata, in cui la filosofia s’intreccia con la scienza, la matematica, l’astronomia, la politica e l’etica.


La frantumazione del sapere che seguirà da Aristotele in poi ha permesso all’umanità di raggiungere risultati strabilianti, a scapito però della perdita della visione d’insieme.


Una perdita drammatica, a ben vedere. Oggi più nessuno è in grado di mettere in relazione le infinite tessere che compongono il mosaico di tutto il patrimonio di conoscenze possedute dall’umanità.

Conosciamo, ma non conosciamo il senso di quello che conosciamo.

− Godiamoci dunque, ancora per un attimo, la visione d’insieme dei pitagorici.

Per i pitagorici la musica esprime in maniera perfetta l’intima struttura numerica dell’universo, che è costituita da sfere celesti: ruotando, queste sfere producono una musica sublime, una melodia che l’orecchio umano non è in grado di percepire.


Lo stesso universo è inoltre paragonato dai pitagorici a una scala musicale: Saturno, insieme alle stelle fisse, è responsabile dei suoni più acuti; Mercurio di quelli più gravi; il Sole, infine, è indispensabile per l’armonia, in quanto corrisponde alla nota centrale della scala musicale.


La vita dell’uomo saggio consiste pertanto nella contemplazione razionale della natura matematica dell’universo.


Che meraviglia!

Silenzio.

Ancora silenzio.


Oberosler respirò profondamente, mentre radunava le sue carte. Poi si concentrò su un nome:


Eraclito


− Ora immaginate uno che aveva capito tutto in un mondo che non aveva capito niente. Sto parlando di Eraclito di Efeso, vissuto tra il 535 e il 475 a.C.


Eraclito aveva capito quello che per noi è ovvio: “tutto scorre”, perché la realtà è un flusso perenne, un divenire continuo. Di conseguenza, “non si può scendere due volte nello stesso fiume” per l’evidente motivo che l’acqua cambia in continuazione, così come cambia in continuazione chi la osserva e tutto quello che le sta attorno.


Eraclito aveva insomma capito che la vita è lotta, contrasto, ma non caos perché tutto è governato dal logos, cioè dalla ragione. Ne è simbolo il fuoco, che per sua natura muta in continuazione. Causa del divenire è il conflitto degli opposti: luce-tenebre, fame-sazietà, salute-malattia, freddo-caldo, giovane-vecchio, concordia-discordia. Pensateci: la fame esiste solo se c’è la sazietà, la luce solo se ci sono le tenebre, per essere giovani occorre poter diventare vecchi, non ci può essere concordia se non c’è discordia.


Se Eraclito fosse vissuto oggi avrebbe spiegato il meccanismo del divenire con pochi esempi; anzi, gliene sarebbe bastato uno. Accendere una lampadina: polo positivo e polo negativo. Ecco perché funziona, il contrasto la fa funzionare. Tutto l’universo segue questo principio.

Possa la discordia sparire tra gli dèi e gli uomini.

− Così prega Omero. Una follia secondo Eraclito. Se infatti la pace scendesse sulla terra, tutte le cose sparirebbero: il contrasto è vita, l’immobilità è morte. Uno come Eraclito, in un mondo che non ragionava, doveva passare per un tipo strano, “l’oscuro” lo chiamavano.


Concludo con un aneddoto, scarsamente attendibile a dire il vero, ma che ci fa capire che cosa pensavano gli antichi di lui.


Eraclito si era ritirato nel tempio di Artemide per giocare a dadi con i bambini; agli Efesini (suoi concittadini) che gli si facevano intorno disse: “Perché vi meravigliate, furfanti? Non è forse meglio far questo, anziché prendersi cura della città insieme a voi?”.


− Eraclito preferisce giocare con i bambini, e il motivo non è difficile da capire: che cosa fanno i bambini se non mettere in dubbio le certezze con i loro perché? E poi i bambini vedono ciò che i grandi non vedono: hanno gli occhi sognanti. Come quelli dei filosofi.

Bisogna volere l’impossibile perché l’impossibile accada.

− Uno stile provocatorio, quello di Eraclito, che lascia interdetti coloro che non riescono a scorgere dal cozzare delle parole scintille di verità.


Oberosler si interruppe pensieroso.

− C’è qualche domanda?

− Sì − rispose Luca. − Non ho capito una cosa: se non si può scendere mai due volte nello stesso fiume, come si fa a conoscere il fiume?


− Grazie Luca, hai centrato il problema. È quello che si chiese Parmenide, di cui parleremo la prossima volta.


Tutti si alzarono. Alice stava per uscire dall’aula, quando venne raggiunta da Oberosler:

− Allora Alice, hai trovato il libro che fa al caso di tua madre?

Una vampata di calore inondò il suo viso. Con uno sforzo terribile si voltò.


− Non ancora, professore.

− Qualche idea?

− No, nessuna idea.


− Allora la prossima volta, se vuoi, prendiamo un caffè insieme, così ne parliamo. Intanto tu continua a cercare.


− Certo, grazie.

− Salutami tua madre.

A Torino esistono centri di eccellenza per la cura dei tumori. Ma la mamma di Alice non aveva resistito a quella risoluta forza interiore che ci spinge a ritenere che “l’esperto venga sempre da fuori”. Più lontano lo trovi, più esperto è. Per questo si era rivolta al San Raffaele di Milano e aveva contattato il dottor Monchiero, un luminare, si è soliti dire, uno di coloro che “illuminano” con la loro scienza la nostra povera esistenza. Il che aveva i suoi rischi: essendo al corrente delle cure più all’avanguardia, se Monchiero diceva che non c’era più niente da fare, non c’era proprio più niente da fare. Potevi girare il mondo, ma era così, il suo giudizio uccideva ogni speranza.


Alcuni medici tengono di più alla loro diagnosi che al paziente. Non era il suo caso. Il paziente non dev’essere preso in giro. Mai. Questa è la prima forma di rispetto nei suoi confronti, sosteneva. E se capiva di aver sbagliato, cambiava strategia e lo diceva.


La madre di Alice faticò non poco a trovarlo.

− Dottor Monchiero, sono la signora Adinolfi, la madre di Alice, che lei ha visitato due mesi fa...


− Certo, come sta la ragazza?

− Apparentemente bene, ma le analisi non sono buone, per questo l’ho disturbata.


− Allora la devo vedere al più presto. Vediamo, potrebbe andare bene il prossimo martedì?


Una sorta di miagolio uscì dalla bocca della madre di Alice.


− Problemi? Altrimenti dobbiamo rimandare di un mese.

− No, per carità. Va bene così.

− Potrebbe venire di mattino, così facciamo un controllo generale, poi nel pomeriggio la visito.


− Certo, grazie. Ascolti, ha già fatto tre cicli di chemioterapia e le analisi vanno di male in peggio.


− Guardi, sarò sincero con lei. Fino a poco tempo fa le avrei detto che la situazione era disperata, oggi sono meno pessimista.


− Mi dica…

− Stiamo facendo degli esperimenti. Se sarà possibile, abbandoneremo la chemioterapia per tentare una cura rivoluzionaria. Ma lei tenga per sé questa notizia; se non dovessimo procedere in questo senso, rischiamo il definitivo tracollo psicologico di Alice.


− Davvero c’è speranza?

− Ha detto bene, c’è speranza, non certezza.

− In ogni caso, è una buona notizia.

è così, ma mi raccomando, non dica niente ad Alice. Le ripasso la segretaria, buona giornata.


La madre di Alice non sapeva se crederci o no. Decise di crederci. Si distese sul divano e finalmente i suoi muscoli che da giorni non trovavano pace si rilassarono, mentre i pensieri presero a vagare alla ricerca di sensazioni piacevoli.


Alice era davvero una brava ragazza che amava la filosofia perché amava la verità, e l’amore è la più alta forma di conoscenza: una frase con cui sua figlia da qualche tempo infarciva ogni discorso, imitando la voce cartavetrata di Oberosler. Doveva esserne orgogliosa. Non tutte le madri hanno delle figlie filosofe. Chissà, poi magari un giorno avrebbe pure trovato il modo di tramutare tanta sapienza in denaro. Ora però doveva guarire. E finalmente c’era una buona notizia.


Cullata dall’ottimismo stava per addormentarsi, quando un quesito inaspettatamente filosofico s’intrufolò nella sua mente:


Ma se l’amore è la più alta forma di conoscenza, perché è così facile innamorarsi delle persone sbagliate?


Perché, le avrebbe potuto rispondere Oberosler, ci sono due tipi di luci: la luce che illumina e il bagliore che acceca. L’amore degli innamorati è un bagliore che acceca. E farsi guidare da un cieco per gli accidentati sentieri della vita, senza finire in un burrone, è davvero chiedere troppo alla fortuna.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO