capitolo 8

Parmenide

Possiamo paragonare la scoperta dell’Essere a quella dell’America.
Un mondo che ha cambiato il mondo.

Il cane dell’ortolano non mangia l’insalata, né lascia che gli altri la mangino. Oberosler era solito affidarsi a questo detto, reso celebre da Lope de Vega, per descrivere coloro che si ubriacano di parole. Non capiscono la filosofia, né lasciano agli altri capirla.


La filosofia non è un liquore che dà alla testa con discorsi superflui, ma l’arte di colpire al cuore la verità per comunicarla con la capacità di sintesi di un cecchino a cui è rimasto un solo colpo per salvarsi. Come Parmenide, pensava Oberosler, mentre raggiungeva le Officine Grandi Riparazioni per la lezione.


Parmenide e Oberosler si piacevano. Affinità elettive, si dice, quando due persone utilizzano le stesse scorciatoie mentali. Nel loro caso li accumunava l’avversione per quelli che manovrano il fumo per poi farsi di nebbia. I cani dell’ortolano, per farla breve.


La poesia consiste nel raccogliere il massimo significato con il minimo di parole. E Parmenide era un poeta; lo si comprende dal filo che annoda la trama dei suoi ragionamenti, l’emozione. Non c’era altro da aggiungere, secondo Oberosler, per collocarlo al confine tra conoscenza e mistero, laddove passeggiano i grandi della filosofia.


− Parmenide − esordì ­­– avrebbe senz’altro apprezzato Shakespeare, uno capace di far riecheggiare sulla scena i lamenti dell’animo umano quando luce e tenebre si scontrano. I due però avrebbero finito con il litigare, nel senso che Parmenide si sarebbe infuriato nell’ascoltare il famoso dilemma di Amleto:


Essere o non essere, questo è il problema.


− “Ma come si fa a dire una sciocchezza del genere?”, avrebbe urlato Parmenide balzando a piè pari sul palco, nonostante gli anni.

Come si fa a dire che il non essere esiste?

− Shakespeare gli avrebbe messo una mano sulla spalla cercando di rasserenarlo. L’alternativa che straziava l’animo di Amleto era tra l’Essere, inteso come vivere, e il non essere, inteso come morire. Ma a Parmenide non sarebbe bastata questa spiegazione.


Un esercito di incantatori di serpenti avrebbe fatto risuonare quel dilemma ai quattro angoli del pianeta. E così l’immaginario collettivo dell’umanità sarebbe stato contaminato da quell’allucinazione logica. Capita lo stesso con l’acqua: basta poco per avvelenare un pozzo, e tutta l’acqua del pozzo non è più potabile. Per sempre.


− Qualcuno ha mai visto l’Essere? − proseguì Oberosler. − Eppure, affermare che l’Essere “è” significa sostenere che l’Essere esiste, nel senso che la mia ragione lo percepisce come reale al pari di questo tavolo.


Il falegname non ha forse intuito qualcosa di questo tavolo prima di disegnarlo e poi di costruirlo? Questo qualcosa è l’Essere. E così per tutte le cose, nel senso che esistono due mondi: quello dell’Essere che percepiamo con la ragione e quello delle cose che percepiamo con i sensi.


Senza questa distinzione non penseremmo quello che pensiamo. Per questo, secondo Platone, Parmenide è il padre della filosofia greca. E senza la filosofia greca non esisterebbe la cultura occidentale.


In preda a un’irrefrenabile esaltazione, Parmenide ci racconta come sia giunto alla scoperta dell’Essere, usando il linguaggio evocativo delle emozioni, lo stesso linguaggio poetico che Esiodo usava per rivelarci l’origine del mondo e degli dèi.


Immagina cioè di essere condotto su un carro trainato da focose cavalle e guidato da fanciulle figlie del Sole (simbolo del sapere). Dopo aver lasciato alle spalle le “case della notte” (le tenebre dell’ignoranza), immagina di giungere al cospetto di una dea che lo esorta a scoprire la “verità ben rotonda”, cioè la verità assoluta simboleggiata dalla sfera, la forma della perfezione.


Parmenide scopre così che l’Essere è e non può non essere, mentre il non essere non è e non può Essere. In ciò risiede la verità. Detto altrimenti, solo l’Essere esiste (nel senso che è reale anche se non lo percepiamo con i sensi), mentre il non essere non solo non esiste ma non può neanche essere pensato. Il pensare a nulla coincide con il non pensare; così come fare nulla vuol dire semplicemente non fare. Tutto qui.


Quando qualcuno, vedendoci assorti nei nostri pensieri, ci chiede: “Che cosa pensi?”, e noi rispondiamo: “A nulla!”, secondo Parmenide diciamo una grande fesseria. Se infatti così fosse, il nulla esisterebbe: il che è assurdo.


Il verbo “essere” può venire usato per unire un soggetto e un predicato (per esempio, “il mare è blu”), o con funzione esistenziale (per esempio, “il mare è”, nel senso che esiste). Parmenide ne dà invece un’interpretazione nuova: lo trasforma in un sostantivo, l’Essere, aggiungendo l’articolo davanti al verbo. Quell’articolo è la radice del modo di pensare astratto dell’Occidente.


Che i sensi ci ingannino è facile da comprendere: basta mettere un bastone dritto nell’acqua. Come ci apparirà? Storto. Com’è in realtà? Dritto. Allo stesso modo i sensi ci fanno apparire tutte le cose diverse tra loro e in divenire, mentre la ragione, andando al di là dei sensi, ci descrive una realtà ben diversa. Io sono, voi siete, questo tavolo è. Che cosa accomuna tutte queste cose? L’Essere.

Com’è l’Essere?

− L’Essere è immobile ed eterno. Non può infatti avere origine in quanto dovrebbe nascere dal non essere, il che è assurdo; né può avere una fine, in quanto se avesse una fine dovrebbe diventare non essere, il che è altrettanto assurdo. Il divenire, poi, altro non è che la mescolanza di Essere e non essere. Come si fa a sostenere una cretinata del genere? Possiamo paragonare la scoperta dell’Essere a quella dell’America. Come Colombo, Parmenide scopre un mondo nuovo, un nuovo orizzonte conoscitivo tutto da esplorare. Dopo aver pronunciato queste parole, Oberosler rimase a lungo in silenzio. Nessuno fiatava.


Tutto era chiaro.


− Parmenide di certo amava più i punti esclamativi di quelli interrogativi – riprese Oberosler −, sebbene nei suo scritti non ce ne sia neanche uno. Ma usare il linguaggio poetico delle emozioni, non è come mettere un punto esclamativo a ogni verso?

L’Essere è e non può non essere!

− Fine della lezione. Non ho altro da aggiungere.

Mentre chiudeva l’iPad, Oberosler cercò con lo sguardo Alice. Voleva invitarla a prendere quel caffè di cui avevano parlato. Ma di Alice nessuna traccia. Eppure fino a un attimo prima era lì, vicino a Valentina, con quel suo sorriso amaro.


Il professor Oberosler non era il tipo che corteggiava le allieve. A dire il vero una l’aveva corteggiata, ma era diventata sua moglie. Sposato, con tre figli ormai grandi, era un convinto monogamo.


I mammiferi non sono monogami, e l’uomo è un mammifero, questo lo sapeva. Sapeva però anche che non si può avere tutto nella vita. Puoi tradire tua moglie, e tua moglie non venirlo mai a sapere. Il problema è che dentro di te si spezza qualcosa, tua moglie cessa cioè di essere la tua complice. E la complicità – intesa come la condivisione dell’Essere, l’essenza di tutto ciò che è, è stato e sarà − è il frutto più dolce del matrimonio.


Per farla breve, il tradimento è un terremoto che fa crollare tutto quello che di bello una coppia ha costruito. Separarsi e divorziare hanno dunque un senso, tradire no. Così ragionava Oberosler.


Qualche anno prima, a Trento, Oberosler aveva affrontato l’argomento in un corso monografico dedicato a Zygmunt Bauman, noto per aver definito “liquida” la società del web a causa del suo dinamismo frenetico. Relazioni che nascono e muoiono in continuazione.


In una “società liquida” anche l’amore è “liquido”, nel senso che i rapporti sono fluidi, senza profondità, instabili. Una vera sciagura, secondo Bauman. Puoi infatti costringere qualcuno con le buone o con le cattive a fare qualsiasi cosa, ma non potrai mai obbligarlo ad amare. Un dono, quello dell’amore, che andrebbe protetto come fa la gabbia toracica con il cuore. Fantasie, avventure, conoscenze: tutto si moltiplica nel gioco di specchi dell’amore. Perché solo se condivise, le emozioni diventano profumi, colori, musiche.

Non c’è felicità se non quella riflessa negli occhi di chi ami.

Eppure viviamo in una società in cui l’amore si scioglie come neve al sole. Un liquido che disseta ma non nutre. Pochi l’hanno capito, e così pochi vivono una vita piena fino all’orlo.


Insomma, pensava Oberosler, Bauman aveva “messo in bella” il suo pensiero sull’amore. Questo per dire che Oberosler trovava Alice carina, di una bellezza fresca, ma tutto finiva lì. Certo, la confidenza che sua madre fosse malata di cancro lo aveva scosso: perché quella ragazza si era spinta a dirglielo? Non era un oncologo. Che cosa si aspettava? Un trattamento di favore? La cosa non quadrava.


In un mondo di pappagalli allevati con cura sui social, Alice si distingueva per la voglia di trovare il codice sorgente della filosofia. Sprizzava intelligenza.


Il bello è che neanche Alice sapeva da quale crepa emotiva fosse uscita quella storia su sua madre. L’emotività è un vento che ti trasporta dove non vuoi perché strappa le vele della ragione. Bisogna imparare a governarla.


Un caffè, certo, aveva detto Oberosler. Ma i maschi ­− si sa − sono persone semplici, con poche idee in testa e una sola chiara, giovani o vecchi che siano. Con Marco sì che avrebbe preso quel caffè. Certo, le sarebbe piaciuto. Che cosa c’era di male? Era libera. Ma per i sogni ci va il vestito giusto. Nelle boutique del centro si nascondeva quello che cercava. Forse.


Giunta in piazza San Carlo, si fermò davanti al Caval d’Brons, uno storico bar al cui ingresso è posizionato il simbolo della città: un toro rampante. Quando passano di lì, i torinesi sono soliti schiacciargli i testicoli. Porta fortuna, dicono. Mentre con sadico gusto Alice si apprestava a quella operazione, si sentì chiamare:


− Signorina? − Era Oberosler.

− Buona sera professore − rispose, mentre tutto il sangue che aveva raggiungeva la testa. Mai aveva provato tanta vergogna di esistere.


− Vedo che è superstiziosa.

− Un po’…

− Mi dispiace che abbia dovuto scappare dalla lezione prima del tempo. Mi chiedevo che fine avesse fatto. Problemi con sua madre?


− Sì, l’infermiera che l’assiste se n’è andata.

− Ah, capisco. Si sta aggravando?

− Purtroppo, lei però non lo sa.

− Come non lo sa?

− Non sa quanto sia grave.

− Ma... allora lo prendiamo questo caffè?

− Certo, grazie professore.


Si sedettero a un tavolino e un cameriere si avvicinò con premura professionale.


− Desiderano?

− Per me un caffè − rispose Alice.

− Anche per lei?

− No, per me un cappuccino − precisò Oberosler.


Alice non sapeva più quale dito mangiarsi dal nervoso.


− Vede signorina, io ormai ho una certa età. La vecchiaia però non porta solo guai, ma anche un po’ di saggezza. Liberiamo perciò il campo da ogni equivoco. Carina com’è, forse la stupirà sapere che non la sto corteggiando.


− Ma che dice professore, non ci pensavo affatto.

− Meglio così. Lei è in un momento di difficoltà, è chiaro. Non so perché abbia deciso di confidarsi con me, ma se lo ha fatto un motivo ci sarà. Voglio che si senta pienamente rilassata. Ha già un guaio grande come una casa. Prima però di consigliarle un paio di libri che potrebbero fare al caso di sua madre, mi permetta di essere sincero fino in fondo. Conosce Nietzsche, vero?


− Chi non lo conosce.

− Secondo Nietzsche, chiunque voglia intraprendere il percorso che conduce alla verità si deve chiedere:


Quanta verità sono in grado di sopportare?


− Mi perdoni, ma lei…

− Tutta la verità! Altrimenti non studierei filosofia.

− Bene, allora immagino di poterle dire quello che ho capito.

− Ci mancherebbe, l’ascolto.


Oberosler si sporse verso di lei con quell’atteggiamento complice di chi confida un segreto custodito a lungo con cura.


− Non è sua madre malata di cancro, ma lei.

Ad Alice parve cadere il mondo addosso. La frase di Nietzsche sembrava l’incipit di un ragionamento filosofico, mentre Oberosler voleva parlare dei suoi fatti privati, della sua malattia, di ciò di cui è lastricato l’inferno.


− Come l’ha capito?

− La parrucca si è mossa un po’... capitava anche a mia madre che aveva un tumore. Scherzi della chemioterapia.


Alice scoppiò a piangere. Un fiume in piena nascosto dentro di lei che non trovava altri sbocchi che i suoi occhi. E mentre Oberosler cercava di consolarla, si alzò con fatica. A vuoto andarono i tentativi per trattenerla.


− Offre lei, vero professore?

− Ma certo.

− Ci vediamo... arrivederci − e si allontanò stringendosi le mani per la rabbia come a voler soffocare ogni altra parola.

Oberosler era frastornato. L’impulso morale l’aveva spinto a cercare di aiutare quella ragazza. Ma l’aveva fatto con la discrezione di un sacerdote che urla nel confessionale. E così si era dimenticato che le parole non sempre dicono quello che vogliono dire.

Sensazioni opposte lo scuotevano, mentre l’immagine di Alice in lacrime rimaneva lì, appiccicata ai suoi pensieri. Qualunque pensiero. Più cercava di liberarsene, più il nodo alla gola diventava stretto.

Dire la verità non risolve i problemi, è il problema.

Una legge banale, trangugiò amaro Oberosler. Da vergognarsi, a capirla con le spalle piegate dagli anni. I bocconi dell’ovvio sono gli ultimi a essere digeriti. Non c’era altra spiegazione.


L’ammissione di colpa funzionò da sedativo e Oberosler smise di torturarsi.

Il progresso umano procede eliminando il buio. In molti luoghi del pianeta non esiste più. Ma è nel buio che comincia la vita. Ed è nel buio che s’impara a sconfiggere la paura. Bisogna aver rispetto del buio perché il buio non è solo buio. La mezzanotte è la prima ora del giorno.


Giunta a casa, Alice fece fuoco su Oberosler con le furiose note dei Carmina Burana. A tutto volume, incurante degli occhi penetranti di sua madre che le frugavano nell’anima.


− Giornataccia?

− Sì − e le raccontò di Oberosler.

− Che devo fare adesso? Scusarmi con lui?

− Lascia stare: ti sembra una buona idea buttare un secchio d’acqua su di un cavo elettrico scoperto? No, niente, quel colloquio non è mai avvenuto.

− Cosa?

− Non c’è mai stato. Ci penseranno il tempo e il silenzio a spiegarlo a Oberosler. Quei due ci sanno fare. E poi lascia stare i Carmina Burana. Sa di falso. È musica del Novecento che si crede medievale, fragore di rabbia e nulla più. Come ti può piacere una follia del genere?


Silenzio. Eppure una spiegazione c’era; bastava cercarla al confine tra ragione e immaginazione.

È musica che intima alla notte: non fare giorno.

Punto esclamativo sottinteso. Ecco che cosa sono i Carmina Burana, avrebbe chiosato Parmenide con quel suo stile visionario capace di coniugare gli opposti, calma filosofica e furore poetico. Ecco perché piacevano ad Alice.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO