capitolo 10

I sofisti

La ragione è un insieme di parole messe in relazione tra loro.
Un gioco linguistico e nulla più.

Quella mattina Oberosler non aspettò che tutti si sedessero. Ancor prima delle dieci incominciò a parlare.


Da Platone sappiamo che Parmenide era “venerando e terribile”, espressione che Omero riservava soltanto agli dèi: “venerando” in quanto padre della filosofia greca; “terribile” in quanto la sua filosofia incuteva timore per la logica ferrea su cui si fondava.


Chi fossero i filosofi l’aveva già capito Pitagora: coloro che vanno alla gran festa di Apollo per vedere, nel senso di “capire”. Ma che cosa dovessero capire lo individuò per primo Parmenide. Da lui parte quel percorso che giunge fino ai giorni nostri; un arcobaleno di teorie che si sono avvicendate nel tempo, per dire della varietà dei contributi.


Bella immagine, quella dell’arcobaleno, anche se io preferisco la foto in bianco e nero di Heidegger: “L’Essere è l’autentico e unico tema della filosofia”.


Ciò non significa che in questo stage ci occuperemo solo dell’Essere: l’Essere sarà però il nostro sole, perché illumina tutta la ricerca filosofica.

Ma torniamo a Parmenide.


Come giunge Parmenide a scoprire l’Essere?


− Con la ragione.


E che cos’è la ragione?


− Un insieme di parole messe in relazione tra loro. L’Essere esiste dunque nella misura in cui il mio pensiero, che è linguaggio, lo fa esistere. E lo fa con un gioco di parole. Questo è quello che sostenevano i sofisti: per loro l’Essere è un’espressione linguistica, in quanto il linguaggio è una convenzione. Null’altro. In pratica per loro non importa quello che uno dice, ma come lo dice. Il termine sofista significa “sapiente”, inteso come “colui che fa professione del proprio sapere”. I sofisti erano cioè quei filosofi che nell’Atene del V secolo a.C. si facevano pagare per insegnare l’arte della retorica (la capacità cioè di saper fare discorsi piacevoli all’ascolto) e la dialettica (intesa come la capacità di saper prevalere nelle discussioni).


Inutile aggiungere che si tratta di quelle arti su cui il politico fonda il proprio successo: per questo i giovani rampolli dell’aristocrazia ateniese erano disposti a pagare cifre anche considerevoli pur di apprendere i segreti del saper parlare con efficacia in pubblico. Così intesa, la filosofia è solo uno sfoggio di belle parole.


L’uomo è misura di tutte le cose in quanto sono e in quanto non sono.


− Questo sosteneva Protagora, il padre della sofistica. Per esempio, il vento non è freddo in sé, ma freddo per la singola persona che sente freddo. Non esiste cioè la conoscenza, ma solo quello che io conosco.


Sembra di sentire un discorso di oggi: “Io la penso così, ma tu pensala pure come vuoi, tanto la verità non esiste”. Viva il relativismo dunque? Un passo alla volta. La questione è più complessa di quello che possa sembrare.


Se da un lato il relativismo è positivo perché contiene il germe della tolleranza, dall’altro è pericoloso in quanto è un piano inclinato verso il nulla. Mi spiego meglio: il relativismo per sua stessa natura tende al nichilismo, al ritenere cioè che siamo nulla circondati dal nulla. Lo dimostra il fatto che tra le tante verità che possiamo sostenere c’è anche quella che dice: noi non esistiamo, il mondo non esiste.


Attenzione però: qui si nasconde il pericolo. Perché se davvero pensiamo di non esistere in un mondo che non esiste, allora non rimane che suicidarsi, porre cioè fine a questa insopportabile farsa che chiamiamo vita.


Soffrire, o se volete anche gioire per nulla, che senso avrebbe?


− Questa è la tragica conclusione a cui si perviene. Non esiste pertanto al mondo una persona totalmente nichilista. Se esistesse, avrebbe pochi istanti di vita.


In ogni caso, Protagora non era uno sprovveduto. Che il relativismo fosse una dottrina pericolosa l’aveva capito, eccome. E corse ai ripari sostenendo che in realtà c’è un principio che deve guidare le nostre azioni: l’utile, inteso come ciò che è bene.


Ma l’utile rispetto a chi? Non solo rispetto al singolo, ma anche alla comunità. Perché l’uomo non è per Protagora un singolo atomo, isolato da tutto e autosufficiente, ma una realtà in connessione con gli altri esseri umani e con la natura che ci circonda.


Parole sagge da condividere. Con molta difficoltà nel contesto culturale attuale si potrebbe dare una spiegazione più efficace alle ragioni della convivenza civile.


Per secoli denigrato, oggi Protagora viene considerato un anticipatore dell’uomo contemporaneo, moralmente contrario a ogni dogmatismo e democraticamente convinto della necessità di trovare un compromesso fra i contrapposti interessi, le diverse fedi e opinioni.


Allo stesso modo, un altro celebre sofista, Gorgia, è pienamente in linea con la sensibilità contemporanea. Basti dire che secondo Gorgia l’essere di Parmenide “unico, indivisibile ed eterno” non esiste. Perché se esistesse e fosse conoscibile non sarebbe comunicabile agli altri.


Come può infatti chi ascolta immaginare quello che uno dice? Non può, perché le parole hanno una natura diversa da quella del pensiero. Per Gorgia, dunque, possiamo indagare e discutere solo di quello che percepiamo con i sensi, non di quello che ci passa per la mente come faceva Parmenide.


Anche in questo caso, si tratta di un’osservazione sorretta da una logica stringente. Non ci possiamo cioè affidare soltanto alla ragione, perché la ragione null’altro è se non linguaggio, e con il linguaggio si può dimostrare tutto e il contrario di tutto.


Ecco perché la conclusione a cui perviene la riflessione filosofica dei sofisti appare oggi tutt’altro che assurda. Eppure i sofisti sono i filosofi più disprezzati della storia, a partire dagli ateniesi, che li percepivano come falsi, opportunisti, manipolatori. Contro di loro si scagliarono artisti come Senofonte, che li definì “prostituti della cultura”, o Aristofane, che nelle sue commedie li presenta come inventori di ragionamenti capziosi e manipolatori.


Ma furono soprattutto le menti più eccelse di Atene − Socrate, Platone, Aristotele − a denigrarli a tal punto che ancora oggi diciamo “sofisticato” per indicare un prodotto non genuino, non autentico, falso.


Volendoci unire anche noi, almeno per un attimo, al coro dei denigratori dei sofisti, vi racconto una storiella.


Un tale si reca in un bar e nota un gruppo di persone intente a conversare allegramente. Ogni tanto qualcuno dice qualcosa e tutti scoppiano a ridere. Incuriosito, l’uomo chiede che cosa stia succedendo. Gli viene risposto che si tratta di amici che si raccontano da anni le stesse barzellette. Per rendere la cosa più rapida, hanno attribuito un numero a ogni barzelletta. Basta così citarla che tutti scoppiano a ridere. “Allora ci posso provare anch’io”, pensa l’uomo, e trovato il momento opportuno esclama: “43!”. Nessuno ride. Deluso, l’uomo rivolge uno sguardo interrogativo al suo informatore, che gli risponde: “Beh, naturalmente tutto dipende dal modo in cui la si racconta!”.


Alice ammiccò divertita.

− Bene, ma non dimenticate che i sofisti erano dei geni: come definire altrimenti coloro che individuarono venticinque secoli fa i temi del dibattito filosofico attuale? Bisogna avere un quadro completo della storia della filosofia per capirne la grandezza.


La prossima lezione sarà dedicata a Socrate, colui che per primo iniziò l’opera di denigrazione dei sofisti. Per Socrate non esistevano i compromessi, che invece erano nella natura dei sofisti. Di fronte all’alternativa tra il sacrificio delle proprie idee e la morte, non ebbe dubbi: scelse la morte, incarnando così fino alle estreme conseguenze la libertà d’indagine propria dello spirito greco.


Ed è questo suo modo d’essere che fa di Socrate un personaggio unico nel panorama della storia del pensiero occidentale: il simbolo stesso della filosofia.


Il profumo di un locale dà il benvenuto a chi entra. Ma vallo a spiegare al padrone del bar in cui lavorava Franz, un brav’uomo che avrebbe meritato un premio alla carriera. Non gli si poteva chiedere di più. Quello era un bar, e l’idea che un bar fosse anche una profumeria e un negozio di fiori aveva su di lui scarsa presa. In una stazione, poi, dove la gente va e viene di corsa. Ma dai!


Sorprendere il cliente, questa era invece la proposta di Franz: attivargli la parte del cervello addetta agli odori, affinché comunicasse all’intero organismo che lì si stava bene. Perché lì si stava bene davvero, il locale sapeva di pulito e il cibo di fresco. La clientela, tutta di passaggio, non dava fastidio, salvo alcuni dirigenti delle ferrovie che avevano scelto quel bar per le loro riunioni clandestine. Dei tipi che avrebbero dovuto incontrare altri se stessi per capire quanto erano stronzi.


A contrastarli con battute al peperoncino provvedeva Filippo, il nipote del padrone del locale. Lineamenti nervosi da trentenne in carriera, Filippo aveva concentrato tra i quindici e i vent’anni tutti i piaceri che la vita intera concede; poi erano comparsi dei disturbi psichici che gli avevano impedito di proseguire gli studi. E della carriera che avrebbe potuto fare erano rimasti solo i lineamenti nervosi.


Adorava lo zio, almeno quanto era adorato dallo zio. Così passava le giornate al bar dandogli una mano o tenendogli compagnia. Dipendeva: c’erano giorni in cui riusciva a distinguere le fantasie della mente dalla realtà; altri in cui tutto era sullo stesso piano, e i pensieri diventavano voci, vere, come se provenissero da un altoparlante.


Quando questo succedeva, immaginava di essere l’imperatore del mondo; non si trattava però di un delirio di onnipotenza ma di sofferenza, nel senso che avvertiva come suoi tutti i dolori del mondo. Lo capivi da come ti guardava, con quegli occhi senza luce.


Quando invece la foschia della mente si sollevava, era un piacere stare con lui. Il suo animo poetico faceva volare la conversazione. Nella discussione sul trasformare o meno il locale in un bar profumeria si era schierato dalla parte di Franz.


− Zio, è un’idea geniale perché i profumi intrappolano i ricordi. Se il bar profumasse come il paradiso terrestre, tutti ci ritornerebbero. Quella dei profumi è una magia che non possiamo lasciarci scappare. Dai, proviamoci.


Niente da fare, anche l’appello poetico del nipote non aveva sortito effetto. Così l’idea del bar-profumeria-negozio di fiori era finita tra i peccati di omissione dello zio. Quelli che danno più fastidio a Dio.


A vivacizzare le giornate provvedeva Eleni; ogni tanto passava di lì dopo aver cantato in piazza Carignano. Si fermava un po’, ma senza aspettare le otto di sera quando Franz finiva di lavorare. Bevevano una cosa insieme e se ne andava.

Chi sa aspettare, sa vivere.

Eleni aveva scoperto questa verità a forza di sberle esistenziali. Franz invece teneva ancora nascosto in qualche armadio il mantello di Superman. Le fantasie adolescenziali faticavano a trasformarsi in buon senso.


Essere single è una condizione bellissima se non sei obbligato a esserlo. Ma anche dire “ti amo” è bellissimo se nessuno te lo chiede. Così Franz faceva discorsi da sofista. Fatica sprecata. La vita è una recita, e mai e poi mai Eleni avrebbe accettato il ruolo della ragazza di scorta.


L’arte dei sofisti non funziona in amore.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO