capitolo 24

Cartesio, Pascal, Spinoza

In natura non c’è cosa più utile all’uomo della ragione: l’uomo dunque sia un dio per l’uomo.

Alle diciassette e trentasette di un pomeriggio di marzo, Alice cessò di ascoltare il dottor Monchiero e guardò fuori dalla finestra. Una pioggia mista a neve infastidiva i vetri dell’ospedale. L’inverno aveva afferrato per i capelli la primavera e non mollava la presa. Ma che importava. Era spacciata. La nuova cura non aveva funzionato. Fine dell’esperimento, e della speranza.


Il volto del dottor Monchiero era una maschera di tristezza. Non ci sarebbero stati altri tentativi. Nessuna operazione. Si tornava alle cure tradizionali con l’entusiasmo di un condannato a morte. La sua vita era quasi finita; prima se ne faceva una ragione, meglio era.


Trattenendo le lacrime in punta agli occhi, Alice uscì dall’ospedale. Vedeva solo ombre. Prese un taxi e rimase in apnea, stordita da quell’urto emotivo. Solo con uno sforzo sovrumano riuscì a riprendersi aggrappandosi a quel “quasi”. E tornò a respirare. “Quasi”, ripeté più volte. Quasi, quasi, quasi finita, ma non ancora finita. C’era ancora tempo. Quanto? Impossibile saperlo. Ma c’era; nella cattiva notizia se ne annidava una buona: era ancora viva. Questo contava.


Mentre saliva sul treno si ricordò di una bambina, Bea, morta a Torino poco tempo prima per una malattia unica al mondo. Una malattia senza nome che calcifica le articolazioni. Qualsiasi gesto quotidiano le provocava dolore. Per tutto il tempo che era vissuta, però, Bea non aveva smesso di sognare. Fare l’anestesista o la pattinatrice: questo era il suo progetto. Amava ballare, e ballava, anche se per farlo doveva infilarsi nel marsupio di qualcuno che ballasse.


Così doveva fare anche lei, perché la realtà è sbagliata e i sogni sono veri.


Guardò fuori dal finestrino. C’era poco da vedere. Qualche casa, qualche luce che si accendeva nell’imbrunire della sera. Tornò a guardare dentro di sé. Occorreva fare un bilancio. Che cosa sarebbe rimasto di lei? Nulla, solo qualche ricordo nella mente delle persone care; morte loro, più nulla.


Puoi anche essere il migliore del mondo, ma se non lasci nulla è come se non fossi mai esistito.


Il sangue le andò alla testa. Non era possibile. Sarebbe appassita senza essere fiorita. Ma cosa poteva fare? Scoprire qualche formula geniale come quella della relatività? Dar vita a una start up che sarebbe diventata la Apple? Costruire una piramide più alta di quella di Cheope? Inventare una teoria, pardon, la teoria che ponesse fine alla ricerca filosofica?


Chiuse gli occhi e si scervellò fino a che non le venne in mente l’idea delle idee. Non molto originale, per la verità, ma collaudata: fare un figlio. Una pazzia: per lei, per il bambino, per sua madre, per Franz, per il mondo intero! Non aveva bisogno che qualcuno glielo spiegasse: non è logico mettere al mondo un orfano.


Una strana luce le illuminò il volto. Logico cosa? “Logico è quel procedimento i cui risultati sono giusti”: questa la definizione. E un giorno il sorriso del bambino avrebbe convinto tutti che aveva fatto la scelta giusta. E le critiche si sarebbero trasformate in lodi.


In ogni caso, c’erano alternative? La natura trova sempre il modo di farti sentire in balìa dei suoi capricci. Non la si può certo sconfiggere, ma vincere qualche battaglia sì.


Fissandola negli occhi (come per dire: ci siamo capiti?), la ginecologa le aveva prescritto la pillola, senza sapere che con Franz già usava l’anticoncezionale più antico del mondo: no.


Per liberarsi di quella scena, respirò un lungo respiro. Poi si immaginò di essere su un’auto lanciata a folle velocità verso la morte. Bene, l’ultimo tratto l’avrebbe percorso con il freno a mano tirato, assaporandone ogni centimetro, lentamente come faceva da bambina con il gelato alla fragola di Fiorio. E con in mente questa scena si addormentò.


Quando si svegliò, guardò fuori dal finestrino del treno: le luci delle case si stavano moltiplicando, segno che Torino era vicina. Ancora qualche minuto e sarebbe arrivata. Doveva prendere una decisione: la decisione, il biglietto per l’eternità. Chiuse nuovamente gli occhi per riprendere ad ascoltare senza distrazioni il fluire dei pensieri.


Dentro di lei era tornata a imperversare la Tarasca. Di solito l’affrontava con la filosofia; ora come arma avrebbe usato l’amore per suo figlio.


Finché fosse stato dentro di lei, quel bambino l’avrebbe sentita solo cantare canzoni che sapevano di paradiso. Così la sua voce sarebbe stata per lui la colonna sonora della felicità, e dal cielo avrebbe potuto continuare ad abbracciarlo.


Lacrime di mamma invasero i suoi occhi, illuminandoli del chiarore bianco della speranza.


Un figlio a vent’anni, in un’epoca in cui l’adolescenza finisce a quaranta: era troppo giovane per farlo. No, al contrario, troppo vecchia. Una malattia con sentenza di morte incorporata che cos’è se non una precoce vecchiaia?


L’ottimismo rende affascinante l’impossibile, e così fa progredire l’umanità. Ma è la ragione che la salva, e la ragione le diceva che era pazza, anche se un figlio era l’unico filo che aveva per rammendare la sua vita.


La fede? Poteva aiutarla fino a un certo punto. Don Vincenzo glielo aveva spiegato ricorrendo a una storiella sufi.


Un maestro e un discepolo giungono in un’oasi. Il maestro chiede al discepolo di legare il cammello e si avvia alla tenda per dormire.

Il giorno dopo il cammello non c’è più. Sparito. Allora il maestro chiede al discepolo dove sia finito. Il discepolo risponde che bisognerebbe fare questa domanda ad Allah, perché è a lui che lo ha affidato.

– Hai fatto bene ad affidarlo ad Allah – risponde il maestro. Ma prima dovevi legarlo. Allah ha solo le tue mani.


Ripensando a questa storiella, Alice avvertì come un brivido lungo la schiena. Doveva impugnare il rasoio di Ockham. La filosofia esercita il suo potere ipnotico con poche frasi. “La verità ama la semplicità” è una di queste. E fare un figlio era la strada più semplice per continuare a vivere su questa terra anche dopo la morte.


Ad attenderla in stazione c’era la madre. Già sapeva, aveva parlato con Monchiero. L’abbracciò.


Mamma, ti dispiace se non ne parliamo?

Come vuoi.

Ho pensato una cosa.

Dimmi.

Vado a vivere da Franz.

Davvero? Nelle tue condizioni? E se poi…

Dov’è il problema? La ginecologa mi ha prescritto la pillola.

Certo.

Il telefono squillò. Era Franz.

Come è andata?

Bene.

Bene?

Massì, già l’avevo capito che quella cura non funzionava.

E allora?

Si vedrà…

Si vedrà cosa?

La scienza avanza, ogni giorno ci sono delle novità. Qualcosa si troverà. Senti…

Dimmi.

Ti dispiace se vengo a stare da te?

Wow... non ci posso credere. Cos’è successo, hai avuto una visione? Come hai fatto a capire che la felicità abita a casa mia?

Un’intuizione… improvvisa… domani ti va bene?

Certooooo!

Ora però ti lascio, porta pazienza, sono molto stanca. C’è qui mia madre.

Okay salutamela, un bacione!


Entrata in casa, Alice si sdraiò sul letto. Quando hai un grande progetto, taci; qualcuno potrebbe distruggertelo con una semplice battuta. Sapienza popolare. Avanti dunque, niente commiserazione e silenzio. Tutto è lecito quando la natura mostra il suo volto bastardo.


Ora però doveva distrarsi. Non aveva ancora ascoltato l’ultima lezione di Oberosler. Era il momento di farlo. Prese l’iPad e si connesse al sito dello stage. Sullo schermo dietro la cattedra comparve la prima scritta:


Almeno una volta nella vita fate come Cartesio: dubitate di tutto.


Dubitare, sintetizzò Oberosler significa sperimentare le due grandi paure che ebbe Cartesio: la paura di ingannarsi e la paura di essere ingannato. Provatele anche voi per un attimo: non solo il mondo che ci circonda non esiste, come in The Truman Show, ma anche noi non esistiamo. Siamo cioè dei personaggi di un romanzo, di un film o, se più vi piace, di un gioco alla playstation. Finti. D’altra parte, quando sogniamo non abbiamo forse l’impressione che tutto sia reale? E se facessimo lo stesso errore di valutazione anche quando siamo svegli? Per millenni si è creduto che la Terra fosse piatta, e non lo era. Che il Sole girasse attorno alla Terra, invece era il contrario. Solo il dubbio aveva spinto Copernico e Galileo a scardinare la descrizione dell’universo tramandataci dalle due più autorevoli fonti del sapere dell’epoca: le Sacre Scritture e Aristotele, la rivelazione divina e il “maestro di color che sanno”. E se anche le ultime convinzioni scientifiche, quelle che riteniamo più solide, dimostrate, convincenti, fossero nient’altro che delle colossali bufale?


Oberosler prese fiato. L’inquadratura si allargò e comparve Franz. A lui spettava il compito di digitare sullo schermo le osservazioni o le domande più opportune. Alcune, frutto di una lunga gestazione, facevano parte del menù di Oberosler, altre sarebbero state cucinate da lui sul momento.

“Gracile”, tenete a mente questo aggettivo.

L’inquadratura si restrinse, e Oberosler riprese a parlare.

René Descartes (italianizzato in Cartesio) nacque il 31 marzo 1596 a La Haye, oggi Descartes in suo onore. Era il terzo figlio del magistrato Joachim, consigliere al parlamento di Rennes.


Morta la madre solo un anno dopo la sua nascita, Cartesio venne allevato dalla nonna. I primi studi li compì in casa sotto la guida di un precettore. Poi, nel 1607, entrò nel collegio gesuita di La Flèche dove, a causa della sua gracile costituzione, godette di un singolare privilegio: poteva dormire fino alle undici del mattino. Successivamente studiò diritto all’Università di Poitiers.


Nonostante il fisico gracile, allo scopo di conoscere il mondo, nel 1618 decise di entrare nell’esercito francese, allora impegnato nella guerra dei Trent’anni, come “gentiluomo volontario”.


In questo periodo, fece tre sogni che culminarono nella visione di un libro. Il significato lo capirà solo più tardi; avrebbe cioè scoperto una “scienza mirabile” se avesse saputo rispondere a questo interrogativo:


Quale metodo occorre seguire per giungere alla verità?


Lasciato l’esercito, si dedicò agli studi di matematica, morale, fisica e astronomia giungendo alla stessa conclusione di Keplero e Galileo: era la Terra a girare attorno al Sole, e non viceversa.


Pervenutagli però la notizia della condanna di Galileo, decise di non pubblicare nulla al riguardo. A differenza di Galileo, Cartesio non aveva infatti fiducia in un possibile cambiamento della Chiesa: riteneva che sarebbe stata la storia a modificarla, non le polemiche.


Nel 1635 ebbe una figlia, Francine, da una breve relazione con una domestica olandese, Hélène Jans, di cui non si sa molto. Pare comunque che sapesse leggere e scrivere, in quanto in una lettera si fa cenno a una corrispondenza con lei.


Cartesio riconobbe la bimba, senza darle però il suo cognome. In ogni caso, la bambina non visse a lungo: morì di scarlattina a soli cinque anni. “Il più grande dolore della sua vita”, scrivono i biografi.


Intanto, le sue opere erano sempre più condannate dai conservatori. Scosso dalle critiche, Cartesio accettò l’invito della regina Cristina di Svezia a recarsi a Stoccolma per metterla al corrente della sua filosofia.


Nonostante la salute malferma, i colloqui si svolgevano alle cinque del mattino nella biblioteca del castello dei Vasa, un salone ampio e poco riscaldato. Colpito da una grave polmonite con febbri altissime, il suo gracile fisico non resse. Morì a Stoccolma l’11 febbraio 1650 alle quattro del mattino. Aveva 54 anni.

Volete un consiglio? Non fidatevi dei sensi.

Oberosler osservò la scritta sullo schermo. Poi riprese a parlare.


Molti avrebbero liquidato la paura di ingannarsi e di essere ingannati come un fastidioso problema psicologico. Non Cartesio. Anzi, questa ossessione lo spinse ad elaborare un metodo composto di varie regole, tutte però riconducibili alla prima, la regola dell’evidenza:


Accettare per vero solo ciò che appare evidente, ovvero ciò che, in quanto chiaro e distinto, non lascia dubbi.


Quale verità dunque ci appare talmente evidente, chiara e distinta, da non lasciarci dubbi? Difficile rispondere. A tradirci sono innanzitutto i sensi. Per capirlo, lo sappiamo, basta immergere un bastone nell’acqua: ci appare piegato mentre invece è dritto. Come possiamo allora fidarci di uno strumento come quello dei sensi, capace di ingannarci così facilmente? Non rimane che affidarci alla matematica: 2 + 2 fa 4 anche se stiamo sognando. A meno che anche la matematica non sia fondata su un equivoco inventato da un genio maligno che ama beffarsi di noi, facendoci apparire evidenti cose che evidenti non sono.


Dobbiamo dunque rassegnarci al fallimento? No, perché se anche ci fosse un genio maligno che si beffa di noi, il suo stesso inganno è la dimostrazione di una prima verità chiara e distinta.

Penso dunque sono!

Una svolta fondamentale nella storia della filosofia. Con Cartesio “possiamo finalmente gridare «Terra!», come il navigatore dopo una lunga traversata nel mare tempestoso”, per dirla con Hegel. Cartesio mette cioè a fuoco che la riflessione filosofica deve partire dal soggetto pensante, la “terra” di cui parla Hegel, e non dalle caratteristiche dell’Essere, mettendo l’uomo e la conoscenza al centro del dibattito filosofico. Così facendo, Cartesio inventa un nuovo punto di vista filosofico. È lui “il padre della filosofia moderna”. Un riconoscimento che vede tutti d’accordo, così come nessuno dubita del suo genio matematico (gli assi cartesiani ne sono la più nota dimostrazione). A essere criticate furono invece le sue conclusioni filosofiche, a partire dal celebre “penso dunque sono”. Secondo Hobbes, è come dire:


Io sto passeggiando, dunque sono una passeggiata.


Un’obiezione a cui rispose stizzito lo stesso Cartesio. Il “dunque” – spiegò − non va inteso come una conseguenza: è il pensiero stesso che attesta da sé la propria esistenza. Si tratta di un’intuizione della mente.


Mi scusi professore lo interruppe Franz. Ma se lo stesso “penso dunque sono” è un’affermazione che va interpretata, allora che cosa intende esattamente Cartesio con “chiarezza e distinzione”?


Per Cartesio “chiaro” è ciò che vedo con tutta evidenza, mentre “distinto” è ciò che distinguo da tutto il resto. Attenzione però a non entrare in risonanza con le parole, dandone un’interpretazione piatta. Posso infatti benissimo avere un’idea chiara ma non distinta, osserva Leibniz. Ne sono un esempio i colori: posso cioè dire che la mia giacca è nera, senza saper distinguere quel tipo di nero dal nero delle mie scarpe.


Quindi chiarezza e distinzione non coincidono?


Non sempre, nel senso che un’idea può essere chiara (la mia giacca è nera) e nel contempo confusa (quale nero?). Dunque, il metodo di Cartesio, basato sull’evidenza delle idee chiare e distinte, non permette affatto alla conoscenza di raggiungere con sicurezza la verità.


Ora, professore, le faccio alcune domande secche, di quelle che vanno dritte al punto, voglio dire, così è più facile capirci qualcosa.

Il mondo esiste?

Abbandonata la via dei sensi, e imboccata quella della ragione, non è facile rispondere. Come collegare infatti le idee che ci compaiono nella mente alla realtà che ci circonda? Il pensiero è inesteso, mentre il mondo è esteso. Una differenza incolmabile.


Cartesio risolve il problema sostenendo che l’uomo, per sua natura, possiede non solo idee che provengono dall’esperienza, ma anche idee innate, che sono cioè impresse in noi fin dalla nascita. Tra queste idee, la più importante è quella di Dio.

Dio esiste?

− Senza dubbio, sostiene Cartesio: come possiamo infatti avere l’idea di Dio senza ammetterne l’esistenza? È come “pensare a una montagna senza vallata”. La vallata è inseparabile dall’idea di montagna, così come l’esistenza dall’idea di Dio.


Ma se esiste, in quanto essere perfetto, Dio non può permettere che sia un’illusione tutto ciò che ci appare come chiaro e distinto. L’esistenza di un genio maligno contrasta con l’esistenza di Dio, in quanto Dio è verità infinita.


Anche in questo caso, le critiche non mancarono fin dall’inizio. Le possiamo riassumere nella domanda: era proprio necessario chiamare in causa Dio per giustificare il fatto che l’acqua bolle a cento gradi o il Sole splende?


Allo stesso modo, non mancarono critiche all’altro ruolo che Cartesio assegna a Dio: quello di aver messo in moto l’universo per poi disinteressarsene. Il Dio di Cartesio, osserva Pascal, si limita a dare il primo “colpo”, o se si preferisce un “calcio” al mondo; da quel momento il mondo si muove meccanicamente, e Dio non se ne interessa più.


Infine, la critica si è soffermata sul rapporto dell’anima con il corpo. Secondo Cartesio, l’anima non è unita ma connessa al corpo grazie alla ghiandola pineale (che corrisponde a quella che oggi si chiama ipofisi), situata al centro del cervello. Una tesi alquanto fantasiosa. Per farla breve, Cartesio tenta di dar vita a un sistema filosofico che tutto comprende, dalla matematica alla fisica, dalle scienze naturali all’astronomia. All’etica, invece, dedica un discorso a parte.

Come dobbiamo comportarci?

Secondo Cartesio, solo il giorno in cui conosceremo tutta la verità saremo in grado di distinguere il bene dal male. In attesa però del nuovo edificio della morale, dobbiamo avere una “casa” dove alloggiare. Questa “casa” è la “morale provvisoria”, nel senso che è formata da poche fondamentali regole di comportamento.


Prima regola. Accettare le tradizioni del paese nel quale si vive; solo così, infatti, è possibile avere quella tranquillità necessaria alla ricerca della verità.


Seconda regola. Superare le incertezze che talora incontriamo. Non si può restare perennemente nell’indecisione. Pertanto, una volta riflettuto, occorre rompere gli indugi e fare una scelta da attuare con la determinazione di chi non ha un’altra possibilità.


Terza regola. Non potendo mutare l’ordine delle cose, occorre cambiare i nostri desideri.


Infine, ecco la “regola delle regole”:


Vivi secondo ragione.


Oberosler tacque. Cercò qualche sguardo d’intesa, poi riprese a parlare.

Come vedete, si tratta di regole di buon senso che non potevano appagare un animo desideroso di verità assoluta come quello di Pascal, un altro genio matematico e filosofico del periodo, più giovane di Cartesio di una trentina d’anni.


− In che cosa differivano?


− La riflessione di Cartesio inizia con il dubitare di tutto, quella di Pascal con il dubitare di Cartesio, e non ci vuole molto a capire dove sbaglia:


Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.


Il rapporto cuore e ragione viene spiegato da Pascal con il binomio “spirito di geometria” e “spirito di finezza”. Lo “spirito di geometria” − a cui si affida Cartesio − è proprio della ragione, che si interessa della natura e della matematica.


Lo “spirito di finezza” è invece proprio del cuore e ha per oggetto di ricerca l’uomo e la sua interiorità. È con il cuore e non con la ragione che si intuisce Dio. Questa è la fede. Al riguardo vi rimando al libro Dio esiste, ecco perché, di un mio vecchio amico, Jacques Névache, in cui il ragionamento parte dalla celebre “scommessa” di Pascal. Procuratevelo, anche perché le prove sull’esistenza di Dio vanno esaminate in relazione tra loro, nel senso che sono strumenti di un’orchestra intenta a suonare la stessa musica.


Per Pascal, come per Agostino, Dio è l’unica risposta possibile all’inquietudine umana. L’uomo, infatti, è schiacciato tra due infiniti, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Questa situazione di impotenza lo conduce alla noia, a cui reagisce con il divertimento, cercando cioè di stordirsi in tutti i modi. Eppure l’uomo, sebbene sia una fragile canna sbattuta dal vento, sa di esserlo; l’universo invece non sa niente.


La condizione dell’uomo è simile a un “re decaduto”, uno che pur avendo perso tutto mantiene atteggiamenti regali e prova nostalgia per l’antico splendore, quella felicità che solo Dio sa dare.


Numerosi sono i filosofi che si sono occupati di Dio; di due possiamo però essere certi che l’abbiano davvero amato con tutto il cuore: Agostino e Pascal. Lo avverti dalla loro prosa, che a un certo punto diventa poesia. Come quella di tutti gli innamorati.


Un attimo, professore.

E se invece Dio coincidesse con la natura?

Bene Franz, hai scoperto Spinoza?

Sì, ma sono rimasto sorpreso nel leggere che si tratta di un “ateo religioso”, un “materialista virtuoso”: che significa?


Il fatto è che Spinoza capovolge la logica di Cartesio. Mentre Cartesio parte dall’“io penso”, cioè dall’uomo, e poi passa a occuparsi di Dio, Spinoza parte da Dio e poi passa a occuparsi dell’uomo. Anche perché, secondo Spinoza, Dio non ha creato il mondo, ma è il mondo. Ne deriva un sistema filosofico panteista, nel senso che Dio coincide con la natura.

Che tipo era Spinoza?

Un tranquillo ribelle. Baruch (Benedetto) de Spinoza nacque ad Amsterdam il 24 novembre del 1632 da una famiglia ebrea di origini portoghesi, che si era rifugiata nella tollerante Olanda per sfuggire alle persecuzioni religiose. Spinoza studiò alla scuola ebraica, dove approfondì i testi più importanti della cultura ebraica, come il Talmud.


Nel 1656 venne espulso dalla comunità ebraica, probabilmente per aver negato l’immortalità dell’anima. Qualcuno cercò addirittura di accoltellarlo, mancandolo per poco. Per mantenersi, Spinoza costruiva e puliva lenti ottiche. Grazie poi al lascito di un amico, ebbe una modesta pensione annua che lo aiutò economicamente: dei 500 fiorini della pensione, in realtà, Spinoza ne accettò solo 300, ritenendoli l’equa somma per condurre la vita modesta che desiderava.


Morì a soli 44 anni il 21 febbraio del 1677, forse per una tubercolosi.

Qual è il suo messaggio?

L’uomo è sopraffatto dalle passioni, cioè da quelle emozioni che ci fanno gioire e nel contempo soffrire senza sapere bene il perché. Come uscire da questa schiavitù? “Chiarisci le tue idee − scrive Spinoza − e cesserai di essere schiavo delle passioni”.


Il saggio è dunque virtuoso, in quanto si comporta secondo ragione. In natura, dice Spinoza, non c’è cosa più utile all’uomo della ragione. L’uomo, dunque, sia un dio per l’uomo.

Se Dio coincide con la natura, l’uomo è libero?

Dal punto di vista della natura, parlare di buono o di cattivo, così come di bello o di brutto, non ha alcun senso: tutto quanto esiste e succede ha una causa che si collega ad altre cause. Questa è la legge divina che governa la natura.


Stando così le cose, secondo Spinoza la libertà dell’uomo non può consistere nel fare ciò che gli pare; consiste invece nel vedere le cose con lo sguardo di Dio: in questo scaturisce la beatitudine del saggio.


Mentre l’inquadratura indugiava sul volto pensoso di Franz, Alice spense l’iPad.


Cartesio, Pascal, Spinoza. Sin dalle prime battute, non si può non rimanere affascinati dalla loro logica. Eppure si tratta di tre sistemi filosofici radicalmente diversi. Tutti e tre, però, con al centro Dio.


Un Dio che muove il mondo ed è garante della conoscenza umana, Cartesio; un Dio persona, la sola risposta possibile all’inquietudine umana, Pascal; un Dio che coincide con la natura, Spinoza.


Alice era perplessa. Il pensiero di Dio che tante volte era stato fonte di pace, ora che la sua vita volgeva al termine la turbava. Meglio non pensarci.


Uscì sul terrazzo. Un leggero vento aveva spazzato via le nuvole. La pioggia mista a neve era solo un brutto ricordo. Marzo svelava ora il suo volto primaverile. Alzò lo sguardo. Il cielo stellato, una fotografia di milioni di anni fa. Un ricordo del passato con stelle morte che brillano ancora. Gli occhi si inumidirono di lacrime.

Tu guardi le stelle, stella mia, e io vorrei essere il cielo per risponderti con uno sguardo infinito.

L’eco delle parole di Platone risuonò nella mente di Alice, e la dolcezza della scena la rincuorò. Allora il suo spirito prese a vagare nell’universo, cercando con lo sguardo di raggiungere le stelle, quelle laggiù, più lontane, nel cielo più nero, quelle morte ma ancora vive, quelle che erano riuscite a ingannare il tempo, quelle la cui luce ricordava il sorriso eterno degli dèi greci.


Il gracchiare nervoso di un clacson ruppe l’incantesimo. Abbassò allora lo sguardo e s’immaginò lì sotto, nella tomba, sola, al buio, per sempre. Fuori una lapide. Nome e cognome, data di nascita e di morte; più in basso, una frase per dire tutto quello che c’era da dire.


Alice sentì battere il cuore come se volesse squarciare il petto e fuggire più lontano che poteva. Non aveva mai pensato a un epitaffio. Alla disperata ricerca di un’idea rialzò lo sguardo e nuovamente i suoi occhi si riempirono di lacrime e stelle.


Sì, “volevo essere il cielo” poteva andare bene.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO