capitolo 25

Locke, Berkeley, Hume

A cosa serve la maggior parte dei libri di filosofia?
Altro non sono che libri scritti da dei matti per dei matti!

La primavera, quella giapponese dei ciliegi in fiore, arrivò tardi, e venne subito travolta dal calore dell’estate, che rese più vivace la vita in quel bilocale, incastrato al quarto piano di un vecchio condominio di via San Donato.


Come tutti gli innamorati, anche Alice e Franz amavano coniugare i tempi al futuro. Il tumore? Un tabù. Per un tacito accordo, non esisteva, non era mai esistito. Insomma, se qualcuno avesse ascoltato i loro discorsi avrebbe dedotto che si ritenevano immortali, al pari di tutti i ragazzi del mondo.


Il viaggio emotivo di una coppia innamorata è uno chantilly con tanta panna da gustare sdraiati sulle nuvole. Almeno all’inizio. Poi il rischio diabete è assicurato.


Alice adorava l’ironia carica di profondità di Franz, e ridere era il miglior farmaco che facesse al suo caso. Solo un senso di smarrimento le oscurava il volto quando il test di gravidanza dava esito negativo.


Come tutte le ragazze alle prime armi, pensava che la cosa fosse automatica: rapporto sessuale-gravidanza, ma non era così. No, la chemioterapia non c’entrava, e poi l’aveva abbandonata da tempo senza più riprenderla dopo il fallimento della cura alternativa. Poteva danneggiare il feto.


Quando l’altalena delle emozioni puntava al basso, Alice si rifugiava tra le pagine dei ricordi: lei bambina che dipingeva con le mani. Così si passa il tempo in paradiso, pensava. E quel paradiso sarebbe ritornato tutto imbrattato di colori negli occhi di suo figlio. L’ottimismo è una molla, e in lei scattava con questi pensieri.


Un segreto, quello del figlio, da cui traeva la forza per ingannare la realtà. D’altra parte, che senso aveva parlare di cose che facevano sanguinare l’anima? Il futuro che sognava con Franz era fatto di amore, filosofia e viaggi alla ricerca dei posti più belli da cui guardare le stelle.


Il Mondo in Valigia era l’agenzia che faceva al caso loro. Da decidere rimaneva solo la data di partenza. I soldi? Ma dai, non hanno mai costituito un problema per gli innamorati. Figurarsi per due cacciatori dell’Essere come loro.


E poi, diciamola tutta: da qualche tempo Franz aveva trovato lavoro in un’impresa immobiliare come addetto alle acquisizioni, senza vincoli d’orario. Perfetto. I filosofi sono dei cacciatori: delle idee, d’accordo, ma sempre cacciatori. Infine, c’era l’affitto del negozio di Alice. Di che preoccuparsi?


Quanto al passato, il filo dei ricordi aveva come colonna sonora l’incedere trionfale della Marcia di Radetzky. Tutto quanto era accaduto aveva avuto un unico scopo: il loro incontro. Rullo di tamburi, grazie.


Le storie tra le persone finiscono, ma non spariscono. E dopo un po’ che si è fatta una scelta impegnativa diventa inevitabile chiedersi: e se ne avessi fatta un’altra?


Ad Alice l’interrogativo era collegato a Walter, l’interesse per Marco si era squagliato in una sera, e faceva il confronto con Franz. Discutere con Walter era come rispondere a un quiz a risposte multiple, affetto com’era da bulimia culturale. Risultava facile scartare la risposta strana, ma le rimanenti erano delle trappole mentali. E la discussione degenerava in rissa.


Con Franz, invece, nessun ragionamento aveva mai un filo di grasso. Mai una zeppa. Con chi fosse meglio stare, per una come lei che si alimentava di filosofia, era evidente. Non c’era partita.


Invece a Franz, rimossa già da tempo Nadia dal suo immaginario affettivo, dava fastidio il confronto tra Eleni e Alice. Così aveva preso a scacciarlo appena faceva capolino tra i suoi pensieri: non si paragona un fiore a un frutto, diceva a se stesso spegnendo la mente.


Il che non gli impediva di raccontare ad Alice di Eleni o addirittura di Nadia. Quando un amore sboccia è così, non sopporta le barriere, non solo del presente, ma anche del passato. E viene spontaneo raccontare i trascorsi amorosi, con chi si è stati, com’è andata, perché è finita. Tutto.


Pochi resistono a questa tentazione. Ha qualcosa di eccitante. Ma è sbagliato, perché prima o poi quel passato torna nei discorsi. Anche nell’età dell’oro, quando l’amore si colora di favola. E disturba.


Viaggiare in coppia è il modo più comodo per spostarsi nel tempo e nello spazio. Ovviamente finché dura l’incantesimo, un cocktail fatto di amore e intelligenza a cui va aggiunto, affinché si conservi fresco a lungo, anche un po’ di ghiaccio, la volontà.


Essere felici in coppia è un mestiere, non un regalo degli dèi. Un mestiere rischioso, da edilizia acrobatica. Non basta l’amore. Perché nella vita le svolte maturano lentamente per poi esplodere all’improvviso, ed è troppo tardi per porvi rimedio.


Smaltita l’euforia, se ne accorsero anche Alice e Franz. Shakerare i loro caratteri non era facile. Ci vuole esperienza per fare un buon cocktail, e tanta pazienza affinché non si scontrino le reciproche fragilità.


Di sicuro l’incastro funzionava al mattino. Da quando stava con Alice, Franz aveva preso ad amare l’energia dell’alba. Un cambiamento radicale di quelli che maturano nel passaggio dalla giovinezza alla maturità.


Alice, invece, si crogiolava nel letto fino a tardi. Le piaceva ragionare, al caldo, sotto le coperte, e gioire del buio per un po’.


Quella mattina Franz si alzò di buon’ora con in mente l’incipit del saggio di Oberosler sull’empirismo:


Così come le persone, anche le filosofie emanano vibrazioni.


Certo, la filosofia di Ockham lo faceva vibrare. “La verità ama la semplicità”, non c’è dubbio, e l’empirismo proseguiva l’opera benemerita del rasoio di Ockham. Sarebbe stato lui a spiegarlo ai suoi compagni. Nientemeno. Un gesto di stima, ma anche il modo con cui Oberosler avrebbe valutato la sua cilindrata.


In ogni caso, con l’incoscienza del neofita, Franz si gettò nell’impresa.

Reale, sostengono gli empiristi, è tutto ciò che percepiamo con i sensi. Il resto è solo il parto della nostra fantasia. Se si tenta di salire sugli specchi, come aveva fatto il razionalismo, prima o poi si scivola.


Lo scivolare di Cartesio verso dottrine incerte, come quella sulla ghiandola pineale per spiegare la connessione tra anima e corpo, ne era la dimostrazione. Piedi dunque ben piantati per terra. Presto le vibrazioni di Franz raggiunsero il massimo nel leggere il proclama incendiario di Hume:


Se ci capita tra le mani qualche volume, per esempio di teologi o di metafisica scolastica, domandiamoci: “Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza?” No. E allora gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni.


Nota è l’ansia da prestazione, meno nota quella da comprensione. Il voler cercare di capire tutto subito gioca brutti scherzi. Ed è quello che stava capitando a Franz. Si era gettato con foga filosofica a studiare l’empirismo, ma non stava procedendo in modo ordinato.


Hume è il più importante tra gli empiristi inglesi, d’accordo, ma procede nel solco tracciato da Locke e da Berkeley. Franz se ne accorse. Smise di seviziare Google e decise di occuparsi innanzitutto di Locke.


Vissuto tra il 1632 e il 1704, Locke non solo era il padre dell’empirismo, ma anche del liberalismo: il primo a sostenere il diritto inviolabile alla vita, alla libertà e alla proprietà; il primo ad affermare che la sovranità dei governi deriva dal popolo, e che il popolo aveva diritto di ribellarsi se i suoi diritti non erano rispettati; il primo a parlare di separazione del potere legislativo da quello esecutivo. Intuizione a cui poi Montesquieu darà forma compiuta estendendola anche al potere giudiziario.


Tale è il suo contributo al progresso dell’umanità che è lecito domandarsi: senza Locke, ci sarebbero state la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino emanata dalla Francia rivoluzionaria?


Per comprendere le radici della sua riflessione filosofica, ecco la prima domanda su cui riflettere:


Che cosa significa pensare?


Per Locke, come per Cartesio, pensare significa avere delle idee. Ma, a differenza di Cartesio, Locke non concepisce la ragione come un sole che tutto illumina, ma come “una candela che illumina quel che può”. Dobbiamo accontentarci, insomma.

Come si formano le idee?

Tutte le idee derivano dall’esperienza: la mente è come un foglio bianco in cui non c’è stampata alcuna idea. Immaginiamo, per esempio, di avere a che fare con qualcosa che non conosciamo. Come reagiamo? L’olfatto ne percepisce gli odori; la vista ne vede i colori; il tatto ne valuta la consistenza; il gusto ne definisce il sapore.


Nella nostra mente si formano così delle idee semplici: per esempio, l’idea che quella cosa sia profumata; poi che sia bianca, morbida e infine dolce. Riflettendo e mettendo insieme queste idee semplici, ecco che la mente elabora allora un’idea complessa: l’idea di “torta alla panna”.


Per questo Hume, estremizzando il pensiero di Locke, voleva bruciare la maggior parte dei libri filosofici dell’epoca: a che cosa potevano infatti servire tutti quei ragionamenti campati in aria? Altro non erano che libri scritti da dei matti per dei matti!

Le cose di cui avvertiamo l’esistenza esistono davvero?

Secondo Locke sì, qualcosa deve necessariamente esistere: altrimenti, quale sarebbe la causa delle idee che si formano nella nostra mente? Invece le idee, come quelle di sostanza, genere e specie, è del tutto improbabile che facciano riferimento a qualche cosa che esiste. Allo stesso modo, la matematica è una costruzione mentale frutto di un ragionamento su ciò che conosciamo per esperienza.


Anche per quanto riguarda Dio, Locke parte dai sensi e giunge alla conclusione che debba esistere: poiché infatti qualcosa esiste, questo qualcosa dev’essere stato prodotto da qualcos’altro, qualcosa di pensante e intelligente. Non è cioè possibile che una materia non pensante e non intelligente generi l’uomo, pensante e intelligente.


Come si può notare, Locke è ancora legato al razionalismo. Il suo è un empirismo moderato. Più radicale di lui fu senz’altro Berkeley, un vescovo anglicano di qualche decennio più giovane di Locke.


Secondo Berkeley, tutto ciò che esiste è nella nostra testa. Noi non possiamo conoscere altro che le nostre idee. I limiti del mio pensiero sono dunque i limiti del mondo. Ma se il mondo esiste solo nella misura in cui lo percepiamo, che cosa gli succede quando non lo percepiamo? Succede che lo percepisce Dio, che vede ogni cosa.


Anche nell’empirismo di Berkeley possiamo dunque trovare traccia del razionalismo cartesiano, sebbene in una logica ribaltata.


Penso, dunque credo.

Solo Dio, constatava Berkeley, può rendere stabili e coerenti le nostre idee, in quanto ne è la causa. Berkeley ne è talmente convinto da ritenere che l’esistenza di Dio sia percepita dagli uomini con maggiore evidenza dell’esistenza umana.


Chi tentò invece di spezzare ogni legame tra empirismo e razionalismo fu Hume, il più radicale degli empiristi.


Innanzitutto Hume chiama “impressioni” le idee semplici, quelle che la mente percepisce per prime, mentre con il termine “idee” indica le percezioni successive, meno intense.


Osservare per esempio un albero di mele è diverso dall’avere un ricordo di quell’albero. Per questo le idee non sono altro che copie affievolite delle impressioni.


Nel caso dell’albero di mele, la nostra mente percepisce separatamente le foglie dell’albero, poi i rami e infine il tronco. Se questa esperienza si ripete, ecco che la nostra mente elabora l’idea di albero.


Per meglio spiegare il suo pensiero, Hume introduce il famoso esempio del gioco del biliardo. Osservandolo, appare a tutti evidente che nel momento in cui due palle si scontrano, una palla sia la causa del movimento dell’altra. Evidente però non significa certo. Se per esempio si verificasse un improvviso terremoto, le due palle del biliardo si incontrerebbero? Il principio di causalità è dunque nella nostra testa, non nelle cose.


Il che non significa il ritorno allo scetticismo radicale dell’antichità. Perché Hume non afferma che sia impossibile conoscere, ma che la conoscenza abbia a disposizione solo il materiale che ci deriva dalle impressioni.


Se si vuole, dalle impressioni possiamo anche tentare di procedere in modo induttivo, compiendo un percorso conoscitivo contrapposto a quello deduttivo.


Stop. Il rap della suoneria telefonica distrasse Franz. Era suo padre. L’avrebbe richiamato più tardi.


La storia della filosofia si può riassumere nello scontro tra induttivisti e deduttivisti, tuonava Oberosler nel suo saggio sull’empirismo.


L’induttivista è un tipo concreto: “Questo vedo, sento, tocco: questo capisco” è il suo motto. Parte cioè dall’esperienza e solo dopo aver verificato il regolare ripetersi di quello che ha osservato elabora delle leggi universali.


Il deduttivista, al contrario, è un teorico: “I sensi ingannano; la ragione illumina” è il suo motto. Di conseguenza elabora con la ragione delle leggi universali, che poi applica ai casi particolari.


Deduttivista era per esempio Platone con il suo mondo delle idee, a cui guardare per capire quello reale.


Induttivista era invece Aristotele, a cui piaceva osservare le cose percepite dai sensi e poi ragionarci su.


Di primo acchito viene da credere agli induttivisti. Attenzione però a non lasciarsi suggestionare dalla loro concretezza, suggeriva Oberosler: il metodo da loro proposto è infatti assai pericoloso, come dimostra la storia del tacchino induttivista, che Bertrand Russell racconta così:


Fin dal primo giorno di permanenza nel suo nuovo allevamento, il tacchino aveva osservato che alle nove del mattino gli veniva portato il cibo.

Da buon induttivista non trasse precipitose conclusioni dalle prime osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e in quelli freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole.

Finalmente la sua coscienza induttivista fu soddisfatta e il tacchino elaborò allora un’induzione che dalle asserzioni particolari relative alle sue vicende alimentari lo fece passare a un’asserzione generale, una legge, che suonava così:

Tutti i giorni, alle ore nove, mi danno il cibo.

Purtroppo per il tacchino, e per l’induttivismo, la conclusione fu clamorosamente smentita la mattina della vigilia di Natale!


Ridendo, Franz si alzò per sgranchirsi un po’. Intanto Alice si era truccata come se dovesse andare a un colloquio di lavoro. Brutto segno: lei era di una bellezza timida, non le donava tutto quel trucco. In ogni caso, meglio far finta di niente. Il viavai degli umori di Alice aveva alzato la soglia di attenzione di Franz.


Come va, Alice?

Insomma, e tu? Che cosa stavi studiando?

Gli empiristi: Locke, Berkeley, Hume.

E ti piacciono?

Sì, molto, anche se non sempre hanno ragione, come dimostra la storiella del tacchino induttivista…


Cosa?

Poi te la racconto. A ogni modo, secondo me sbagliano di più i razionalisti. E poi gli empiristi dicono cose che capisco.


Cioè?

Si conosce solo per mezzo dell’esperienza.

Anche da un punto di vista morale?

Questo devo ancora studiarlo. Aspetta, te lo dico fra poco.


Franz riprese a sfogliare il libro di Oberosler sull’empirismo e digitò qualcosa su Google. Ormai si sapeva orientare.

Sì, direi che ci siamo.

Cosa vuoi dire?

L’empirista Hume la pensa all’opposto del razionalista Spinoza, ricordi?

Spiegati meglio.


Per Spinoza “le passioni sono solo delle idee confuse” in quanto si tratta di emozioni irrazionali, mentre per Hume sono impulsi naturali.

Quindi da assecondare?

Certo, ma con l’approvazione della ragione. Il meccanismo è molto semplice. Secondo Hume, ciò che avvertiamo come utile e piacevole per la vita sociale coincide con il bene; quello che invece avvertiamo come dannoso e doloroso coincide con il male.


E le tradizionali regole morali?

Se non rispondono a questo criterio, allora sono solo delle camicie di forza che la tradizione ci impone senza tenere conto di quello che in realtà sentiamo.


Alice scosse più volte la testa, poi la abbassò come se cercasse qualcosa; di colpo infine la rialzò.


Franz, e se Dio guardasse il mondo con un cannocchiale empirista?

Cosa vuoi dire?

Mentre parlavi ho provato a mettermi nella mente di Dio. Un Dio concreto, insomma, alla Ockham.

E allora?

E allora mi sono chiesta: perché Dio mi ha creata per poi farmi morire così giovane?


Non riesco a morire nel silenzio universale. Voglio sapere perché. La rabbia è come la lava in ebollizione all’interno di un vulcano: prima o poi fuoriesce. Scusa Franz, ma non ce la faccio più a stare zitta.

E allora parla.


Se Dio è un empirista, il tipo concreto che dicevamo, ci possono essere solo tre motivi per cui ha deciso di farmi morire giovane: primo, perché non servo più; secondo, perché non potrò mai fare meglio di quanto ho già fatto; terzo, perché non sono in grado di fare quello che dovevo fare.

Quindi?

Quindi Dio ha smesso di credere in me. Questa è la situazione in cui mi trovo.


Sospirarono all’unisono.

Alice?

Sì?

E allora smetti di credere in lui. Che sarà mai? Rassegnati.

No, Dio c’è ed è gioia. Non mi rassegno. Da qualche parte troverò una spiegazione razionale che sia in sintonia con la fede. La fede è casa mia, non ne ho un’altra in cui abitare.


Ascolta: basta con questi ragionamenti, stanno prendendo una piega fastidiosa. Mi ricordano i discorsi di Nadia quando era strafatta. Non è giornata, vero? L’ho capito appena ti ho vista.


Da cosa?

Quando ti trucchi pesantemente lo fai per nascondere la rabbia. E invece risalta ancora di più, se lo vuoi sapere.

Che banalità da parrucchiera!

Sarà psicologia da parrucchiera ma è così.

No, il fatto è che…


Dai, non si tratta di pigrizia filosofica, parliamone un’altra volta, quando sarai più calma, anche domani se vuoi.

Per me domani è adesso.

E allora non perdiamo tempo.

Il sorriso ingravidante di Franz non lasciava dubbi su quale fosse, a suo modo di vedere, la migliore alternativa a quei discorsi.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO