capitolo 27

L'esistenza di Dio

Noi non vediamo Dio all’opera, ma non vediamo neanche all’opera la nostra intelligenza.

La fede è un incendio interiore. Se il fuoco si spegne è molto difficile riaccenderlo. Secondo la teologia, fede, speranza e carità costituiscono le virtù cardinali, i tre “cardini” che rendono possibile la relazione dell’uomo con Dio.


Tra i credenti, c’è molta attenzione nei confronti della fede e della carità. Eppure il castello interiore di chi crede si fonda sulla speranza.


“La fede è la certezza delle cose sperate”, sosteneva Fëdor Dostoevskij. Con ragione. Prova ne sia che quando si perde quella visione innocente delle cose che la speranza sa dare, la luce della fede si spegne. E si rimane al buio, circondati da un universo ostile. È la notte dell’anima, dicono i mistici.


Alice aveva perso lo sguardo innamorato di chi crede. Il non riuscire a rimanere incinta la innervosiva. Ma non era questo il punto. Il punto era che non perdonava a Dio il tumore che la stava ammazzando. E se non lo aveva creato, allora lo aveva permesso, il che, se possibile, era ancora peggio. Non si può essere così malvagi. Non si può.


In ogni caso Dio non era amore come insegnava il cristianesimo. E se non era amore, che Dio era? Un essere cinico e indifferente? Se vedi uno che affoga, che fai? Non ti butti in acqua per salvarlo? No, lui stava a guardare.


Vuoi far ridere Dio?
Allora parlagli dei tuoi progetti.


La battuta, sentita chissà dove, come uno schizzo di benzina gettata sul fuoco alimentò ulteriormente la rabbia di Alice.


Dio non esiste: era l’unica conclusione accettabile.


E se la rabbia l’avesse resa sorda e cieca? Allora avrebbe dovuto affrontarlo nel giorno del giudizio universale e rendergli conto della sua scelta. Bene! Si immaginava anche la scena. Prima che Dio avesse il tempo di aprire bocca gli avrebbe urlato:


Vergognati, potevi anche tenerlo per te un mondo così!


Per distrarsi, Alice si guardò attorno. Piazza Castello è il cuore di Torino, un cuore antico ma non stanco.


Situato al centro della piazza, Palazzo Madama ha due facciate appartenenti a epoche diverse: quella verso via Po ricorda la storia della città dall’arrivo dei Romani al Medioevo; quella verso via Garibaldi racconta invece delle sue ambizioni nell’età moderna.


Di lato, Palazzo Reale celebra la gloria dei Savoia, che fecero di Torino la loro capitale. Duemila anni di storia fatta di marmo e mattoni concentrati in un solo colpo d’occhio.


Ad Alice, piazza Castello dava energia: la sentiva scorrere nelle vene guardando quei sogni di eternità diventati palazzi. Sì, anche lei avrebbe messo al mondo il suo sogno di eternità. Era solo questione di tempo, o no?


Le spine dal cuore si levano parlando. Lei invece taceva, e così si conficcavano sempre di più nella carne. Non c’erano alternative. Il suo progetto sarebbe evaporato come acqua al sole del deserto se solo ne avesse fatto cenno. È duro soffrire, e soffrire in silenzio è ancora più duro. Ma ogni cosa ha un costo, e la solitudine era il prezzo da pagare per il suo sogno di eternità. Giusto, triste però come ragionamento. Spezza l’anima, meglio cambiare discorso.


Via Po parte da piazza Castello per raggiungere piazza Vittorio Veneto. Ma non è una via come le altre, e non solo per i portici che permettono di arrivare al Po senza bagnarsi in caso di pioggia.


Al pari di Palazzo Madama, via Po ha due identità, come se si trattasse di due vie: la parte di destra, piena di negozi e bar, si atteggia a centro commerciale; quella di sinistra, invece, stipata di edifici pubblici, come la vecchia università, ha un’aria intellettuale. E così i suoi portici, liberi da vetrine e dehors, si prestano a essere invasi da bancarelle piene di libri.


Alice rallentò il passo. C’era di tutto. Atlanti, dizionari, ricettari e ovviamente romanzi, un fiume di romanzi, alcuni dei quali letti probabilmente solo da qualche sfortunato redattore. Provò a immaginarsi i loro autori. Chissà se avevano smesso di scrivere? Lei lo avrebbe fatto? Non ne era certa. L’ostinazione faceva parte del suo carattere.


Su una bancarella c’era un libro che sembrava essere stato messo lì, con cura, apposta per lei. Proprio il libro citato da Oberosler nella lezione su Pascal: Dio esiste, ecco perché di Jacques Névache. In pratica, un rapido excursus all’interno della storia della filosofia, riguardante le prove dell’esistenza di Dio.


Alice comprò il libro e si diresse verso i Giardini Reali inferiori, quelli sempre aperti al pubblico, dove il tempo sembra girare a vuoto. Nel senso che la magnificenza regale del passato convive con la banalità del presente, e si ha come l’impressione di passeggiare in un’epoca mai esistita in cui i comuni mortali sono dei re. Il luogo ideale per dialogare con se stessi.


Il clima dolce della giornata invitava alla lettura. Alice si fermò pensierosa. Lo stomaco da qualche tempo si lamentava inascoltato. Di fronte a Palazzo Madama la focacceria Gran Torino faceva al caso suo.


Jacques Névache era un gesuita francese amico di Oberosler. Nell’introduzione spiegava che il problema dell’esistenza di Dio non andava confuso con le vicende personali. Trovava quindi decisamente infantili coloro che, vittime di qualche disgrazia, cessavano di credere in Dio. Non aveva alcun senso. L’esistenza di Dio era una questione interiore, non esteriore. Questo era il primo passo da compiere: lo spiegava bene Pascal. Ecco il suo ragionamento.


Tutti devono rispondere alla domanda: Dio esiste? Non si passa l’intera esistenza senza affrontare questo problema. E Pascal consigliava di scommettere sull’esistenza di Dio con un ragionamento che non faceva una grinza: se Dio non esiste, sosteneva, il credente si priva di quei pochi piaceri che una vita senza la religione concede, brevi emozioni che finiscono nel nulla. Ma se Dio esiste, il credente guadagna tutto.


Quale giocatore, dunque, di fronte alla possibilità di rischiare di perdere il finito per guadagnare l’infinito non troverebbe conveniente la scommessa? Confondere poi il problema dell’esistenza di Dio con quello del dolore era come scambiare la Russia con la Prussia, avrebbe detto una brava maestra delle elementari.


Alice si sentì chiamata in causa. Aveva ragione Névache: doveva darsi una calmata se voleva capirci qualcosa.


Una coppia passò scherzando. A proposito, che stava facendo Franz? Era con suo padre. Okay, ora ricordava.


Da quando Franz era salito sulla giostra della filosofia aveva assunto le movenze del saggio empirista. La pazza era invece lei, che inseguiva l’eternità come se fosse un luogo da abitare, mentre si trattava di un concetto della mente.


Eppure Névache dava l’impressione di sapere il fatto suo. Per sfuggire al senso di inadeguatezza che la pervadeva, Alice amava infilarsi nelle pieghe delle contraddizioni: contraddire, ma anche essere contraddetta. E il ragionamento filosofico con il suo incedere regolare, simile a quello di chi va in montagna, è un ottimo antidoto alla rabbia.


La prima parte del libro di Névache era dedicata alle prove sull’esistenza di Dio fondate sulla ragione. Con stupore Alice apprese che era stato addirittura Socrate a inventare il genere.


Noi non vediamo Dio all’opera − sostiene Socrate − ma non vediamo neanche all’opera la nostra intelligenza. Dunque, come non dubitiamo di possedere l’intelligenza, così non dobbiamo dubitare dell’esistenza di Dio.


Uno schema logico che ritroviamo in tutte le prove che saranno successivamente prodotte. La più affascinante delle quali resta quella del medievale Anselmo d’Aosta, chiamata da Kant “ontologica” in quanto riguarda l’essere di Dio.


Anselmo si rivolge all’ateo, che afferma: “Dio non c’è”. E gli fa notare che per negare l’esistenza di Dio deve sapere di chi sta parlando, altrimenti la sua affermazione è priva di senso.


Quando l’ateo pensa a Dio, a che cosa pensa? A un essere perfetto di cui non può pensare il maggiore. Ma se questo essere è la perfezione assoluta, osserva Anselmo, lo deve pensare esistente. Come può infatti l’ateo pensare un essere perfetto privo dell’esistenza, mentre lui che è imperfetto la possiede? Assurdo, pura follia. Per farla breve, non si può pensare nulla che non sia esistente.


L’isola di formaggio non esiste, d’accordo; ma le isole e il formaggio, separatamente, sì. Le cose strampalate che produce la nostra fantasia non sono altro che un assemblaggio di cose esistenti. Proprio come i sogni.


Un grossolano esempio, quello dell’isola di formaggio. Dio infatti è un pensiero, non un’immagine, assolutamente altro dalle cose che percepiamo con i sensi. Nessun paragone può essere calzante.


Dunque, dire “Dio non c’è” è una palese contraddizione. Se infatti Dio è Dio, Dio esiste, concluderà Bonaventura. Che è come dire:


Se lo pensi, Dio esiste.


Il ragionamento di Anselmo lasciò Alice come stordita. Sollevò gli occhi dal libro e si guardò intorno. Il tempo si era guastato. La luce avvolgente della primavera era scomparsa, oscurata da un grigio autunnale amante della pioggia. Conveniva muoversi, e in fretta.


In pochi minuti, Alice attraversò i Giardini Reali e raggiunse i portici di piazza Castello. Ora poteva anche piovere a dirotto, se voleva. In ogni caso il problema non era la pioggia, ma Anselmo. Uno tosto davvero. Forse nessuno ha mai creduto in Dio grazie ad Anselmo, ma di certo il suo ragionamento non ha mai lasciato nessuno nell’indifferenza.


era lì che l’attendeva. Ordinò un cappuccino, e riprese la lettura alla ricerca di quel lampo di luce che mettesse la parola fine alla sua ricerca.


Per quanto brillante, la prova ontologica non aveva convinto Tommaso d’Aquino, che si chiede: qual è il presupposto da cui parte Anselmo? La definizione di Dio. Ma così facendo dà per scontata l’esistenza di Dio, mentre è quello che deve dimostrare. Un bel trucco, non c’è che dire.


Scartata questa prova, Tommaso ne proponeva altre cinque nel solco della riflessione filosofica di Aristotele.


La prima prova è quella cosmologica, secondo cui ogni movimento non può che essere causato da un altro movimento. Una catena di movimenti che però non può essere infinita, altrimenti il movimento sarebbe senza spiegazione. Deve quindi esistere una realtà immobile, non mossa, che muove tutto l’universo. Questa realtà immobile è Dio.


La seconda prova è simile alla prima: ogni cosa è mossa da una causa. Deve dunque esistere una causa prima all’origine di tutte le cose. Questa causa prima è Dio.


La terza prova si fonda sulla necessità, nel senso che le cose esistenti prima di esistere potevano anche non esistere. Ma perché una cosa possa esistere occorre necessariamente che ce ne sia un’altra che la renda possibile.


Posso, per esempio, avere un figlio o non averlo. Ma perché questo sia possibile devo necessariamente esistere. Allo stesso modo, deve dunque esistere un ente che ha reso possibile l’esistenza della realtà. Questo ente necessario è Dio.


La quarta prova fa riferimento ai diversi gradi di perfezione. Notiamo infatti che le cose che esistono sono più o meno perfette, come se esistesse una piramide che va dal meno perfetto al più perfetto. Di conseguenza deve necessariamente esistere la cima di questa piramide, una realtà cioè che abbia in sé la perfezione assoluta. Questa perfezione assoluta è Dio.


La quinta prova è quella finalistica. Le realtà fisiche, benché non intelligenti, sono indirizzate verso un fine. è necessario, quindi, che vi sia una realtà intelligente che organizza il mondo. Questa realtà intelligente è Dio.


Insomma, non è possibile che tutte le frecce raggiungano casualmente il centro di un bersaglio. Deve esistere necessariamente un arciere che intenzionalmente le scaglia. Dunque basta riflettere su come il mondo è organizzato per capire che Dio esiste. Questo il succo del ragionamento di Tommaso.


Nonostante Névache fosse convinto dell’esistenza di Dio, e questo intimo convincimento tracimasse da ogni riga, c’era come un tarlo che lo rodeva, qualcosa che gli impediva di esultare ogniqualvolta un ragionamento brillava per la sua chiarezza concettuale. Come se un calciatore dopo un goal non riuscisse mai a dar sfogo alla sua gioia. Questo tarlo aveva un nome, Kant, a cui era dedicata la seconda parte del libro.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO