capitolo 32

Kierkegaard

La disperazione e l’angoscia sono i fari della nostra esistenza.
Illuminano il percorso che dobbiamo compiere.

Il pessimismo è una filosofia, un modo di vedere le cose persino seducente come quello di Schopenhauer. La depressione invece è una malattia che può avere cause genetiche e si cura con le medicine. Per chi ne soffre, il tempo si ferma. Nessun ragionamento. Schermata nera.


Che il filosofo danese Søren Kierkegaard fosse divorato dalla depressione lo si capisce già dal nome, sostengono i maligni: Søren vorrebbe dire “severo” e Kierkegaard “cimitero”. Nomen omen, “il nome è un presagio”, dicevano i latini, che se ne intendevano.


Per averne una conferma, basta procurarsi qualche sua opera: Timore e tremore, Il concetto di angoscia, La malattia mortale. Non proprio un’esplosione di allegria. Un male di vivere, quello di Kierkegaard, le cui radici andrebbero ricercate in una vicenda che sa di tragedia greca.


Era accaduto che il padre del filosofo, Michael Kierkegaard, allora dodicenne pastore di pecore, preso dallo sconforto per il freddo e la fame, era salito su un colle dello Yutland dove aveva urlato tutta la sua rabbia contro Dio, maledicendolo. Nell’alto dei cieli, Dio ode la bestemmia, ma non scaglia alcun fulmine per incenerirlo. Al contrario, lo accontenta.


Poco dopo, uno zio lo invita a Copenaghen e lo introduce nel commercio. In breve diventa ricchissimo. Rimasto vedovo, sposa la governante, che era stata a lungo sua amante. E dalla nuova moglie ha sette figli.


In realtà, Dio l’aveva accontentato per punirlo. Uno dietro l’altro muoiono cinque dei suoi figli e la stessa moglie. Rimangono in vita solo il primogenito Pietro, che diventerà vescovo luterano, e Søren, il filosofo, l’ultimo venuto al mondo, nato quando suo padre aveva cinquantasei anni e la madre quarantaquattro.


Pietro e Søren crebbero in un’atmosfera famigliare cupa. Il padre era convinto che sarebbero deceduti entrambi prima dei trentaquattro anni. D’altra parte Cristo era morto a trentatré: come potevano dunque i figli di un bestemmiatore e di un peccatore nella carne come lui raggiungere un’età maggiore?


Con la morte degli ultimi due figli in giovane età, la vendetta di Dio sarebbe stata completa. “Mi è toccato di nascere già vecchio”, scrive Kierkegaard riflettendo sulla sua triste infanzia.


Già, pensò don Vincenzo, chiuso nel suo confessionale, mentre un rumore interrompeva la sua riflessione. Qualcuno voleva parlargli? Guardò dalla grata. Nessuno. Tirò la tenda davanti a sé. Il Duomo era deserto.


Don Vincenzo aveva una bulimica passione per Kierkegaard fin dai tempi del liceo. Gli piaceva come il filosofo danese avesse preso a ceffoni Hegel, da lui ritenuto nient’altro che un megalomane che aveva avuto l’ardire di sostituire Dio con la ragione, e così ridotto la religione a una spiegazione della verità per bambini.


“Hegel, osserva Kierkegaard, cade nel ridicolo: pretendendo infatti di osservare il mondo con gli occhi di Dio e nel descrivere l’assoluto si dimentica del Singolo, cioè dell’individuo nella sua esistenza concreta. Ha cioè costruito per l’uomo un grandioso edificio, per mandarlo infine a vivere in una modesta baracca”.


E poi a don Vincenzo era piaciuta l’originale riflessione sull’esistenza di Kierkegaard, che ne fa un filosofo del Novecento vissuto nell’Ottocento. Perché è solo nel Novecento, con l’affermarsi dell’esistenzialismo, che si comprenderà tutta la grandezza filosofica di Kierkegaard.


Per il danese ex-sistere significa “emergere dal nulla”. Dunque qualcosa di incredibile. Ma attenzione: la libertà di cui godiamo comprende anche la possibilità di ripiombare nel nulla. Un paradosso che Kierkegaard spiega con grande sapienza letteraria. Gli infiniti modi di vivere sono da Kierkegaard ricondotti a tre tipologie, che costituiscono tre stadi o tappe di un possibile percorso esistenziale.


Il primo stadio è quello estetico. È questo il modo di vivere di chi ricerca il piacere, vuole godere la vita e fuggire da ogni impegno, inevitabilmente caratterizzato da continuità. Perché ciò che l’uomo estetico teme più di ogni altra cosa è la noia che nasce dalla ripetizione.


Il personaggio che meglio incarna questo modo di vivere è il seduttore, da Kierkegaard indicato con il nome di Johannes, con chiaro riferimento al Don Giovanni di Mozart. Il dongiovanni ama ogni bella donna che incontra, ma nessuna definitivamente. Disincantato e astuto, è attratto dalla conquista. Vive nell’attimo, nell’ebbrezza, nella poesia. La paura di affrontare la prosa della vita lo costringe a una continua fuga; fino a che proprio la noia che tanto teme non giunge a rivelargli la miseria della sua esistenza.


Centocinquant’anni dopo, Bauman dirà le stesse cose chiamandole “amore liquido”.


A ben vedere, il dongiovanni non vive, non sceglie, ma è scelto dalle donne che lui insegue. La sua essenza è nella conquista, che è tale soltanto nel momento in cui la donna corteggiata decide di concedersi a lui. La vita non gli appartiene, è dominata dalle circostanze, dalla volontà capricciosa delle donne.


Quando si rende conto della miseria della sua esistenza, l’uomo estetico entra in crisi (segno d’intelligenza), il cui sbocco non può che essere la disperazione, il momento finale della vita estetica.


La disperazione non va dunque intesa in modo negativo e rifiutata; anzi – ammonisce Kierkegaard −, va scelta con determinazione; solo così è possibile passare dallo stadio estetico a quello etico.


Il secondo stadio, quello etico, è simboleggiato dal marito, rappresentato dalla figura del giudice Wilhelm. La sua vita è caratterizzata dall’impegno nel lavoro e nella vita civile.


Ben convinto di questa scelta, Wilhelm è cosciente dei limiti della vita estetica; per questo apprezza la bellezza del legame matrimoniale e della fedeltà. Non teme la continuità e la ripetizione, né ricerca l’eccezionalità dell’attimo, come fa il dongiovanni; per lui la felicità può scaturire solo dalla normalità rappresentata dal matrimonio, ed è quindi alla portata di tutti.


Nel contempo Wilhelm non si chiude nell’ambito familiare, ma partecipa alla vita sociale nella convinzione che il buon funzionamento della società richieda il contributo di tutti.


Il fondamento della vita etica consiste nello scegliere di realizzare se stessi individualmente e socialmente. Il che richiede determinazione e coerenza. Ma proprio la ricerca della coerenza, quindi della perfezione, rivela l’impossibilità della vita etica. Wilhelm, infatti, scopre che i suoi peccati affondano la loro radice nella natura umana; nel senso che ogni uomo, per definizione, pecca; se non ci fosse il peccato non ci sarebbe l’umanità.


La scoperta dell’incapacità a vivere la vita etica determina l’angoscia.


Di fronte a questo esito si può reagire fondamentalmente in due modi: con il suicidio, che è la fine di ogni possibilità, o con la fede, che è la realizzazione di tutte le possibilità.


Ma la fede richiede il riconoscimento del proprio essere finito di fronte all’infinito, richiede “il pentimento dell’individuo che coinvolge se stesso, la famiglia, il genere umano, finché egli si trova in Dio”. Attraverso il pentimento si passa dunque dallo stadio etico a quello religioso.


Tra lo stadio etico e quello religioso c’è un salto ancora più abissale di quello esistente tra lo stadio estetico e quello etico, come ci rivela il personaggio che lo simboleggia, Abramo. Il racconto della sua straordinaria vicenda è contenuto nella Bibbia, più precisamente nel libro della Genesi.


Per mettere alla prova la fede di Abramo, Dio gli ordina di uccidere il figlio, Isacco, avuto in tarda età dalla moglie Sara. Ma quale padre ucciderebbe il proprio figlio? I dubbi attanagliano Abramo. Come può essere sicuro di avere ascoltato correttamente il comando divino? Com’è possibile che Dio ordini di violare la morale?


A questi interrogativi Abramo non trova risposta se non nell’angoscia. Tuttavia è proprio nell’angoscia che si manifesta l’autenticità della fede. La fede è “certezza angosciosa”. “Non uccidere” è un comando etico, non religioso. La religione, in quanto caratterizzata dalla contraddizione, va al di là della morale, legata alla razionalità dell’uomo.


Rassicurato dunque solo dall’angoscia che rivela l’autenticità del suo rapporto con Dio, Abramo sceglie di eseguire il comando divino. Conduce il proprio figlio su un monte e lo lega. In silenzio estrae poi il coltello per sacrificarlo. Ma ecco che la sua mano viene fermata dall’angelo del Signore. Dio ha avuto la prova della sua fede.


Don Vincenzo aveva fatto sua la riflessione di Kierkegaard: il mondo, a dispetto di Hegel, è irrazionale, e la religione ne è l’unica spiegazione. Piaccia o non piaccia. Bisogna fidarsi di Dio perché Dio si fida di noi. La disperazione e l’angoscia sono i fari della nostra esistenza. Illuminano il percorso che dobbiamo compiere.


Insomma, Kierkegaard era un pezzo di don Vincenzo, anche se don Vincenzo, con il tempo, aveva maturato più di una perplessità circa il modo di vivere il cristianesimo del filosofo danese. Così, a più riprese, aveva letto alcuni dei suoi scritti (una selva sterminata) e vari saggi maturando un crescente fastidio nel constatare che Kierkegaard viene più citato che capito.


Un rumore interruppe la sua riflessione. Uscì dal confessionale e vide seduta in prima fila una ragazza. Sembrava… no, mai vista, e ritornò nel confessionale.


Di recente, don Vincenzo si era posto questo interrogativo: se uno come Kierkegaard si fosse inginocchiato al suo confessionale, che cosa gli avrebbe detto? Aveva poi condensato le sue riflessioni in un articolo per la rivista Emmaus dal titolo “Che cristianesimo è quello di Kierkegaard?”. Ora ne stava correggendo le bozze.


Don Vincenzo sospirò: Kierkegaard gode davvero di pessima fama. Incredibile. Già i suoi contemporanei non lo capivano. Nell’articolo si precisava che il nome Søren e il cognome Kierkegaard non significano affatto “Severo Cimitero”, come sostengono con ironia i suoi detrattori. Søren deriva da so, “mare”. Alla lettera, dunque, Søren significa “marino” e non “severo”. Inoltre, nel linguaggio comune søren indica il monello, il discolo, il “ragazzino della parrocchia”. Anche Kierkegaard, poi, non significa “cimitero”, ma la “masseria della parrocchia”, il luogo dove erano accolti i poveri senza alloggio. Ed è quello che era successo agli antenati del filosofo, evidentemente di origini umilissime.


Certo la vita di Kierkegaard fu povera di eventi. Ma non per questo era un depresso. Fa violenza al suo talento il pensarlo.

Se il fidanzamento con Regina Olsen non sfociò nel matrimonio e Kierkegaard non esercitò la professione di pastore luterano a cui la sua laurea in teologia lo abilitava, non significa affatto che fosse un depresso.


Al contrario, Kierkegaard si sentiva destinato da Dio a una missione più elevata: a riflettere cioè sulla vita umana e a vivere con autenticità la fede cristiana, in contrasto con i compromessi della comunità luterana.


Non ebbe dunque come unica soddisfazione della vita quella di morire a quarantaquattro anni, e non a trentatré, come aveva profetizzato suo padre. Dai suoi scritti traluce una personalità sorridente, che non può essere quella di un depresso, ma di uno che all’applauso preferiva la schiettezza ironica della verità.


Un sorriso talvolta romantico, il suo: “Il primo periodo dell’amore, quando a ogni incontro, a ogni sguardo si riporta qualcosa di nuovo di cui gioire, è pur l’età più bella”; talvolta beffardo: “Di tutte le cose ridicole, la più ridico­la credo sia l’essere mondanamente indaffarato... di un uomo d’affari rido di tutto cuo­re”; talvolta di stupore: “E le inno­centi gioie della vita! L’essere così innocenti è il loro unico difetto”; talvolta autoironico: “Nessuna puerpera può avere desideri più strani e impazienti dei miei”.


Un uomo sereno che svaluta le cose terrene, certo, ma non perché è un depresso, ma perché è innamorato di Dio. E come per tutti gli innamorati non ha altri pensieri che per il suo amore. Chi crede sul serio, la pensa così.


Infine l’articolo di don Vincenzo entrava nel cuore del problema che si era posto: che cristianesimo è quello di Kierkegaard? Un cristianesimo sincero, senza alcun dubbio − rispondeva − ma monco, perché Dio è Trinità, cioè relazione. Invece Kierkegaard trascura la dimensione comunitaria. Il messaggio cristiano non è diretto al Singolo, ma a tutti gli “uomini di buona volontà”; tant’è che nella preghiera fondamentale ci si rivolge a Dio chiamandolo padre “nostro”, e non “mio”.


Un rumore di passi in lontananza distrasse nuovamente don Vincenzo. Probabilmente la ragazza si stava dirigendo verso la statua della Madonna per accendere un cero. Un altro cuore infranto? Senz’altro, concluse tra sé e sé don Vincenzo. La statistica non mente, e riprese a leggere le bozze.


Non si raccontano i fatti propri a qualcuno per avere dei consigli, ma per essere ascoltati. Perché se qualcuno ti ascolta come il mare ascolta la luna, allora dialoghi con Dio. Don Vincenzo aveva elaborato questa verità in un preciso momento, all’età di trentanove anni. Era stato come un lampo che gli aveva attraversato il cervello per poi fermarsi al cuore inondandolo di luce.


Da allora si era chiuso in un confessionale del Duomo di Milano, la sua città di origine. Ascoltare per lasciare parlare Dio, questa sarebbe stata la sua missione. Un po’ quello che aveva fatto Maria, la madre di Gesù.


Don Vincenzo cessò nuovamente di correggere il suo articolo. Qualcuno aveva bussato, ma non c’era nessuno inginocchiato al di là della grata. Aprì la tenda e vide Alice.


− Sei tu? Non ti avevo riconosciuta… Che bello vederti.

− Ho bisogno di parlare con qualcuno.

− Che succede? Quando venivi in parrocchia eri sempre la più allegra di tutti.

− Non so…


Alice indugiava, indecisa se rimanere o andarsene subito. Era chiaro che non aveva nessuna intenzione di confessarsi.

− Andiamo a sederci su quella panca, se ti va.

− Certo.

− Dimmi…

− Non credo più in Dio.


Don Vincenzo la guardò come se l’avesse pugnalato.

− Perché?

− Ho un tumore.

− Che c’entra con la fede? Conosco un bravissimo oncologo.

− Non ne ho bisogno… sono seguitissima.

− Oggi i tumori si curano.


− Lo so, ma non il mio, e non a questo punto. Ormai sono merce avariata, da buttare.

− Vedi Alice, la fede non è una polizza d’assicurazione che protegge dal tumore. Chi ha fede dà un senso alla sofferenza così come alla morte, non perché ne conosce la ragione, ma perché si fida dell’amore di Dio.


− Quale senso? Parlare di senso significa parlare di futuro. E allora, parliamone. Perché proprio io devo morire a vent’anni? Non riesco a pensare ad altro. Perché proprio io? Sono finita in trappola e non so come uscirne. Ora lo so, il paradiso è uno stato d’animo, così come l’inferno. E all’inferno mi ha scaraventato Dio.


Mai don Vincenzo si era sentito così inadeguato a fare il prete. Ma come spiegare ad Alice che l’amore di Dio vede più lontano di un ragioniere che calcola la felicità in anni e un tanto al chilo? E non era neanche il caso di buttarla in teologia, spiegandole che un angelo, Lucifero, seguito da tanti altri, un giorno si era ribellato a Dio per diventare distruttore dell’uomo e del suo mondo.


Pensateci: che motivo aveva Lucifero, uno che viveva avvolto dalla luce di Dio, per fare quella scelta? Nessuno. Fece una scelta del tutto irrazionale. Alla domanda perché esiste il male non ci può dunque essere una risposta razionale.


In ogni caso, la rabbia offusca la mente, ma non spegne i sentimenti. E la fede è un sentimento, come aveva capito Kant e prima di lui Rousseau.


Alice poteva dire tutto quello che voleva, ma proprio la sua rabbia dimostrava che Dio abitava ancora in lei. Non ci si arrabbia con il nulla. E poi la fede, quella che dà senso alla vita, quella che Alice aveva provato, è un fuoco che non si spegne più. Anche quando viene negata, cova sotto la cenere. E questo succede non per un misterioso arcano, trattandosi di Dio, ma per la legge che regola l’amore. Perché la fede è amore, null’altro. Su questo don Vincenzo non aveva dubbi. Glielo avevano insegnato i tanti cuori infranti che dopo aver acceso un cero si erano inginocchiati al suo confessionale.


Se un amore è stato vero amore non finirà mai.
Che tu lo voglia o no.


− Vedi Alice, il tuo rapporto con Dio mi ricorda la storia di quei due amanti che presi da incontenibile passione decidono di incontrarsi nel cuore della notte. Entrambi arrivano puntuali all’appuntamento. Equivocando però sul luogo non si incontrano. Tu pensavi di incontrare Dio nella gioia, lui ti stava aspettando nel dolore. I mistici conoscono bene questo travaglio che va al di là del tempo e dello spazio nelle sue tre dimensioni. Loro, da artisti della fede quali sono, abitano in una quarta dimensione, quella in cui debolezza e speranza s’incontrano.


− Non so…

− Ascolta Alice, Dio “non ama come amiamo noi, ma come uno smeraldo è verde”, diceva Simon Weil. Il che sta a dire che io posso amare o non amare, dipende da me. Dio no. Dio ama sempre perché non può non amare, così come lo smeraldo non può cessare di essere verde. Dio ti ama nel dolore, questo è il modo che ha scelto per entrare in contatto con te. Il dolore non è una sciagura, ma una componente naturale della vita, e non una componente qualsiasi, ma quella che ci fa essere quelli che siamo. Liberi.


− Il problema è che…

− Pensaci. Che cosa sarebbe la vita se non ci fosse il dolore? Saremmo solo delle marionette, degli automi che si muovono in un universo in cui non ci sono alternative. E poi, anche per suo figlio, Dio ha scelto la strada del dolore. La morte in croce.


− Sì, ma non spiega il perché del dolore. Ne abbiamo parlato tante volte.


− Certo, Gesù non lo spiega, ma lo vive sulla propria pelle fino a urlare “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Fino ad arrabbiarsi come te. Poi accetta l’assurdità di quel dolore: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Però non la mia volontà, ma la tua sia fatta”.


E nell’assurdità risorge.


− E poi ricordati che il dolore non è una bevanda avvelenata, ma la porta d’ingresso alla quarta dimensione, quella in cui Dio è l’occhio del ciclone della vita. Il senso della tempesta. Un senso che guarda al futuro, come vuoi tu.


Devi scegliere tra la disperazione e la speranza, tra il nulla e la risurrezione.


Alice taceva, estraniandosi sempre più. Nei suoi occhi si agitavano lacrime rancorose, sorde a ogni sollecitazione. Il tradimento, reale o immaginario che sia, gela il cuore.


− Non so cosa dire − rispose infine Alice, stanca di cercare parole che non esistono.

− Vuoi dirmi ancora qualcosa?

− Sì, ma mi vergogno un po’.

− Ma dai…

− Aspetto un bambino.

− Davvero? Una notizia fantastica… e il tumore?

− Proprio perché ho un tumore l’ho voluto. Mi dava fastidio essere nata solo per morire.


− Ma non sei un po’ pazza?

− Mai quanto Dio.

− E il padre?

− Si chiama Franz. L’ho lasciato.

− Perché?

− Perché si sarebbe opposto alla gravidanza.

− Come lo sai?


Alice abbozzò un sorriso senza gioia.


− Meglio non correre rischi.

− Non capisco. Ascolta: siamo tutti personaggi del romanzo di qualcun altro. Quale parte hai assegnato a Franz?

− Quella di chi si fida di me.

− E perché dovrebbe farlo?

− Perché gli sto facendo un regalo. E che regalo.


Nel dire questo il Duomo apparve improvvisamente ad Alice troppo buio. L’odore d’incenso che si confondeva con quello della cera bruciata era diventato insopportabile. Basta, doveva uscire. Le sarebbe piaciuto librarsi in volo e raggiungere la nuvola più alta. Tra cielo e terra. Quello era il posto giusto in cui riflettere se Dio c’era o non c’era.


Don Vincenzo non la trattenne, la salutò con un groppo in gola chiedendosi se l’avrebbe ancora vista. Viva.


Giunta in fondo alla chiesa, Alice si girò, pensò al figlio che portava in grembo, e lo guardò con disperata dolcezza. Quello sguardo era più chiaro di tanti discorsi.


Fuori dal Duomo, un mesto sole si avvaleva della facoltà di non risplendere.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO