capitolo 37

La follia

Suona strano, ma la morte per un filosofo è un ottimo affare, lo aveva già capito Socrate.

Sarà stato per quelle nubi schizofreniche che da giorni molestavano Milano, o per l’agitarsi isterico del bimbo che portava in grembo, sta di fatto che Alice si svegliò di umore nero. Dunque parrucca nera? No, rossa, quella da combattimento.


Spingi oltre lo sguardo, le aveva detto sua madre in versione Zarathustra, e capirai che cosa devi fare. Vuoi essere libera? Bene, ma anche Franz ha diritto di vivere per quello che è, e per quello che siamo. Lui è in gabbia, imprigionato dall’amore per te. Liberalo e restituiscigli i suoi sogni. La perseveranza può farlo impazzire.


Così, tra una considerazione e l’altra, nella notte era cresciuto in lei il desiderio di dare una sbirciata al futuro sporgendosi in avanti nel tempo. Effetto Nietzsche: ora nella sua mente i pensieri circolavano senza più chiedere il permesso; tra questi si era fatta strada una domanda: com’era questa Eleni che ogni tanto spuntava fuori nei loro discorsi? E se dietro l’angolo ci fosse proprio lei? Mio Dio, sarebbe stata lei a fare da mamma al bambino? Matrigna, parola orribile. È dura immaginare un mondo in cui non ci sei.


Il tempo di chi ha un tumore è relativo alla velocità con cui si diffondono le metastasi. La prognosi più sfavorevole, ma anche più realistica, le dava ancora qualche mese di vita. Con un po’ di fortuna aveva giusto il tempo di mettere al mondo il bimbo e poco più. Senza indugiare doveva dunque salire sulla macchina del tempo: direzione futuro.


Eleni cantava a Torino in piazza Carignano. Musica greca. Bene. Mentre si preparava per uscire, Alice guardò il cielo. Erano giorni che minacciava pioggia e poi non cadeva neanche una goccia. In ogni caso, meglio prendere l’ombrello e mettersi l’impermeabile. Ne aveva comprato uno, a dire il vero più maschile che femminile, che copriva con naturalezza il pancione.


Prima tappa: stazione di Milano Centrale, dove avrebbe preso il primo treno per Torino. A Eleni avrebbe quindi riservato il pomeriggio, sempre che la fortuna si fosse degnata di fargliela incontrare. La sera, infine, ritorno a Milano.


La vita è come il tennis, bisogna saper giocare di dritto e di rovescio. La regolarità, la forza e la precisione sono tutto. Ma se vuoi dare un’improvvisa svolta al gioco, allora devi ricorrere alla volée. E lei aveva in mente proprio di irrompere con una bella volée di rovescio nella partita con Franz.


Le parole provocano onde cerebrali, emozioni, per farla semplice. Alice lo sapeva da tempo, da quando cioè aveva preso coscienza dell’emozione provocata da quel “paese delle meraviglie” incastrato nel suo nome. Come si sarebbe presentata dunque a Eleni? Alice la ragazza di Franz? No, troppo forte come onda cerebrale. Cinzia, avrebbe detto di chiamarsi Cinzia. Un’onda cerebrale neutra, ecco quello che ci voleva.


Giunta a Torino, Alice mangiò un tramezzino, bevve una Coca-Cola e poi un caffè, il tutto in tre bar diversi per far passare il tempo. Infine raggiunse piazza Carignano.


Tutto taceva. Guardò l’ora. Le quindici e qualcosa. Di Eleni neanche l’ombra. Troppo presto, ovvio. All’angolo della piazza la gelateria Pepino invitava alla spensieratezza dietetica. La postazione del dehors era perfetta per sorvegliare la piazza.


Si sedette e ordinò un Pinguino. La piazza era praticamente deserta. L’atmosfera ideale per seviziare Google, digitando termini come verità, menzogna, silenzio, filosofia.


Prima sorpresa: l’idea di nascondersi dietro uno pseudonimo aveva filosoficamente una sua ragion d’essere. A dispetto di Kant, che non l’avrebbe mai fatto, Kierkegaard aveva invece utilizzato vari pseudonimi per sostenere teorie contrarie. Ma Kierkegaard aveva in mente di mettere in scena una sorta di “teatro delle maschere” in cui il burattinaio era lui, mentre Alice mirava a presentarsi con un’identità nuova. C’era una bella differenza. E poiché il tempo che passa lascia delle scorie, ad Alice venne in mente lo sgradevole dialogo con Oberosler quando gli aveva chiesto di suggerirle un libro per sua madre malata di cancro. Un dialogo degli equivoci degno di uno scadente film muto.


Seconda sorpresa: c’era un filosofo, Michel Foucault, che aveva avuto l’ardire di inglobare nella riflessione filosofica argomenti come la follia e la sessualità.


La follia altro non è che la verità in libera uscita, qualcosa che si manifesta negli occhi degli altri, non del folle, affermava Foucault, ed è un’invenzione dell’umanità. Per la natura non esiste.


Anche per quanto riguardava la sessualità, Foucault sfidava i luoghi comuni chiedendosi: che cosa ha fatto calare una cappa di piombo sulla sessualità nel mondo occidentale? La morale cristiana, verrebbe da dire.


No, non è stato il cristianesimo, risponde, ma gli ambienti pagani dei primi secoli suggestionati dalla visione filosofica di Plotino e intrisi di stoicismo, per non parlare del manicheismo, che condannava l’atto sessuale anche ai fini della procreazione.


Insomma, il disprezzo e l’odio per la sessualità affondano le loro radici nel contesto culturale classico, che precede e accompagna quello cristiano.


Inoltre, sebbene contagiato dalla sessuofobia pagana, il cristianesimo ebbe il grande merito di impedire che il sesso diventasse un argomento tabù, prestandovi attenzione.


Basta dunque con il luogo comune della grande libertà pagana, in contrapposizione all’oscurantismo cristiano. La verità storica è un’altra.


Foucault era un giacimento di sorprese.


Siamo nella primavera del 1984. Foucault sa che sta per morire a causa dell’Aids.


Suona strano, ma la morte per un filosofo è un ottimo affare, lo aveva già capito Socrate. Chi può infatti dubitare della verità di chi sta morendo? E Foucault non si lascia sfuggire l’occasione: decide cioè di impegnare le sue ultime forze in un seminario dal titolo “Il coraggio della verità”. Il colpo di scena è nel finale. Dopo aver esaminato in lungo e in largo tutte le questioni legate all’argomento, Foucault si congeda dai suoi allievi con queste parole:


Ecco, ascoltate, avevo qualche cosa da dirvi sul quadro generale di queste analisi.
Ma insomma, è troppo tardi. Allora grazie.


E così il seminario sul coraggio della verità si conclude senza che Foucault abbia il coraggio di dire la verità, la sua verità, quella che incombe su di lui, di dire cioè che sta morendo di Aids. Non una parola. Silenzio. Eppure si tratta di una verità che non solo conosce, ma che sente. Un mese dopo, muore.


Perché questa scelta? Contraddizione, debolezza, angoscia? E se invece fosse proprio questo il messaggio?


Il coraggio della verità a volte consiste nel nasconderla.


Alice respirò a pieni polmoni ricordando il “non detto” a Franz.

È sempre bello essere in compagnia di qualche filosofo quando si percorre il crinale accidentato che separa il bene dal male. Dunque, per Foucault nascondere la verità non significa dire bugie; anzi, la verità talvolta richiede il coraggio di nasconderla.


Che il non dire la verità sia preferibile alle bugie ce lo spiega la pratica: il non dire la verità richiede silenzio; le bugie hanno invece bisogno di molte parole. Per sostenerne una bisogna inventarne altre venti, osservava Nietzsche.


Foucault dunque non solo assolveva il suo “non detto” a Franz, ma la riteneva addirittura una scelta coraggiosa. Complimenti! Balorda era invece l’idea di passare per Cinzia, e non ci voleva Foucault per capirlo.


Intanto Eleni era arrivata. La sua performance sarebbe durata un paio d’ore. C’era tempo. In ogni caso, si sarebbe presentata per quello che era, Alice, l’ex di Franz. Un’impalpabile tela di emozioni le riempì gli occhi di lacrime.


Franz era il padre di suo figlio, come poteva dire che era la sua ex? Ma così stavano le cose: con la morte si diventa ex di tutto, e poi navigare nel futuro era come solcare quella striscia d’acqua turchese che separa il cielo e la terra.


Nel voltare l’ultima pagina del libro delle possibilità, Alice si accorse che il cuore era colmo d’amore. Per Franz sarebbe stato meglio iniziare adesso una nuova relazione; con gli impegni legati alla paternità tutto sarebbe stato più difficile. Se lo amava doveva dargli una mano. La follia insegna a guardare lontano.


Alice pagò il conto e andò a sistemarsi di fronte a Eleni per curiosare dentro il suo animo. Gli occhi neri lucenti come una pietra umida e la dolcezza della voce trasmettevano una sensazione piacevole. Improvvisamente, con uno scarto temporale, la vide china su di una culla intenta a cantare una ninna nanna.


Nell’immaginare la scena, il suo sguardo si fece insistente. Eleni lo notò. La voce ebbe una lieve esitazione. Ma fu solo un attimo. Nessuno se ne accorse. Alice invece trattenne il fiato. L’aveva riconosciuta? Che cosa le aveva raccontato esattamente Franz?


La parrucca rossa, quella del loro primo incontro, questo aveva detto, era l’unico indizio che possedeva per individuarla. L’aveva dunque riconosciuta dalla parrucca rossa! Dannazione, perché non aveva messo quella nera?


A toglierla d’imbarazzo provvide la pioggia. La musica di colpo cessò. Tutti si allontanarono rapidamente, mentre Eleni prese a infilare con decisione in un borsone la sua attrezzatura. Poi, per ringraziare chi la stava proteggendo dalla pioggia con un ombrello, si girò con la calma artefatta di chi maschera una tempesta emotiva.


− Che ci fai qui, Alice?

− Volevo conoscerti.

− Conoscermi?

− Sì.

− E Franz?

− Tutto quello che avevo da dire l’ho scritto nel biglietto d’addio: fine della storia.

− Non capisco. Che ti ha fatto di male Franz?

− Niente, merita di meglio.

− Posso dirti una cosa?

− Certo.

− Il tuo comportamento non mi sembra molto corretto.

− Può darsi, ma un giorno mi darete ragione.

− E io che c’entro?

− Non lo so, si vedrà.


Nel frattempo avevano raggiunto i portici di piazza Castello. Chiuso l’ombrello, Alice ed Eleni si scrutarono senza guardarsi negli occhi.

− Alice, che cosa nascondono le tue parole?

− Niente, solo cose belle. Ti posso abbracciare? Ora devo andare.


Eleni era chiaramente frastornata, ma contraccambiò volentieri l’abbraccio. La chimica tra le due funzionava alla grande. Fatti pochi passi verso la stazione, Alice si girò improvvisamente:


− Eleni, dimenticavo, complimenti, canti davvero bene.

− Grazie.

− Conosci anche delle ninne nanne?

Silenzio.

− Non ti piacerebbe avere un bambino?

− Certo che mi piacerebbe, ma bisogna trovare la persona giusta.

− Franz è la persona giusta. Ciao, salutamelo. La verità è davanti a noi, basta saperla vedere. Mi raccomando però: non diventare come quelle mamme che a forza di rinunce mettono su quell’aria grigia del sacrificio. − E con decisione svoltò l’angolo.


Eleni si sentiva afferrata dal futuro. Doveva assolutamente parlare con Franz. Erano mesi che non lo sentiva, ma ora aveva bisogno di una spiegazione che solo lui poteva darle.


Digitò il suo numero, ma come sempre accade quando disperatamente cerchi qualcuno, il telefono era spento. Prima o poi, comunque, Franz l’avrebbe richiamata. Sicuro.


Non molto distante, sul treno che nervosamente la stava riportando a Milano, Alice ripensava alla giornata. La volée di rovescio era entrata. Nietzsche l’aveva messa sulle tracce di Foucault, e da lì aveva proseguito da sola.


La storia della filosofia e quella della follia narrano vicende diverse, ma il fuoco del racconto è sempre lo stesso: la volontà dell’impossibile. Quella volontà che l’aveva spinta a gettare Eleni tra le braccia di Franz. Per amore. Una contraddizione non nuova. Duemila e cinquecento anni fa, Buddha la spiegava così:


Se ti piace un fiore lo strappi.
Se lo ami, lo annaffi ogni giorno.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO