capitolo 40

L'imperfezione

La meraviglia non sta nella perfezione del giorno, ma nell’imperfezione dell’alba e del tramonto.

Come una stella inghiottita da un buco nero, talvolta la coscienza collassa sotto il peso dei sentimenti; eppure, è proprio in questi momenti che i valori mutano di segno per sbucare in un universo morale più inclinato verso la verità.


Qualcosa del genere accadde a Franz quando venne a sapere, senza una goccia di anestesia, che Alice era tornata a Torino, che era in fin di vita e che era diventato padre. Tutto nello stesso momento.


Il peso emotivo di questo concentrato di notizie lo fece barcollare come un pugile colpito in pieno volto. Per non cadere si aggrappò al quadro della cucina raffigurante San Giorgio che sconfigge il drago; indispettito dalla scelta, il quadro si staccò dalla parete per andarsi a schiantare rumorosamente sul pavimento.


Franz non ci aveva mai fatto caso: San Giorgio aveva lo sguardo ricurvo del vincente; il drago quello dritto del perdente.


Tutte le cose dritte mentono.
La verità è ricurva.


Le parole di Nietzsche esplosero nel suo cervello. Fiamme di luce e fracasso del diavolo. Per capirci qualcosa, Franz chiuse gli occhi e sentì il destino sbraitare come il sergente dei marines in Full Metal Jacket: doveva recarsi all’ospedale Sant’Anna in cui Alice era ricoverata. Adesso! Finito era il tempo del “ci penso, e poi ti faccio sapere”; iniziava quello di “la realtà è questa”, e non si discute.


Terzo piano, camera 5. Milena, l’infermiera che gli venne incontro, aveva lo sguardo aperto di chi ama il futuro.


Figlia di una bella serata e di un brutto risveglio, Milena era stata adottata da una coppia di quelle che dopo vent’anni si dicono ancora cose carine, cenano a lume di candela il giorno di San Valentino, sempre con gli occhi lucidi della prima volta, e non hanno piani alternativi se le cose dovessero andare male. Un dono del cielo, perché questi nuovi genitori parlavano con voce primaverile, colorata di giallo, verde, blu e rosso a seconda degli stati d’animo.


La santa trinità funzionò fino al giorno in cui nacque un bel maschietto, tutto loro. E Milena fece la stessa fine dei giocattoli vecchi. Buttarli dispiace, tenerli danno fastidio. Fu allora che il parlare dei suoi genitori adottivi divenne invernale, grigio per la noia o nero di rabbia.


Milena reagì facendosi amare prima dai dipinti di Paul Klee, poi dalla musica di Fryderyk Chopin e infine dagli aforismi di Oscar Wilde.


Quando con stupore si ritrovò iscritta a un corso per diventare infermieri, ormai sapeva surfare sulle onde delle emozioni. Non sarebbe diventata né Klee, né Chopin, né Wilde, ma avrebbe esercitato il suo gioire per l’arte nel rapporto con i pazienti. Occorreva solo dare a tutto quel ben di Dio che sentiva dentro di sé il tempo di fiorire.


Già al primo incontro, Milena e Alice capirono che le loro anime erano due note dello stesso accordo. L’armonia ha però l’instabilità della nitroglicerina. Perché non esploda, occorre superare i limiti che la mente si autoimpone, e poi ci vuole tempo e metodo per intrecciare i fili di storie diverse in un unico gomitolo.


Così Milena si era affacciata sull’orlo del cratere interiore di Alice, laddove si forgiavano come lapilli i pensieri legati al tumore, al figlio come sfida alla prepotenza del destino, all’amore come dono per Franz e proprio per questo regalato a Eleni, salvo a rivolerlo ora indietro, ma solo in prestito e per un giorno, perché tutti hanno diritto che le cose vadano per il verso giusto almeno una volta nella vita, poi la forza di gravità dei sentimenti avrebbe ripreso a fare il suo mestiere, ed era stata pure inventata una parola per dire che non puoi fermare il mare con le mani: pazienza.


− Tutto sbagliato?

− Siamo imperfetti − le aveva risposto Milena con una sfumatura gialla nella voce, quella della simpatia. Poi, con l’autorevolezza del blu, aveva aggiunto:

− Questo è il bello della vita, osserva la natura, la meraviglia non sta nella perfezione del giorno, ma nell’imperfezione dell’alba che non è ancora giorno e del tramonto che non è più giorno. Qualcosa gli aforismi di Oscar Wilde le avevano insegnato.


Dicono che per capire una persona occorra guardare la sua ombra; se danza con la tua, allora hai trovato un amico. Con un po’ di fortuna, succede un paio di volte nella vita. Le ombre di Alice e Milena danzavano con la precisione ritmica di un orologio a doppio pendolo. A osservarle, l’effetto ipnotico era assicurato. E Franz questo non poteva permetterselo. C’erano delle decisioni da prendere e doveva assolutamente rimanere se stesso. Altrimenti qualcun altro le avrebbe prese per lui.


− Ah, tu sei il padre.

− Probabilmente.

− Non fare lo spiritoso. Alice ti aspetta… là, in fondo al corridoio, sulla destra. Stanotte chiedeva di te, voleva, anzi diceva che doveva assolutamente parlarti: Franz… Franz… Franz… Era disperata, stava davvero male, abbiamo temuto il peggio, ma si è ripresa. E allora ascoltami bene: so tutto della vostra storia. Amore e rabbia l’hanno spinta ad allontanarsi da te. Ma non è questo il momento delle discussioni. E poi adesso hai anche un’altra ragazza, Eleni, o sbaglio?


Franz emise un gemito da animale ferito.


− Ti dico una sola cosa, − ora la voce di Milena aveva assunto la tonalità verde della fiducia: − lei non sente amore per te, è l’amore. Lavoro in questo reparto da tanti anni e ho capito una cosa: più ci si avvicina alla morte, più s’impara a camminare nel buio. Lei ora ti vede con gli occhi del cuore, non accecarla.


La voce si era alterata, diventando rossa di passione.


− Non so se arriverà a domani mattina, questa è la verità. Per un giorno devi essere il suo arcobaleno, la gioia dopo la tempesta. Tu e lei, non esiste al mondo un’altra ragazza, non è mai esistita e non esisterà mai. Ci siamo capiti?

− Certo.

− Allora chiama Eleni e inventati qualcosa, ma falla sparire. Giù il sipario.

Silenzio.

− Franz?

− Sì?

− Subito.

− Non ce n’è bisogno. È una ragazza che sa aspettare. E poi oggi è martedì.

− E allora?

− C’è lo stage di filosofia.

− Tutto il giorno?

− Dipende, a volte mi fermo a chiacchierare con il professore, e lei lo sa.

− Okay, ancora una cosa: tra poco…


Franz era già nella camera numero 5. Lacrime, un fiume che abbraccia il mare. L’intensità del bacio fu tale che il tempo si vergognò di aver sottratto loro tanti mesi, e con un balzo dei suoi glieli restituì.


− Come stai, Alice?

− Così così.

− E il bambino?

− Il bambino è una bambina. L’hanno messa nell’incubatrice, ma sta bene. È solo una precauzione.

− Perché non mi hai detto niente?

− Non pensavo che le cose precipitassero così rapidamente. Volevo farti una sorpresa.

− Se è per questo ci sei riuscita.

− Scusa, ma avevo bisogno di stare da sola. Non riuscivo a sopportare il peso della malattia e quello della vostra sofferenza, tua e di mamma. Non ce la facevo proprio.

− Certo, rimane comunque il fatto che sei una pazza furiosa, una bambina…

− Franz… però adesso sei felice, vero?

− Certo, come chi è salito su di una giostra impazzita.


Improvvisamente Milena annunciò l’arrivo del primario, il classico tipo di cui non riesci a immaginare la moglie, se non con le palpebre gonfie e gli occhi arrossati, mentre racconta del suo triste matrimonio alle amiche con un bicchiere di whisky in mano.


− Quel che è successo è un miracolo, la bambina è nata sana e la madre sorride. Alice, se domani ti sentirai un po’ meglio faremo delle analisi.

Il tono del primario trasmetteva compiacimento.


− Ancora?

− Sì, l’inspiegabile in medicina non esiste; esiste però l’imprevisto e voglio capire bene che cosa sta succedendo. La medicina ha qualcosa di filosofico, come tutte le scienze, confina con il mistero. So che ami la filosofia.

− Certo − rispose Alice.

− Frequentiamo insieme uno stage, una cosa un po’ particolare, − aggiunse Franz con un pizzico d’orgoglio.

− Bene, domani faremo il punto della situazione. A proposito di filosofia, cosa diceva quello là?


− Chi?

− Non mi ricordo più il nome, solo una frase che il mio professore di anatomia amava ripetere tutte le volte che sbagliavamo un referto. Ah, sì, Wittgenstein: “Una rosa non ha denti”. Credo volesse dire che eravamo talmente cretini da non cogliere l’evidenza.


− Certo, Wittgenstein − rispose Franz − ne abbiamo appena discusso allo stage.

− Se posso essere sincero, quando si parla di filosofia mi viene sempre in mente quel tale che pestava l’acqua in un mortaio nella speranza che diventasse solida.

− Ma no, al contrario, Wittgenstein intendeva dire…

− Scusate, ma ora devo andare.

− Grazie, professore.

− Un’ultima cosa.

− Sì?

− Se possibile, state vicino ad Alice uno per volta, la stanza è piccola.

− Certo − rispose la madre, alzandosi prontamente per uscire.

− Un momento − intervenne Franz − vado a vedere la bambina e poi torno.

− Bene, fate così. Tra poco la togliamo dall’incubatrice ed è tutta vostra!

− Ancora grazie, professore.


La bambina dormiva dentro quella piccola scatola trasparente chiamata incubatrice. Franz la guardò cercando di individuare quali tratti del volto avesse in comune con lui, la mamma, i nonni, i cugini fino al quinto grado compreso. Era ancora indaffarato in questa complessa operazione, quando quel frullato genetico aprì gli occhi.


− Ciao, piccola, come va? Sono tuo papà, lo sai? Appena esci da questa scatola ti porto a fare un bel giro, ci sono tante cose da vedere, il mondo è un carillon messo in carica da qualche matto, ma non ti confondere, questo è il migliore dei mondi possibili anche perché non ce n’è un altro, come diceva il buon Spinoza. Ecco come siamo messi, pensa che il pianeta abitabile più vicino si chiama Proxima B e dista dalla Terra circa 4,6 anni luce. Come se non bastasse, c’è un piccolo problema: la parte abitabile è quella al buio… Me lo fai un saluto? Cos’è quella cosa lì, una smorfia? Facciamo che sia un saluto, ora vado, vado dalla mamma che non sta tanto bene, la sommergo di baci da parte tua e poi torno di nuovo da te, che ne dici? Okay, okay, okay? A dopo, amore mio!


Franz tornò nella camera di Alice illuminandola con il suo sorriso più dolce.


− Ho visto la bambina, è bellissima! Secondo me ha preso un po’ da tutti e due: la fronte e gli occhi sono i tuoi, il mento è uguale al mio.

− Davvero?

− Sì, l’ho guardata attentamente, le mani poi… sono quelle di mio papà, il grande Giove. Ha preso anche un po’ da te, sai Esther.

− Speriamo, ma è presto per dirlo. Tra qualche mese si capirà di più. Ora però vi lascio… avrete tante cose da dirvi.

− Grazie mamma.


Rimasti soli, Franz si sedette accanto ad Alice.


− Franz?

− Sì?

− So.

− Cosa?

− Che hai un’altra ragazza.

− Ma…

− Non ti preoccupare, va bene così, fa parte del mio piano.

− Non capisco.

− Più che un piano è una sfida tra me e il destino. Non sopporto la sua prepotenza. Ricordi che cosa diceva Agostino del tempo?

− Che…

− Che Dio non conosce né il passato né il futuro.

− Certo.

− Ebbene, facciamo un patto: passiamo insieme una giornata da Dio. Che ne dici?

− Come quando ci siamo baciati la prima volta?

− Sì, bravo, quella sensazione lì. Di eterno presente.

− È quello che mi ha detto l’infermiera.


− Se non sono morta questa notte è perché volevo stare ancora un po’ con te, così, soli al mondo. Milena è una persona speciale, e mi sono sfogata con lei.


Alice aveva appena terminato di pronunciare queste parole che spicchi di luci colorate, fuggiti da chissà quale vetrata, presero a danzare intorno a loro. Un segno di simpatia del cielo, c’era da scommetterci.


− Ora, − riprese Alice − ti devo parlare di Marta.

− Marta?

− Sì, la nostra bambina.

− Marta?

− Scusa se decido tutto io, ma il mio tempo sta per scadere e vado di corsa.

− Perché questo nome? Dove l’hai pescato?

− Così si chiama la santa che ha sconfitto la Tarasca.

− Non sapevo della sconfitta.


− La storia finisce con Santa Marta che prega: ogni qualvolta recita un’avemaria, la Tarasca si rimpicciolisce, finché, diventata un pulcino, la uccide.


− Davvero?

− Certo.

− Allora vada per Marta!

− Grazie; ora però avvicinati, ascolta.

− Sì?

− Ti devo dire alcune cose a proposito dell’educazione di Marta: crescerà senza di me, non ci sarò quando starà male, piangerà o avrà dei problemi. Non c’è aggettivo per descrivere quanto sia straziante questo pensiero.

− Ma che dici? Il dottore ha detto…

− Lascia stare, uno che non ascolta non va ascoltato. Ora concentrati.

− Okay.

Primo comandamento di Ruth Larens tratto dalla sapienza greca:


Ascolta solo quelli che hanno quattro orecchie.


− Conosci Ruth Larens?

− Il nome non mi è nuovo.

− Psicologa e nutrizionista canadese, Ruth Larens ha pubblicato numerose opere dedicate all’alimentazione, tra cui la Bibbia dei salutisti: Filosofia da mangiare. Poco nota è invece la sua autobiografia: La missione impossibile di un ragazzo-padre. I dieci comandamenti per provarci. Il testo racconta la fatica da lei vissuta nel crescere senza mamma e con un padre distratto dal suo narcisismo. Quindi fidati, quello che ti voglio dire non è farina del mio sacco, ma di quello ben più ampio di Ruth Larens. Ho solo riflettuto sulle sue considerazioni, facendo mie tutte quelle che mi piacevano. Il tumore è un acceleratore temporale; ora ragiono come una vecchia, di quelle con il vestito pronto da indossare nella bara ben piegato nell’armadio.


− Ma dai, smettila!

− Porta pazienza.

− Pazienza accordata.

Secondo comandamento. Fa’ in modo che Marta abbia un’infanzia felice, perché l’infanzia è il luogo sicuro in cui rifugiarsi quando imperversano gli uragani della vita. Su questo Ruth Larens insiste molto. La cosa non è affatto impossibile. Rousseau, per esempio, è cresciuto senza madre, morta di parto. Eppure la sua infanzia è stata talmente felice da generare un mito filosofico.
Terzo comandamento. Anche se Marta non avrà accanto a sé la mamma non fare il “mammo”. Fa’ il papà. Insomma, non fare il basso che vuole cantare da soprano o il tennista che si crede un calciatore. Diventeresti ridicolo. Più sarai te stesso, più sarai credibile; e più sarai credibile, più sarai una sporgenza nella roccia. Così, quando Marta annasperà nel vuoto, saprà dove aggrapparsi.
Quarto comandamento. Se fai un figlio ti metti un giudice in casa. è il mantra della Larens. Tu punta sulla sincronia delle emozioni; in una parola, sull’empatia. Nessun giudice ha mai condannato un imputato provando i suoi stessi sentimenti. Se tra voi non ci sarà empatia, avrai fallito come padre.

Quinto comandamento. Insegnale ad amare. Lo so, è più facile lasciarsi amare che amare.

− E come?

− Semplice: gioca a farle delle sorprese, dei regali quando meno se li aspetta; poi suggeriscile di fare altrettanto con te. Si tratta di un sottile gioco psicologico, perché azzeccare un regalo è un’arte che conosce solo chi ama. Quando avrà assimilato questo gioco, spiegale che i regali più belli non sono quelli più costosi. E non sono neanche delle cose ma delle reciproche attenzioni, piccoli gesti dal valore immenso perché aprono le porte del paradiso terrestre. Un paradiso assai precario, a dire il vero, in quanto non c’è nulla di più fragile di questa dinamica; contiene però tutto il bello che può fiorire da queste parti.

Sesto comandamento. Contagia Marta di felicità, ma non di una felicità qualsiasi, intendo quella felicità lì, quella rimbalzata dallo specchio del bar quando per la prima volta abbiamo incrociato i nostri sguardi, quella senza la quale Marta non esisterebbe, quella che la farà correre da te per dirti: “Papà è successa una cosa incredibile, mi sono innamorata. Vieni, lui è un tipo speciale, te lo faccio conoscere!”.

Mentre le parole rimanevano sospese nell’aria, Franz aggrottò la fronte nel tentativo di dare un ordine all’ingorgo di emozioni che gli suscitavano. La manovra non sfuggì ad Alice. C’era troppo pepe nei comandamenti di Ruth Larens. Doveva darsi una calmata. Non ci aveva fatto caso; la luce della stanza era diventata fredda e cruda. Un invito al realismo, a sottrarsi insomma alla dittatura della sofferenza senza esagerare.
Settimo comandamento. Fai attenzione a quello che dici e a come lo dici, nel senso che devi scegliere con cura i programmi televisivi che Marta guarderà o le storie che alla sera le racconterai: quale idea di mondo esprimono? Tutte le informazioni che riceviamo sono infatti il cibo di cui si nutre la nostra mente. E se il cibo è scadente, si pensa male e si vive peggio. Noi siamo quello che pensiamo, e il pensiero non va infettato con informazioni scadenti.
Ottavo comandamento. Discuti con Marta di tutto, ma soprattutto di filosofia quando avrà l’età per capirci qualcosa. La filosofia è un pensare magico, abitua alle sorprese. Le piacerà. E poi la filosofia ha un risvolto pedagogico: insegna a rispettare le idee degli altri, a capire prima di parlare e a tacere quando occorre. E se la discussione s’infiamma, spegnila dicendo: “Siamo d’accordo, ma la pensiamo diversamente”. Alla filosofia non piacciono quelli che urlano.

Nono comandamento. Se Marta si comporta in modo strano, vai alla radice del problema, vai alla ricerca della causa da cui nasce il suo comportamento. La stranezza è la forma che prende la bellezza quando è disperata. Non dimenticarlo, tutto qui. Non ci sono prediche da fare: solo da ascoltare. Ma se nel tuo cuore avrai il vuoto, quel vuoto trasmetterai.


− Ricevuto.

− Bravo, rilassati: è in arrivo il ciclone Marta e non c’è posto al mondo in cui ti potrai rintanare.

Decimo comandamento. Non rimproverarla perché si distrae, sta contemplando. E la contemplazione è l’atto più creativo che ci possa essere perché trasfigura le cose in noi. Senza contemplazione non c’è immaginazione, e l’immaginazione è l’ossigeno della mente. Per farla breve, non troverai mai una baby-sitter migliore della contemplazione. Quando dunque la vedrai circolare per casa, lasciale fare il suo lavoro.

Nel momento in cui ascolti un discorso fluviale, succede che una piccola ansa trattenga un concetto, e quel concetto illumini tutto il discorso.


Contemplazione. Franz ebbe come il sentore che il concetto di contemplazione fosse quello che Levi Strauss chiama “crocicchio”, tesi che aveva di recente discusso con Oberosler, grande ammiratore dell’antropologo francese:


Ognuno di noi è una sorta di crocicchio ove le cose accadono.


Tradotto: le cose accadono attorno a noi; contemplandole le trasfiguriamo in noi: sono la nostra identità. Questo ci fa essere un “crocicchio”. E nel terminare la riflessione Franz si chinò su Alice, lei si girò come per accoglierlo nel suo letto e si lasciò baciare sul collo.


− Scusa, ora sono stanca, molto stanca.

− Vuoi rimanere sola?

− Sì, è l’ora di pranzo. Ma non ho fame, mi riposo un po’, solo un po’.

Franz la guardò perplesso.

− Posso solo aggiungere che la pedagogia è uno spazio immenso. Quando però mi sono imbattuta nei dieci comandamenti di Ruth Larens, ho trovato qualcosa di pratico e facilmente intuibile da condividere con te. La vita è un grande gioco, gioca con Marta.


− Ora mi è tutto chiaro. Grazie Ruth Larens.

− Smettila, guarda che esiste davvero.

− D’accordo, non ti agitare, a dopo.


Ruth Larens esisteva davvero, sebbene solo l’immaginario di Alice ne avesse le prove. Negli ultimi tempi la sua fantasia si era scatenata e aveva dato un nome a ogni personaggio in cui si era proiettata. Ruth Larens era la sua versione pedagogica.


Ma c’erano anche altri alter ego a cui si era affezionata, come Silvia, l’Alice dal pollice verde con la sua serra di gardenie; o Valeria, l’Alice dottoressa del pronto soccorso appassionata di arti marziali; o Bruna, l’Alice campionessa di surf che amava fare la bagnina. Sì, Bruna era il personaggio in cui ultimamente più le piaceva proiettarsi.


Marta investita in pieno dalle onde impazzite e trascinata in mare. Al largo. Lei che si tuffa a occhi aperti come un pellicano. E la salva, sempre. Così per giorni e giorni, notti e notti, tutte le volte in cui la nostalgia del futuro le gonfiava il cuore. Quanta dolcezza in quegli abbracci pieni d’acqua verde e trasparente.


Il buio della vita è lo sfondo nero su cui proiettare le nostre storie parallele.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO