capitolo 42

Il caso

Il mondo ha denti di acciaio, il sorriso ingannatore e il pugnale dietro la schiena, dicono quelli che hanno provato a fregarlo.

Disperare è impossibile. Persino il suicida spera, magari di far disperare chi resta. E Franz sperava che la vita di quel batuffolo spelacchiato addormentato sulla sua spalla avesse come colonna sonora l’Inno alla gioia di Beethoven. Ma più lo sperava, più piangeva.


La storia del pianto è un fiume che scorre lento per poi tracimare nell’età delle lacrime, l’illuminismo. Sì, l’età di Kant e della ragione, il Settecento. Fu allora che piangere divenne di moda; una moda molto filosofica, perché si piangeva di felicità.


I rivoluzionari francesi non tagliavano solo le teste, ma si abbracciavano nelle assemblee e piangevano a dirotto per la felicità dei risultati raggiunti e per il nuovo legame sociale che si andava diffondendo.


Torrenti di lacrime erano versati durante gli spettacoli. Tanto gli uomini quanto le donne piangevano esibendo i loro fazzoletti come prova della partecipazione alle vicende narrate. Piaceva anche piangere nei salotti letterari e gli autori consideravano questo il segno più evidente del successo delle loro opere.


Tutto questo amore per le lacrime non durò però a lungo. Ai romantici dell’Ottocento non piaceva il pianto senza ritegno. Per loro era poi una questione di ruoli: apparteneva all’animo femminile lo sciogliersi in lacrime; stava invece all’uomo trattenerle quale segno della sua forza interiore.


Uno schema che si radicalizza nella seconda metà dell’Ottocento con il diffondersi del pensiero di Darwin: in cima alla catena evolutiva troviamo l’uomo bianco, maschio, adulto, che sa mantenere gli occhi asciutti. E così si rafforza l’idea che le lacrime siano un segno di debolezza tipico delle donne a causa della loro particolare sensibilità; oppure del popolo, ritenuto incapace di controllare con l’educazione e la volontà i propri istinti.


Ignaro di tutte queste considerazioni, nell’uscire dall’ospedale con la bambina in braccio, Franz piangeva di felicità come un rivoluzionario francese per la nascita di Marta e nel contempo di dolore come una donna romantica per la morte di Alice.


Se Cartesio avesse assistito alla scena, non avrebbe avuto alcun dubbio: il mondo era uscito dai suoi cardini.


Giunto a casa di Eleni, si asciugò il viso, suonò e aprì il vecchio portone con difficoltà. Sulle scale comparve Eleni.


Sebbene Franz l’avesse informata della situazione e del suo arrivo con Marta farfugliando qualcosa, aveva l’aria rilassata di chi esce da un bagno turco.


− Che bella, ciao Marta!

− Okay, in ogni caso non ti preoccupare, sta per arrivare la cavalleria.

− Cosa?

− Mio padre e la madre di Alice.

− Perché?

− Si occuperanno della bambina.

− No, me ne occuperò io, l’ho promesso ad Alice.

− A chi?

− Sì, ci siamo sentite ieri verso sera. Quando sei uscito dall’ospedale per la cena, la sua amica infermiera mi ha chiamato e me l’ha passata. Non so come si sia procurata il mio numero, ma credo c’entri tuo padre.


− Quindi hai parlato con Alice… e cosa ti ha detto?

− Mi ha chiesto se ero contenta di prendermi cura della sua bambina. Conosci già la risposta. E poi che le sarebbe piaciuto se Marta non fosse rimasta figlia unica, com’era capitato a lei. Perché le prime emozioni della vita sono più belle se condivise con qualcuno. Ha insistito molto su questo punto.


− Davvero?

− Le ho detto che avrebbe fatto piacere anche a me avere un figlio. Lei si è commossa e non finiva più di dirmi grazie, grazie, grazie.

− E poi?

− Poi mi ha pregato di stringerti forte e di darti un bacio da parte sua al momento giusto. Franz…

− Sì?

− Questo è il momento giusto.


Ogni bacio è una vicenda a sé, ma se Franz avesse saputo fare una tabella comparativa, avrebbe collocato quel bacio nel gruppo dei baci storici, quelli che segnano una svolta nella vita.


− Ascolta Eleni, magari come ragazza ci capisci qualcosa di più: perché Alice non ha parlato con me di queste cose? Siamo stati un giorno insieme a chiacchierare di tutto. Abbiamo parlato di filosofia, mi ha fatto mille raccomandazioni. Sapeva di te, ma non ha detto niente: perché?


− Non lo so, Franz. Non sono mai stata in fin di vita e non ho mai amato un ragazzo così tanto da desiderare che stesse con un’altra. Lei c’è riuscita per il bene tuo e della bambina. Questo era il suo piano, ora tutto è chiaro. Ma parlarne con te era troppo, troppo doloroso. Non poteva chiedere anche questo a se stessa. Si è staccata dal mondo dopo aver dato tutto quello che poteva dare.


− E tu, cosa provi?


− Prima di conoscerla avrei voluto cancellarla dalla faccia della terra. Sentivo fastidio. Ora non più, ora provo solo ammirazione. E poi ha scommesso su di me. Il che mi rende orgogliosa. Sono io a doverle dire grazie, grazie, grazie. Non la deluderò. Non lascerò che il caso strappi la tela che ha intrecciato con tanta cura.


La parola “caso” agitò i neuroni nella testa di Franz. I casi scolpiscono la nostra esistenza. Casualmente abbiamo genitori che ci leggono o non ci leggono le fiabe al sera; litigano o non litigano tra di loro; magari dobbiamo fare i conti con dei fratelli e delle sorelle; frequentiamo o non frequentiamo quella scuola, dove incontriamo o non incontriamo certi insegnanti.


Era stato un caso che sua madre se ne fosse andata in Canada e che suo padre l’avesse cresciuto. Sempre per caso si era appassionato di astronomia e poi l’aveva abbandonata. Così come casualmente si era imbattuto nella filosofia.


Infine l’incontro con Alice era stato più che casuale, tanto quanto il ritrovarla. E che dire di Eleni? Anche lei incontrata casualmente. Ora Alice non c’era più: così aveva voluto il caso.


A che cosa serve la morte?
A ricordarci di non sprecare la vita.


Questo il succo del ragionamento di Oberosler quando ne avevano parlato. Franz ricordava anche il titolo del libro che in quella circostanza gli aveva consigliato: Il valore del caso. La mia vita, di Agnes Heller.


Scrivere un’autobiografia da giovani ha il sapore della fiaba. Qualcosa di letterario. Se invece la si scrive da vecchi è una forma di filosofia. E così era l’autobiografia della Heller: un pozzo filosofico senza fondo. La conclusione, poi, se fosse un po’ più corta, andrebbe tatuata sulla fronte di tutti gli esseri umani. Così ce la ricorderemmo a vicenda.


Il caso, che sia una benedizione o l’inferno, è sempre un valore, un’opportunità, la possibilità di conoscere meglio il nostro carattere e di conoscere le nostre vite.


Vero. Tolto di mezzo Dio, il caso è tutto quello che abbiamo: per questo è un valore, sempre, anche quando non ci piace. La scoperta del valore del caso ebbe l’effetto di scuotere Franz.


Il mondo ha denti di acciaio, il sorriso ingannatore e il pugnale dietro la schiena, dicono quelli che hanno provato a fregarlo. Non c’era tempo da perdere, bisognava reagire trasformando il rapporto con Eleni in una famiglia.


Poi occorreva trovare la quadra con suo padre e la madre di Alice. Erano esaltati dall’arrivo di Marta, la situazione regalava loro una nuova ragione di vita, ma tutto questo entusiasmo andava gestito.


Il caso non è il destino: il caso propone, il destino dispone. Proviamo a fare un po’ di chiarezza. Il destino è un percorso che una forza cieca o illuminata, fate voi, intende compiere. Alice sarebbe dovuta andare incontro alla morte rassegnata. Invece aveva messo al mondo una bambina e spinto Eleni tra le braccia di Franz. Pare di vederlo, il destino, con gli occhi gonfi d’ira assistere al deragliare dei suoi progetti.


Impossibile per Franz addormentarsi quella sera. Troppe scosse esistenziali.


I ricordi sono ovunque, s’infiltrano nelle cose come la pioggia nel terreno, e parlano, parlano, parlano. Che farne? Quale esempio seguire? Quello di Desmond Morris, il celebre autore di La scimmia nuda?


Morris aveva fatto una scelta radicale. Dopo la morte della moglie, con cui aveva convissuto per sessantasei anni, si era liberato di tutti gli oggetti che gliela ricordavano. Via i quadri e i libri scelti insieme con amorevole cura, via la casa dove erano vissuti felicemente tanti anni, via la sua poltrona, la sua tazza, tutto. L’alternativa sarebbe stata quella di vivere costantemente immerso nel dolore. E così, a novantun anni, aveva rinunciato ai ricordi per poter continuare a vivere.


Franz rimase interdetto. No, doveva fare il contrario di quello che aveva fatto Morris. I ricordi erano tutto quello che rimaneva a Marta della madre. Non poteva liberarsene. Ma l’avesse anche fatto, Alice era in Marta. Una voce sorda, costante, quotidiana. La morte di una mamma dà dipendenza.


Ricordare è però come stare sul bordo di una cascata. Sporgendosi Franz poteva osservare come lo scivolo delle emozioni si inabissasse nel lago dell’irrazionalità. Lì si annidava l’angoscia, la regina nera delle emozioni, e l’angoscia è come l’acqua che gela nella roccia della vita e la spacca in due.


Ora però basta, basta soffrire. Il giorno dopo ci sarebbero stati i funerali di Alice, e anche il dolore qualche volta ha bisogno di riposo.

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO