capitolo 44

Heidegger

L’Essere “si agita” nel tempo; di più, l’Essere è il tempo, perché non sarebbe senza il tempo.

Siamo tutti prigionieri di uno spazio temporale che consideriamo sacro. Per Oberosler questo santuario interiore corrispondeva agli anni giovanili in cui la filosofia era sbocciata nella sua mente come un fiore selvaggio. Così parlava da professore, ma aveva il cuore leggero di uno studente. Lo si capiva dagli occhi vivi che emanavano quel raro dono degli dèi chiamato carisma.


Una carriera, la sua, condita da mille critiche. E allora? Anche Gesù Cristo che risuscitava i morti venne criticato. Manca sempre qualcosa alla perfezione, e le critiche ce lo rammentano.


Chi ama la verità prima o poi inciampa in qualcuno che la pensa diversamente, e lui lo faceva con un sorriso di ammirata sorpresa. Per questo nel suo vagare da un’università all’altra aveva lasciato dietro di sé una scia di stima e affetto. La sua saggezza era un fuoco acceso nelle sere d’inverno.


Quando tuttavia gli chiedevano quale filosofo preferisse, per una sorta di pudore intellettuale rispondeva che gliene piacevano tanti e che era impossibile citarne uno in particolare. Ma era una risposta diplomatica. In realtà ce n’era uno che lo faceva arrabbiare come nessun altro, ma come nessun altro stimolava la sua fantasia filosofica: Heidegger.


Eppure Heidegger era un nazista; un nazista tanto convinto da ritenere Hitler poco nazista. Nei Quaderni neri, il suo diario, ne spiega le ragioni. Ad Heidegger andava bene il dittatore sanguinario, ma non il persuasore delle folle per mezzo della radio e del cinema. Rimanere fedele al mitico passato del popolo tedesco esaltandone l’unicità: questo avrebbe dovuto fare Hitler, senza imbastardire l’originario progetto nazista con la radio e il cinema, volgari invenzioni dell’odiato popolo anglosassone al pari della democrazia.


E non è tutto. Ovviamente Heidegger ce l’aveva anche con gli ebrei. La loro colpa? Quella di essere il popolo dell’astrazione, della razionalità, dell’universalità, un popolo sradicato, senza patria, il popolo della metafisica, che è come dire della menzogna, corresponsabile del dominio tecnologico del mondo e della perdita del suo carattere umano.


L’antisemitismo di Heidegger è innegabile, sebbene i suoi comportamenti siano stati a dir poco contraddittori: per esempio favorì la fuga in Inghilterra del suo assistente, Werner Brock; fu amico di ebrei come Jaspers; dedicò il suo capolavoro, Essere e tempo, a Husserl, altro ebreo, ed ebbe una storia d’amore con l’ebrea Hanna Arendt, autrice della diagnosi più feroce del nazismo, La banalità del male, descritto come un concentrato di stupidità.


E poi c’è l’altro Heidegger, quello che non esitò a denunciare, in quanto ebreo, il famoso chimico Hermann Staudinger o a screditare con l’accusa di essere ebree persone che non stimava.


Insomma, la filosofia di Heidegger era per Oberosler il coltello che frugava nel suo animo e lo faceva sanguinare. Ma di Heidegger non si può fare a meno, amava ripetere scuotendo il capo per sottolinearne l’ovvietà. Non si può saltare.


Nella sua filosofia troviamo le radici dell’esistenzialismo, dell’ermeneutica, dello strutturalismo e del decostruzionismo: insomma, l’eco della sua riflessione accompagna tutta la filosofia del Novecento. E poi le perversioni del pensiero, come quello nazista, si combattono ragionando, non censurando. Questo il succo del suo discorso.

Sempre nell’amore.

La vicenda con la Arendt merita di essere raccontata. Di famiglia ebraica, Hannah Arendt nasce nel 1906 ad Hannover, nella Germania centro-settentrionale.


Nel 1924 si iscrive all’università di Marburgo, dove Martin Heidegger ricopre da un anno la cattedra di filosofia. Lei ha diciotto anni, Martin trentacinque, è sposato con Elfride Petri e ha due figli. Ricordando quegli anni, Hannah scrive di lui: “C’è un maestro, e ora si può forse imparare a pensare”.


Segretamente, i due iniziano a frequentarsi. Il rapporto però è sbilanciato: Martin vede in Hannah una brillante studentessa, una preziosa musa ispiratrice, ma non le attribuisce quelle qualità di reale interlocutrice “alla pari”.


Con l’avvento del nazismo, Hannah prende le distanze dal suo maestro. Le vicende storiche la portano lontano anche fisicamente. Nel 1929 sposa il filosofo Günther Stern e nel 1933 viene arrestata con sua madre per le origini ebraiche; rilasciata, pochi giorni dopo fugge a Parigi. Poi emigra in America, dove sposa in seconde nozze Heinrich Blücher, un poeta e filosofo tedesco, membro del partito comunista.


Terminata la guerra, Hannah rivede l’antico maestro con cui si riconcilia, tanto da difenderlo durante il processo in cui viene accusato di aver favorito il regime nazista. A quel punto Martin mette al corrente la moglie Elfride della loro storia d’amore, definendo Hannah “la passione della sua vita”.


Alla pubblicazione di Vita activa, comparsa in Germania nel 1960, Hannah comunica in una lettera a Martin che avrebbe desiderato dedicare a lui quel libro, se le cose fossero andate diversamente. Nella minuta della lettera si legge: “Come faccio a dedicarlo a te, l’intimo amico, cui sono rimasta fedele e infedele, e sempre nell’amore?”.


Ma come si fa a dire con spirito leggero “sempre nell’amore” a uno che nei Quaderni neri scrive che la Shoah rende possibile la “purificazione dell’Essere”?


Come si fa ad amare uno così, uno che di fronte all’immane tragedia vissuta dal popolo ebraico nel Novecento fa sfoggio di una sensibilità pari a quella di un cavadenti medievale?


Che cosa avrà mai visto Hannah in Martin? E Martin in Hannah, l’intellettuale Hannah, che considerava il nazismo il frutto più stupido e banale della malvagità umana?


Come poteva una così essere la “passione della sua vita”? Lui che vedeva nel nazismo l’alba di un mondo nuovo?


Hannah morì per un attacco cardiaco nel 1975. Martin morirà qualche mese dopo, nel 1976. Alcune verità si possono raccontare; altre è meglio che finiscano nella tomba. Nel dubbio, è quello che hanno fatto Hannah e Martin.


L’Essere si presenta sempre come Esserci.


Essere e tempo è la prima, nonché la più celebre opera di Heidegger. Nella citazione di apertura, viene posta questa domanda tratta dal Sofista di Platone:


Perché l’Essere piuttosto che il nulla?


Tradizionalmente la filosofia riteneva che l’Essere fosse qualcosa di immobile. Ma − osserva Heidegger − come posso dire “io sono” quando in me si agitano i ricordi del passato, le preoccupazioni per il presente e le speranze per il futuro? L’Essere dunque “si agita” nel tempo; di più, l’Essere è il tempo, perché non sarebbe senza il tempo.


Alcuni versi di Jorge Luis Borges ci possono aiutare a capire in modo intuitivo questo concetto:


Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume;
è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre;
è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco.


Detto altrimenti, noi non siamo gli specchi del mondo, perché anche noi siamo il mondo, e il mondo non è un contenuto, come l’acqua in un bicchiere, ma è anche il bicchiere. L’Essere dunque non si presenta a noi in modo astratto, ma come “Esserci”, cioè come esistenza, qualcosa di concreto. Sta a noi percepirlo per quello che è: se così facciamo la nostra esistenza sarà autentica; nel caso contrario, inautentica.


Nella vita inautentica ciascuno crede di essere se stesso, mentre in realtà vive e pensa come “si vive e si pensa”; vede e giudica come “si vede e si giudica”. Così fan tutti, così faccio io. È la dittatura dell’impersonale “si” che riduce l’uomo da “quello che è” a “quello che fa”. E così, da essere unico e irripetibile qual è, l’uomo diventa uno studente, un professore, un commerciante, un manager, un operaio.


Posso alzarmi al mattino o no; posso andare a lavorare o no, posso divertirmi o no, telefonare, viaggiare o no. La vita è fatta di infinite possibilità. Solo una cosa è certa: la morte. Dunque la morte non è un fatto tra i fatti, ma la meta verso cui tende la vita. E il senso di un viaggio sta nella meta.


La paura è sempre paura di qualcosa; l’angoscia invece non ha un contenuto: è quel senso di smarrimento che si scatena di fronte alla morte, perché della morte non sappiamo nulla.


Ma se solo la morte conosce la morte,
allora la morte è “l’esperienza del nulla”.


E poi, ci è stato forse chiesto in quale epoca ci sarebbe piaciuto vivere? O in quale luogo della Terra? No, siamo stati “gettati nel mondo” come una cosa tra le cose.


Se dunque la vita inautentica consiste “nel fuggire di fronte alla morte”, quella autentica si manifesta nel “vivere per la morte”. Il che non vuol dire crogiolarsi nel pensiero della morte, né desiderare il suicidio, ma il ritenere che la morte faccia parte della vita in quanto ne è la meta.


L’angoscia non è quindi uno stato emotivo doloroso da curare con psicofarmaci, ma il modo con cui il nulla si rivela. Il che non comporta nessuna conseguenza pratica: chi vive in modo autentico la propria vita compie gli stessi gesti di chi vive in modo inautentico, ma con la consapevolezza di chi ha avuto la rivelazione del nulla.


Tutto chiaro? Certo, ma non per Heidegger.

Invece di compiacersi per essere risalito fin là dove il linguaggio s’inabissa nel nulla, Heidegger va in crisi, sente di essere andato fuori strada rispetto al suo progetto originario. La sua indagine sull’Essere si era trasformata in una riflessione sull’esistenza.


Come se non bastasse, la pubblicazione nel 1927 della prima parte di Essere e tempo aveva addirittura innescato un dibattito che porterà alla nascita di una nuova corrente filosofica, l’esistenzialismo, espressione di quel senso di disperazione e di fallimento che pervade gli animi tra le due guerre mondiali.

Ma che disperazione e fallimento! Il nazismo avrebbe aperto all’umanità le porte di un nuovo inizio. L’atmosfera tragica di quegli anni ne era la prova. Citando Platone, così Heidegger conclude il suo celebre discorso di rettorato del 1933:


Tutto ciò che è grande è nella tempesta!


Una citazione a effetto che ci fa capire quale fosse lo stato d’animo di Heidegger in quel periodo, sebbene Platone avesse espresso un concetto diverso: “Tutto ciò che è grande è instabile”, scrive nella Repubblica.


Ma ad Heidegger piacevano i giochi di parole. “Tempesta” in tedesco si dice Sturm, e il termine rimandava alle SA (Sturmabteilung), le famigerate “squadre d’assalto” che avevano consentito a Hitler di diventare il Führer della Germania.


Potete dunque immaginare come rimbombava quella citazione nella testa di chi l’ascoltava all’università di Friburgo. Era come iscrivere Platone al partito nazista.


Heidegger abbandona dunque Essere e tempo al suo destino senza completarlo e si pone nuovamente sulle tracce dell’Essere studiandone la storia. Questo a lui interessava, altro che piagnistei esistenzialisti.


L’epoca presocratica rappresenta per Heidegger il solo momento in cui la filosofia era in perfetta armonia con l’Essere. A partire da Platone e Aristotele, questa armonia viene invece scardinata. L’Essere diventa cioè qualcosa di diverso dal pensiero, dall’ontologia si passa alla metafisica.


Apriamo una parentesi. Tradizionalmente i termini metafisica e ontologia vengono usati come sinonimi; a partire dal Novecento, e soprattutto con Heidegger, tendono invece ad assumere significati diversi: per ontologia si intende la ricerca dell’Essere (che cosa c’è), mentre per metafisica s’intende la descrizione dell’Essere (che cos’è quello che c’è).


Per Heidegger dunque la metafisica è qualcosa di falso che ci opprime. Occorre invece continuare a ricercare l’Essere, come fa l’ontologia. Fine della parentesi.


La metafisica antica e medievale pensava l’Essere come il Bene supremo o il Dio creatore cristiano.


Anche Nietzsche, secondo Heidegger, nonostante tutti gli anatemi scagliati contro la metafisica, non è stato capace di liberarsene, gli ha solo dato un contenuto nuovo: la volontà di potenza. E la tecnica che innerva la nostra epoca altro non è che la massima espressione della volontà di potenza: il nuovo Bene supremo, il nuovo Dio creatore!


La tecnica non plasma forse la realtà in base alle sue leggi, cioè a sua immagine e somiglianza? Quello che per Aristotele aveva il compito di muovere il cielo e la terra, oggi è la tecnica.


La ricerca sull’Essere di Heidegger, che sembrava campata in aria, si trasforma così in un grido di allarme:


Attenzione, la tecnica è come lo specchio deformante delle streghe:
chi la usa non si accorge di essere usato.


La tecnica è cioè il nuovo Dio, che oggi l’umanità adora. Il che ci porta a vivere in una desolazione scambiata per concretezza. Tutti sono connessi, tutti seviziano tastiere, ma nessuno si chiede: che senso ha quello che faccio?


Diavolo di un Heidegger, pensava Oberosler quando rifletteva su questi argomenti, aveva capito tutto. Proviamo ad applicare il suo pensiero ai giorni nostri.


Oggi il mondo della metafisica è quello del web, meravigliosa invenzione tecnica della volontà di potenza. Nel mondo del web vige la dittatura del “si dice” e “si pensa” di cui Heidegger parla in Essere e tempo.


L’eccesso tecnologico poi, altra intuizione di Heidegger, invece di darci maggiore sicurezza ci fa sprofondare nell’insicurezza. Tutti noi, per fare il più banale degli esempi, ne facciamo esperienza quando consultiamo Google per sapere di quale malattia soffriamo. Qualsiasi bua ci apre scenari da incubo. Un algoritmo si fa gioco di noi. È la metafisica, miei cari, direbbe Heidegger, che ha trovato un nuovo modo per torturare l’umanità.


In contrapposizione alla tecnologia, Heidegger propone il “pensiero meditativo”. “Ancora non pensiamo – scrive al riguardo − perché abbiamo cessato di ascoltare l’Essere”. Basta metafisica, dunque, dobbiamo tornare all’ontologia, alla ricerca dell’Essere. Ma come? Attraverso la poesia, in quanto la poesia è il manifestarsi dell’Essere nel linguaggio.


“Dio è morto” non significa per Heidegger che non ci sia alcun dio, ma che dio è stato ucciso dalla metafisica e dalla teologia. Il dio di cui parla Heidegger è un dio che non coincide affatto con il Bene supremo o con il Dio cristiano: da qui l’uso frequente nei suoi scritti del termine al plurale, “gli dèi”.


Dio per Heidegger è qualcosa di sacro, di poetico, qualcosa di natura cosmica che ha a che fare con l’Essere e il cui ruolo nel mondo contemporaneo è stato usurpato dalla tecnica.


In conclusione, oggi il compito della filosofia è quello di occuparsi dell’Essere per risalire fino al divino. Quando ciò avverrà, l’uomo non si sentirà più smarrito, sarà “tornato a casa”. Una speranza, più che una possibilità. Perché l’uomo è un meteorite finito nelle pieghe della Terra, preda di una miriade di emozioni che rendono assai difficile il raccapezzarsi.


La riflessione di Heidegger sull’Essere si conclude così con un grido che rimane strozzato in gola:


Ormai solo un dio ci può salvare!

Il rasoio di Ockham
Il rasoio di Ockham
LA STORIA DELLA FILOSOFIA IN UN ROMANZO